Si è fatta permanente la crisi politico-istituzionale apertasi in Perù lo scorso 8 dicembre in occasione della destituzione dell’ex presidente Pedro Castillo.
A determinare la definitiva rottura del Patto Sociale fra governo e cittadinanza, le ripetute violenze ad opera dalle Forze Armate.


Introduzione

Si è fatta permanente la crisi apertasi lo scorso 8 dicembre in occasione della destituzione dell’ex presidente Pedro Castillo[2]. A determinare la definitiva rottura del Patto Sociale fra governo e cittadinanza, le ripetute violenze ad opera dalle Forze Armate[3]

Nascono le prime associazioni dedicate alle vittime delle proteste.

Da oltre 70 giorni sono in costante crescita le manifestazioni e i blocchi di strade e aeroporti in tutto il Perù. Le proteste si sono intensificate in particolare nel Sud del paese, dove si è registrato anche il tasso più elevato di violenza da parte della Polizia Nazionale, rimasta coinvolta nella morte di 59 persone. Come testimonia Ojo Público – che sin dai primi giorni ha organizzato un memoriale online dedicato agli adolescenti e ai giovani uccisi[4] – dal 7 dicembre più di 1000 civili, e 500 agenti, sono rimasti feriti. Oltre ai vari atti di violenza, l’Ufficio del difensore civico ha registrato numerosi attacchi a istituzioni pubbliche e private, saccheggi, danni agli aeroporti e scontri diretti con i membri della Polizia Nazionale; tra questi, José Luis Sanocco Quispe, sottufficiale della Polizia trovato carbonizzato a Juliaca, Puno. Quest’ultima è, insieme ad Ayacucho, una delle regioni più devastate dal conflitto armato fra civili e forze di polizia. Proprio a Juliaca – cittadina contadina vicina al confine con la Bolivia – lo scorso 9 gennaio, 18 civili sono morti a causa dei colpi di pistola esplosi dai Militari contro i manifestanti riuniti nei pressi dell’aeroporto locale. Tra le vittime: Marco Antonio Samillán Sanga, giovane medico, ucciso da un colpo di pistola al cuore mentre era intento ad assistere un ragazzo che aveva inalato del gas lacrimogeno. Come raccontato da diversi testimoni, al momento della sparatoria Sanga si trovava all’aeroporto insieme con altri volontari mentre i manifestanti stavano cercando di prendere il controllo della pista d’atterraggio. Esattamente un mese dopo, proprio in nome di quella che è stata ribattezzata “La strage di Juliaca”, la popolazione si è mobilitata per commemorare le vittime e chiedere giustizia. Tuttavia, anche in questo caso, la risposta delle forze dell’ordine non si è fatta attendere, portando nuovamente al ricorso a proiettili e gas lacrimogeni che hanno provocato il ferimento di almeno 23 persone[5]. Come riferito da alcuni giornalisti lì presenti, le aggressioni da parte dei poliziotti sono poi proseguite durante la serata, coinvolgendo sia chi aveva preso parte nelle proteste antigovernative, che tutte le persone lì riunite per commemorare le vittime della precedente manifestazione[6]. Ed è proprio in nome delle 17 vittime della “Strage di Juliaca” che i familiari dei coinvolti hanno fondato l’Asociación de Mártires y Victimas del 9 de Enero. Durante la conferenza stampa di presentazione, il presidente Raúl Samillán Sanga – fratello del giovane medico ucciso nelle proteste – ha ribadito con forza la necessità di ottenere giustizia per tutti i caduti a causa dell’inerzia del governo. In tal senso, Samillán Sanga ha dichiarato: «chiediamo che venga istituita una commissione autonoma che indaghi su quanto accaduto durante i massacri, e che alla fine quest’ultima si raccomandi affinché lo Stato si adegui, perché se ci aspettiamo che il governo lo faccia di sua spontanea volontà, non lo farà»[7]. In chiusura Samillán Sanga ha annunciato l’idea di creare una nuova associazione nazionale delle vittime, dedicata alla memoria di tutti i caduti dall’insediamento di Boluarte ad oggi. Il bagno di sangue, però, non si sta fermando al solo dipartimento di Puno, ma sta coinvolgendo anche: Apuríma, Junín, Arequipa, La Libertidad e Cusco, tutte terre popolate da numerose comunità quechua e chanka. Proprio Cusco – in epoca precoloniale capitale dell’impero Inca – è stata al centro di violenti scontri, in particolare nelle aree limitrofe all’aeroporto. Tra le numerose vittime c’è, ad esempio, Remo Candia, ucciso da un colpo d’arma da fuoco all’addome. Candia, contabile e leader quechua, è stato ferito a morte mentre era alla guida di un folto gruppo di manifestanti del suo villaggio, mobilitatisi per chiedere le dimissioni di Boluarte e ottenere giustizia per tutte le vite spezzate dai colpi di pistola delle forze di polizia. Parallelamente, l’Esecutivo ha deciso di prolungare per ulteriori 30 giorni, a partire dal 14 febbraio, lo stato d’emergenza in 44 distretti nelle regioni di Ayacucho, Huancavelica, Cusco, Junín. Secondo il provvedimento emanato, la Polizia Nazionale sarà incaricata di mantenere il controllo dell’ordine interno, bloccare le attività terroristiche e la commissione di altre attività illecite, coadiuvata dalle Forze Armate. In virtù dell’estensione dello stato d’emergenza, si prevede inoltre che, l’esercizio dei diritti costituzionali relativi all’inviolabilità del domicilio, alla libertà di transito sul territorio nazionale, alla libertà di riunione e sicurezza personale, saranno limitati e/o sospesi a seconda dei casi.

Perché la popolazione è così arrabbiata?

Come sappiamo, sin dai giorni immediatamente successivi alla destituzione di Castillo, i cittadini peruviani – in particolare gli abitanti delle Ande Meridionali e dei quartieri più poveri di Lima, vere e proprie roccaforti per l’ex presidente – non hanno esitato a sostenere il loro leader, accusando il Congresso di aver inscenato un colpo di stato scegliendo di aggirare la volontà popolare. Per molti, Castillo – date le sue origini e la sua storia personale di maestro ed ex sindacalista – rappresentava un modello di riferimento, una figura a cui ispirarsi e di cui avere fiducia, nonostante le numerose accuse di corruzione. A tali motivazioni si è poi sommata: l’indignazione per le numerose morti ad opera delle forze di polizia, e le accuse di terrorismo e narcotraffico attribuite dal Governo a tutti quelli che stavano scendendo in strada. Tutto ciò ha definitivamente spezzato il rapporto di fiducia nei confronti dell’Esecutivo, finendo con l’incoraggiare, indirettamente, le manifestazioni, nonostante il costo economico derivante dal blocco di strade e aeroporti. Sarebbe, tuttavia, riduttivo e parziale limitare il flusso costante di proteste solo a ragioni di ordine politico – istituzionale. Dietro alle proteste c’è un sentimento molto antico e sedimentato. Quella in corso, infatti, non è più soltanto una lotta legata alla gestione dell’“affaire Castillo”, ma è qualcosa di molto più profondo, legato a ragioni di ordine sociale ed etnico insite nelle comunità indigene e contadine delle Ande e dell’Amazzonia che, da secoli, si sentono emarginate e discriminate dalle élite politiche – in gran parte bianche – al potere. Alle spalle delle proteste c’è, dunque, tutto il rancore provocato dal disprezzo verso gli indios, accompagnato dalla volontà di ribaltare le ataviche diseguaglianze economiche e razziali presenti nelle varie regioni del paese. In questo senso, l’elevato numero di manifestanti uccisi – nella maggior parte dei casi appartenenti a comunità indie – ha finito con l’esacerbare la rabbia degli abitanti dell’entroterra agricolo. Questo è, ad esempio, proprio il caso di Puno, dove i profitti dell’estrazione dell’oro e del rame non hanno in alcun modo ridotto la povertà e la fame. Ed è proprio da Puno – regione in gran parte indigena, in cui Castillo ha ottenuto il 90% di consensi nel 2021 – si è espresso uno dei governatori più ostili a Boluarte. Richard Hancco, oltre a escludere ogni possibilità di dialogo con l’Esecutivo, riferendosi alle ripetute uccisioni ha dichiarato: «Per noi questo è un governo assassino. Non c’è alcun valore per la vita. È assolutamente inaccettabile che un governo provochi più di 40 morti e che non ci sia stata nessuna dimissione»[8].

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I presidenti latinoamericani ci invitano a riflettere sulle violenze in Perù

Si compattano, ancora una volta, i capi di stato latinoamericani decisi, innanzitutto, a denunciare le violazioni dei diritti umani perpetrate nel paese andino. La crisi in corso è stata, in questo senso, centrale nei dibattiti interni del Vertice delle Comunità degli Stati Latinoamericani e Caraibici (CELAC) tenutosi a Buenos Aires lo scorso gennaio. Durante l’incontro diversi presidenti – oltre a riconfermare il proprio sostegno a Castillo – hanno evidenziato la gravità della situazione in atto, ponendo l’accento sulle numerose denunce di abusi ad opera delle forze dell’ordine. Uno degli interventi più duri è stato sicuramente quello del presidente cileno Boric. Boric – che a dicembre aveva condannato il comportamento di Castillo e il suo tentativo di scogliere il Congresso – ha chiesto Boluarte un “cambio di rotta” nella gestione della crisi. In particolare, il presidente cileno ha dichiarato: «Non possiamo rimanere indifferenti quando oggi nella nostra sorella Repubblica del Perù, con il governo guidato da Dina Boluarte, le persone che escono per chiedere ciò che considerano giusto, finiscono per essere uccise da coloro che dovrebbero difenderle. Oltre 50 persone hanno perso la vita, e questo dovrebbe scioccarci. È inaccettabile che le università rivivano le tristi scene dei tempi delle dittature del Cono Sud, come è accaduto di recente con il violento ingresso della polizia all’università di San Marcos[9]. […] Pertanto, prendiamo atto dell’urgente necessità di un cambio di rotta in Perù, perché il saldo che ha lasciato la strada della repressione e della violenza è inaccettabile per noi che difendiamo la democrazia e i diritti umani»[10]. Concorde anche il presidente colombiano Petro che su Twitter, a proposito della “Strage di Juliaca” ha scritto: «Quello che sta avvenendo in Perù è un massacro contro la popolazione. È quindi indispensabile una soluzione politica e pacifica. Occorre fermare le morti e sedersi a parlare. Il sistema interamericano dei diritti umani deve agire con urgenza. Le misure cautelari diventano imprescindibili»[11]. Tali posizioni, però, non sono state accolte in maniera particolarmente positiva dai membri del Parlamento peruviano tanto che, lo scorso 18 febbraio, Petro è stato dichiarato “persona non grata”[12] in Perù. La mozione – approvata dopo un’ora di dibattito, 72 voti favorevoli, 29 contrari e 7 astenuti – è stata presentata dai partiti di destra in seguito ad una recente dichiarazione del leader colombiano secondo cui, in Perù «marciano come nazisti contro il loro stesso popolo, infrangendo la Convenzione americana sui diritti umani»[13]. La mozione congressuale include, inoltre, un’esortazione ai ministri colombiani degli Interni e degli Esteri affinché facciano sì che Petro non entri nel territorio nazionale della Repubblica del Perù.

Amnesty International fotografa una situazione esplosiva in cui «il razzismo sistemico radicato nella società peruviana e nelle sue autorità da decenni, è stato il motore della violenza esercitata come punizione contro le comunità che hanno alzato la voce»

Le morti connesse alla gestione delle proteste in Perù hanno portato Amnesty International a produrre un rapporto sull’operato di Esercito e Polizia Nazionale Peruviana, entrambe colpevoli di aver sparato illegittimamente contro la popolazione. Dalle indagini svolte è emerso che i Militari stanno utilizzando armi letali (proiettili) e meno letali (gas lacrimogeni) in modo indiscriminato contro la popolazione, in particolare contro indigeni e contadini, anche quando non vi era nessun rischio apparente per la vita. Denuncia la direttrice della divisione Americhe dell’Organizzazione: «Con un bilancio di 48 persone uccise dalla repressione statale, 11 nei blocchi stradali e un poliziotto, nonché centinaia di persone ferite in un tragico periodo di violenza di Stato, le autorità peruviane hanno consentito che, per oltre due mesi, l’uso eccessivo e letale della forza fosse l’unica risposta del governo al clamore sociale di migliaia di comunità che oggi chiedono dignità e un sistema politico che garantisca loro la tutela dei diritti umani fondamentali»[14]. Nel rapporto, Amnesty fa notare che il numero di possibili morti arbitrarie dovute alla repressione statale è concentrato, in maniera eccessivamente sproporzionata, nelle regioni con una maggioranza indigena; ciò, pertanto, implica che le autorità statali hanno agito in nome di un marcato pregiudizio razzista. Amnesty, inoltre, pone l’accento su due aspetti in particolare, la lentezza e l’inattendibilità delle indagini e la stigmatizzazione dei manifestanti; quest’ultima attuata con l’intento di delegittimare le richieste dei manifestanti e giustificare le violazioni dei diritti umani. Per quanto riguarda il primo aspetto, l’Organizzazione dichiara di aver «raccolto informazioni secondo cui, nonostante le azioni intraprese dal pubblico ministero, a quasi due mesi dall’accaduto non erano ancora state intraprese azioni chiave per le indagini, come la realizzazione di determinate perizie o la raccolta di testimonianze. In alcuni casi la catena di custodia di alcune prove non sarebbe stata preservata, limitando la possibilità che le indagini si rivelino autenticamente imparziali e complete. L’Organizzazione ha identificato casi in cui le indagini iniziali non riflettevano fedelmente i fatti, come il caso di Beckham Romario Quispe Rojas, figlio di un contadino quechua, morto durante una protesta a Huancabamba. Nell’autopsia non è stato rivelato il tipo di proiettile che ha causato la sua morte e, quest’ultimo, è stato consegnato soltanto un mese dopo i fatti»[15]. «La grave crisi dei diritti umani in Perù – si conclude nell’inchiesta – è stata alimentata dalla stigmatizzazione, criminalizzazione e razzismo nei confronti delle comunità indigene e contadine che oggi scendono in piazza esercitando la propria libertà di espressione e di assemblea pacifica, e come risposta sono state violentemente punite. Gli attacchi generalizzati contro la popolazione hanno conseguenze di responsabilità penale individuale delle autorità, comprese quelle ai massimi livelli, per la loro azione e omissione nel porre fine alla repressione»[16].


Note

[1] Manifestanti raccolti in piazza Túpac Amaru a Cusco, in Perù, mentre protestano contro il governo Boluarte. Fotografia: Michael Bednar/Getty Images, https://www.theguardian.com/world/2023/jan/30/journey-through-the-centre-of-peru-uprising-dina-boluarte?CMP=Share_iOSApp_Other.
[2] Per maggiori approfondimenti si veda: V. FRANZESE, «Terremoto politico in Perù: destituito Pedro Castillo», Opinio Juris, 13/12/2022, https://www.opiniojuris.it/terremoto-politico-in-peru-destituito-pedro-castillo/.
[3] Per maggiori approfondimenti sulle prime proteste e sull’immediata reazione del Governo in carica si veda: V. FRANZESE, «Scontri e proteste in Perù, un escalation di violenza travolge il paese andino», Opinio Juris, 24/12/2022, https://www.opiniojuris.it/scontri-e-proteste-in-peru/.
[4] Per maggiori approfondimenti sul memoriale si veda: https://ojo-publico.com/4045/un-memorial-los-adolescentes-y-jovenes-muertos-las-protestas.
[5] Comunicado Oficial n°12, Ministero de Salud, 9/02/2023, https://twitter.com/JaimeHerreraCaj/status/1623875534823256064?s=20.
[6] «Represión policial deja más de 20 heridos en Juliaca», Perú, TeleSur, 10/02/2023, https://www.telesurtv.net/news/peru-represion-juliaca-mas-veinte-heridos-20230209-0037.html.
[7] «Fundan la Asociación de Mártires y Víctimas en Puno, Perú», TeleSur, 15/02/2023, https://www.telesurtv.net/news/peru-puno-asociacion-martires-victimas-20230215-0019.html.
[8] DAN COLLYNS, «‘It was a massacre’: fury and grief amid Peru’s worst political violence in year», The Guardian, 13/01/2023, https://www.theguardian.com/world/2023/jan/13/peru-protests-political-unrest-deaths.
[9] Il 21 gennaio la polizia ha arrestato arbitrariamente dozzine di persone presso l’Universidad Nacional Mayor de San Marcos, nonostante non fossero stati stabiliti i presupposti legali che giustificavano tali arresti. Durante l’operazione sono state aggredite e detenute 192 persone tra studenti, giornalisti e difensori dei diritti umani. L’operazione, secondo Amnesty International, ha implicato il compimento di trattamenti crudeli, inumani e degradanti.
[10] ROCÍO MONTES, «Tensión entre Perú y Chile por las críticas de Gabriel Boric a “los atropellos” contra los manifestantes», El País, 26/01/2023, https://elpais.com/chile/2023-01-26/tension-entre-peru-y-chile-por-las-criticas-de-gabriel-boric-a-los-atropellos-contra-los-manifestantes.html.
[11] Si veda: https://twitter.com/petrogustavo/status/1612956968410390530?s=20.
[12] Finora Gustavo Petro è la terza persona, dopo l’ambasciatore messicano Monroy e l’ex presidente boliviano Morales, ad essere interdetta dal paese andino da quando Boluarte è presidente.
[13] «Perù dichiara il leader colombiano Petro ‘persona non grata», Agenzia Ansa, https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/americalatina/2023/02/18/peru-dichiara-il-leader-colombiano-petro-persona-non-grata_9ad7e6ee-16ff-4c80-9a98-5625010d28a0.html.
[14] AMNESTY INTERNATIONAL, «Perù: la represión letal del estado es una muestra más del desprecio hacia la población indígena y campesina», 16/02/2023, https://amnistia.org.pe/noticia/represion-estado-poblacion-indigena-campesina/.
[15] Ibidem.             
[16] Ibidem.


Foto copertina: Crisi politico–istituzionale in Perù