La rotta balcanica: viaggio da Bihać a Trieste


Una questione europea: Viaggi interminabili alla ricerca della felicità


H. non avrà più di 16 anni. Ha i capelli biondo scuro, gli occhi chiari, uno zainetto in tessuto mezzo vuoto. Si sta facendo curare i piedi nella Piazza del Mondo a Trieste da una volontaria dell’associazione Linea d’Ombra che dal 2019 fornisce cure mediche di prima necessità, vestiti e qualcosa da mangiare alle persone in transito da Trieste.
H. arriva dall’Afghanistan, è probabilmente di etnia Pashtun ed è appena arrivato dopo aver tentato per l’ennesima volta di attraversare i confini che lo separano da Trieste. Questa non è la destinazione finale, ma già è tanto essere riusciti ad allontanarsi dalla Croazia.

Poco più in là, su un’altra panchina, Lorena Fornasir, fondatrice di Linea d’Ombra insieme al marito Gian Andrea Franchi, sta medicando le piaghe dei piedi di un altro ragazzo. Questo la guarda sorridendo: si erano conosciuti poco tempo prima a Bihać, Bosnia-Erzegovina. Si riconoscono, entrambi commossi. Lorena chiede notizie degli altri compagni di viaggio, il ragazzo scrolla le spalle. Vorrebbe andare in Svizzera, racconta. Sembra così tanto felice di aver superato un tratto di viaggio che pareva impossibile, di avere un paio di scarpe nuove e di aver ritrovato Lorena, che alle nostre perplessità circa la scelta della meta di destinazione risponde solo con dei sorrisi. Da una parte c’è la barriera linguistica – come glielo spieghi che la Svizzera è in Europa ma non in Unione Europea e che anche per noi è difficile andarci? – dall’altra una differenza di esperienze. Lui ha appena affrontato mesi, forse anni, di cammino. Ha mangiato terra, bevuto acqua sporca, dormito sotto la neve, sotto il sole, in piedi, subito vessazioni alle frontiere, minacce, botte, umiliazioni. Finalmente è qui, in Italia. Cosa vuoi che sia arrivare in Svizzera?
“Della mia famiglia sono rimasto solo io”.

Bihać è una città tranquilla a pochi chilometri dal confine con la Croazia. Ci si arriva attraversando colline verdissime e al centro della città si è accolti dallo schiumare dell’Una, fiume che dà il nome a questo cantone bosniaco. A circa 30 km da qui c’è il nuovo campo di Lipa, risorto dalle ceneri di quello bruciato questo inverno – quando si parlava molto di più della rotta balcanica, e foto di persone migranti sotto la neve paragonate agli ebrei nei campi di concentramento, intasavano le pagine social.

Adesso ci sono 25° C, nessuna traccia di neve, e le persone hanno ricominciato a muoversi tentando il game che, a dispetto del nome, è la prova poco divertente di passare le frontiere a piedi o con mezzi di fortuna[1].

Incontriamo i volontari di No Name Kitchen, organizzazione spagnola che fornisce materiali di prima necessità alle persone in transito. Sono basati a Velika Kladuša, altra città di confine a un’ora da Bihać. Ci raccontano che una settimana prima del nostro arrivo è stato sgomberato un grande accampamento nel centro della città, in un vecchio edificio abbandonato chiamato Dom Penzionera.
Visto da fuori sembra un grosso esoscheletro di cemento, travi di ferro e mattoni a vista. Ѐ stato recintato dalla polizia per impedirvi l’accesso, e in alcuni punti si vedono tracce di un incendio. Lo sgombero pare essere stato molto tranquillo, al contrario di quello avvenuto pochi giorni dopo dentro il bosco (o jungle) dove la polizia è tornata subito dopo per dare fuoco all’accampamento.

No Name Kitchen è una delle realtà presenti sul territorio che si occupa di supportare persone in transito con distribuzioni di materiale necessario come sacchi a pelo, coperte, tende, scarpe e altro. Queste distribuzioni sono diventate sempre più difficili da fare: la polizia tiene d’occhio i movimenti delle associazioni presenti sul territorio e distribuisce fogli di via con molta facilità. Seguendo il trend greco, anche la Bosnia ha deciso che solo associazioni registrate possono operare sul territorio, e possono farlo solo in determinati modi e contesti.

Ne sa qualcosa padre Stanko Perica, direttore di JRS (Jesuit Refugee Service) per l’area Balcani. Lo incontriamo nel quartier generale di JRS a Bihać e racconta che nonostante loro siano una delle poche organizzazioni accreditate a poter fare outreach insieme a OIM, Croce Rossa, DRC e Save the Children, hanno dovuto fermare le distribuzioni di materiali di prima necessità dopo che la polizia ha fatto un sopralluogo nel loro magazzino e lo ha dichiarato inadeguato perché non fornito di frigoriferi, anche se loro non consegnano cibo deperibile.

La causa di questa interruzione sarebbe in realtà dovuta al fatto che, durante le distribuzioni, si creavano code di gente considerevoli nel loro giardino e questo avrebbe spinto i vicini a lamentarsi. Il motto sembra essere “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”.

Come in Italia, la “crisi” migratoria (può essere ancora definita tale dal momento che dura da quasi un decennio?) sta venendo ampiamente sfruttata a livello politico per vincere le elezioni: i politici promettono di risolvere il degrado portato dai migranti facendoli sloggiare, le persone votano, niente di significativo succede se non un aumento del razzismo e delle violenze, e la vita continua.  La preoccupazione principale sembrerebbe quella di togliere i migranti dai centri urbani, tant’è che ci sono regole quali: persone migranti non possono usare i mezzi pubblici, non possono entrare in bar e ristoranti. Non possono muoversi, ma non possono neanche restare. Suona familiare?

Padre Stanko racconta della situazione attuale tra Bosnia e Croazia. Molti dei campi ufficiali in Bosnia stanno venendo chiusi per concentrare le persone a Lipa. Problema: Lipa è a tre ore di distanza a piedi da Bihać, quindi molto lontano dal confine; inoltre, l’ultimo tratto per raggiungere il campo è di strada sterrata in salita. Impraticabile per persone disabili o in difficoltà. Oltre alla logistica, Lipa, come la maggior parte dei campi, non offre servizi di base sufficienti e il cibo scarseggia.

Altro problema, che secondo chi scrive è forse il problema principale: i pushback. Padre Stanko ci racconta di una famiglia, trasferitasi in uno squat a 300 metri dal confine, che, per sette mesi, ogni notte, ha tentato l’attraversamento, e ogni notte è stata respinta. Le storie di violenza da parte della polizia croata abbondano: due attivisti che incontriamo ci raccontano che un loro amico che ha tentato il game è stato preso dalla polizia e chiuso in una stanza minuscola, tanto da riuscire a stare solo in piedi, per diversi giorni. Un altro è stato picchiato per poi essere abbandonato in un fiume per dodici ore con una spalla dislocata. Ѐ stato ripescato appena in tempo. Tutte le persone che abbiamo incontrato o di cui ci è stato riferito hanno provato il game non meno di dieci volte. Un’altra attivista bosniaca ci racconta che pochi giorni fa un suo amico tunisino ha perso la vita a causa di un’overdose. Era appena tornato dopo essere stato respinto per l’ennesima volta. Ma i respingimenti non avvengono solo in frontiera.

Padre Stanko racconta come a Zagabria capitasse spesso che i Gesuiti accompagnassero persone a fare richiesta d’asilo (diritto garantito dall’articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea[2]), ma che avessero ora ricevuto l’ordine da parte della polizia di non farlo più. Il motivo è molto semplice: se non sei accompagnato da qualcuno che sa e fa valere i tuoi diritti, sei più vulnerabile, ergo posso impedirti di fare richiesta e rimandarti indietro immediatamente. Ad oggi, nel 2021, la Croazia ha accettato solo otto richieste d’asilo. Quaranta nel 2020.

Nonostante le continue denunce di soprusi e violazioni dei diritti umani da parte della polizia croata – finanziata anche da noi cittadini europei[3]–, le istituzioni europee sembrano determinate nel continuare ad assegnare al paese il ruolo di muro primario sulla rotta balcanica. Padre Stanko ci riferisce di una conversazione avuta con la segretaria dell’Interno croata la quale gli avrebbe detto che il Parlamento Europeo ha promesso alla Croazia che non ci saranno monitoraggi esterni delle loro forze di polizia. In tutto questo, presto il paese entrerà in area Schengen: il premio per un lavoro ben svolto.

L’aumento dei pushback sta andando di pari passo con un aumento della criminalizzazione della solidarietà. Oltre a non poter monitorare le polizie di frontiera, fatta eccezione per il Border Violence Monitoring Network, che però può solo raccogliere testimonianze, chiunque si trovi nella posizione di poter o voler aiutare sa che può andare incontro a denunce, violenze o problemi vari. In Italia lo abbiamo visto con giornalistə, attivistə e operatorə umanitariə in mare e in terra.

A Trieste, Gian Andrea Franchi (84 anni) fondatore insieme alla moglie dell’associazione Linea d’Ombra, è tuttora indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per aver ospitato in casa sua una famiglia afghana[4]. A Velika Kladuša un attivista ci racconta che, durante una distribuzione, unə di loro è statə aggreditə da un passante bosniaco che l’ha presə per il collo.

La solidarietà bosniaca con le persone in transito però è presente. Nonostante lo sfruttamento della questione migratoria per fini politici, esistono tante realtà associazionistiche che non solo vogliono prestare un aiuto immediato per necessità quali quelle di cibo e riparo, ma vogliono lavorare più a lungo termine sull’integrazione tra popolazione locale e persone in transito. È il caso di due attivistə che abbiamo conosciuto e che stanno aprendo un centro nel cuore di Bihać, dove sperano di poter avviare progetti che portino alla conoscenza reciproca di queste diverse realtà. Uno di loro ci racconta, ma è un leitmotiv che sentiamo ripetuto da tutti i bosniaci che incontriamo, che la Bosnia è rimasta indietro di 20 anni e che nell’ultimo decennio più della metà della popolazione di Bihać è emigrata in Unione Europea per cercare condizioni di vita migliore.

La comune esperienza migratoria potrebbe quindi essere un ponte di unione per conoscersi meglio, sebbene, come sappiamo anche in Italia, vivere esperienze simili non implica il riconoscerle come tali. Difatti, molti dei gruppi Facebook contro i migranti di Bihać sono seguiti da persone che hanno a loro volta lasciato il paese per ragioni economiche.

Chi migra conosce molto bene il dolore di lasciare la propria casa – che può essere un luogo fisico, una persona o un panorama. Sono emigrata a 17 anni in un posto di cui conoscevo poco la lingua, da sola. Mio padre è emigrato anni dopo perché non trovava lavoro in Italia. Le nostre storie sono piene di privilegio: nessuno dei due ha dovuto soffrire viaggi interminabili, torture, privazioni indicibili. Però chiunque vada via per qualunque ragione conosce l’incertezza, il dolore, la mancanza. Se si è fortunati si è accolti a braccia aperte, ma il più delle volte le accoglienze sono miste. Mentirei se dicessi di non aver mai sperimentato razzismo come migrante italiana. Se guardiamo alle nostre storie personali, non credo saremo stupiti dal trovare più di una storia di migrazione, piccola o grande, privilegiata o no.

Alla fine del viaggio che da Bihać ci ha portato a Trieste, ad accoglierci c’era la piazza del Mondo, con l’ultimo gruppo arrivato quel giorno. C’erano H. e M. e tanti altri, con i piedi pieni di bolle, le pance vuote, sfiniti. Nessuno vuole fermarsi, terrorizzati perché sanno che questa non è la fine, in qualunque momento la polizia italiana potrebbe prenderli e mandarli indietro. Dopo aver visto le attese di anni interminabili a Bihać, sentito i racconti di decine di pushback per ogni persona, e aver visto le carovane scalze sotto il sole, l’illusione era di arrivare a Trieste e provare un sospiro di sollievo.
Il viaggio finisce. Invece no, è appena cominciato.

 

Non è grossa, non è pesante
la valigia dell’emigrante…
C’è un po’ di terra del mio villaggio,
Per non restare solo in viaggio…
un vestito, un pane, un frutto,
e questo è tutto.
Ma il cuore no, non l’ho portato:
nella valigia non c’è entrato.
Troppa pena aveva a partire,
oltre il mare non vuole venire.
Lui resta, fedele come un cane,
nella terra che non mi dà pane:
un piccolo campo, proprio lassù…
Ma il treno corre: non si vede più.

Rodari


Note

[1] VALENTINO, R., “The Game: La rotta balcanica e la violazione alle frontiere”, Opinio Juris Law and Politics Review, 16 agosto 2020, https://www.opiniojuris.it/the-game-la-rotta-balcanica-la-violenza-alle-frontiere/
[2] Parlamento Europeo, “Garanzia del Diritto di Asilo”, https://www.europarl.europa.eu/about-parliament/it/democracy-and-human-rights/fundamental-rights-in-the-eu/guaranteeing-the-right-to-asylum
[3] Amnesty International, “EU: Inquiry into European complicity in Croatian border violence against migrant and refugees ‘significant’”, 10 novembre 2020, https://www.amnesty.org/en/latest/news/2020/11/eu-inquiry-into-european-complicity-in-croatian-border-violence-against-migrants-and-refugees-significant/
[4] https://www.lineadombra.org/2021/02/23/lorena-e-gian-andrea-sotto-accusa-per-reato-di-solidarieta/


Foto copertina: Foto dell’autrice

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