Taipei è spesso considerata solo come punto di scontro tra Pechino e Washington ma cosa vogliono i taiwanesi? Come si intreccia la politica estera con quella nazionale? Quali sono i grandi attori privati nella rilevante economia taiwanese? Tutte queste domande richiedono, oltre alla considerazione delle dinamiche internazionali, uno studio diretto della politica e della società taiwanese. Ne parliamo con Lorenzo Lamperti, giornalista a Taipei e direttore editoriale di China Files.


Lorenzo Lamperti, giornalista a Taipei e direttore editoriale di China Files

Con ventitré milioni di persone e 36.200 chilometri quadrati di territorio, Taiwan si colloca tra il Madagascar e il Mozambico per popolazione, tra il Belgio e il Bhutan come superficie. Piccolo paese per entrambe le misure, Taiwan gioca invece un ruolo molto importante nella politica e nell’economia mondiale. L’isola costituisce, infatti, uno degli scenari geopolitici più complessi ed articolati al mondo. Il suo status politico e le sue relazioni con Cina e Stati Uniti, in particolare, sono tra i più raccontati argomenti di politica estera del mondo dell’informazione. Questa attenzione, però, porta con sé il rischio di una lettura delle dinamiche di questa parte di mondo attraverso le lenti del mondo occidentale. Sarebbe fuorviante, infatti, raccogliere gli avvenimenti senza contestualizzarli e senza prestare sufficiente attenzione alla prospettiva dei taiwanesi.

Stretto di Taiwan

Taipei è spesso considerata solo come punto di scontro tra Pechino e Washington ma cosa vogliono i taiwanesi? Come si intreccia la politica estera con quella nazionale? Quali sono i grandi attori privati nella rilevante economia taiwanese? Tutte queste domande richiedono, oltre alla considerazione delle dinamiche internazionali, uno studio diretto della politica e della società taiwanese. Per questa ragione ci siamo rivolti a Lorenzo Lamperti, giornalista a Taipei e direttore editoriale di China Files, che ha dedicato particolare attenzione nel suo lavoro alla politica internazionale e ai rapporti tra potenze regionali e mondiali.

Negli ultimi mesi si sono registrate nuove incursioni aeree su Taiwan ma, allo stesso tempo, Pechino sembra ricorrere sempre più spesso a strumenti più diplomatici che militari. Nonostante ciò, molti analisti ritengono che l’isola di Taiwan potrebbe essere invasa prima della conclusione di questo decennio. Guardando al futuro geopolitico della regione dobbiamo aspettarci un lento processo di avvicinamento da parte della Cina o un’improvvisa escalation di tipo militare? Dobbiamo prepararci ad assistere ad un’invasione nei prossimi 10 anni (addirittura 2027)? Il governo Taiwanese in che direzione sta lavorando?

“Intanto una premessa…dopo che abbiamo visto in queste settimane i vari governi, istituzioni hanno parlato per settimane di invasione imminente dell’Ucraina non mi sembra che questo sia avvenuto, quindi andare a fare pronostici nel 2027 è avventuroso come orizzonte. Detto ciò, quello che ci possiamo aspettare sicuramente è che Pechino continuerà ad agire su entrambe le linee, l’una non esclude l’altra. Sicuramente le pressioni militari proseguiranno, allo stesso modo proseguiranno altri tipi di azioni, attività che il governo cinese sta adottando per provare, da una parte ad intimidire, dall’altra effettivamente a creare sempre più pressioni diplomatiche sui partner, ufficiali e non, ma anche ad avere effetti più concreti anche a livello psicologico sui taiwanesi stessi come sai…”

In parte questo anticipa due domande riguardanti la società taiwanese: quanto questo incida a livello psicologico sulla società e quanta paura c’è nei taiwanesi, nella loro vita quotidiana, nei loro progetti futuri… com’è vissuta all’interno, dalle persone comuni, la situazione geopolitica?

“Ne parlavo giorni fa con un diplomatico coreano e faceva un parallelo e diceva che anche per loro, a livello psicologico, c’erano test balistici, missilistici ma loro sono 60/70 anni che sono abituati a vivere una certa situazione, quindi i cittadini sudcoreani sono assuefatti e non vivono con la paura imminente di un attacco dai fratelli del Nord. Allo stesso modo, i taiwanesi sono abituati a vivere in prima linea di fronte alla Cina ed è ovvio che nel corso di questi 72 anni hanno avuto rapporti di forza sbilanciati sempre di più in favore di Pechino. È innegabile.  Però è anche innegabile che tra i vari momenti di tensione che ci sono stati in questi 70 anni, questo non è quello che viene percepito come più grave. Se si parla con un over 30, ti parla del 95/96, della terza crisi dello stretto innescata dalla visita Lee Teng-hui a Washington, lì sì che è stato un momento di grandi timori, di grandi paure. In questo momento non riscontro nulla di tutto questo a parte nel cittadino comune. Anche le incursioni aeree sono vissute più come una parata militare che come un primo step di tentativo di invasione. Questo anche perché (non per giustificare) c’è spesso un motivo, è un atto simbolico di risposta a qualcosa o in previsione di appuntamenti importanti come nella prima decade di ottobre quando c’è stato il record di 156 incursioni. Ma questo è normale. È normale. Succede sempre qualcosa nella prima decade di ottobre quando c’è la festa nazionale della Repubblica Popolare e la festa della Repubblica di Cina (primo e dieci ottobre). Però anche le incursioni della settimana sono state in risposta alle esercitazioni congiunte tra Stati Uniti e Giappone al largo di Taiwan. C’è molta retorica e simbologia in queste azioni. Quelle più concrete come sanzioni, black list, l’applicazione della legge di sicurezza nazionale per la prima volta anche su un cittadino taiwanese (di cui parlerò nei prossimi giorni) sono strumenti che possono avere un effetto più diretto e psicologicamente più efficace…”

I Taiwanesi in Cina sono un milione, due milioni- a livello di import-export la Cina è il principale partner di Taiwan. Come conciliano i taiwanesi questo rilevante rapporto economico con la Cina con il loro forte racconto identitario. Alla fine, l’economia avrà la meglio sulla narrazione?

“La dinamica è molto chiara. Più si alza la tensione, più la Cina, più Pechino alza il tiro, più i taiwanesi si allontanano. Questo mi sembra evidente. Su tutti i sondaggi annuali più importanti sulla questione identitaria, questo è riscontrabile in maniera classica. In tutti gli anni cui la Cina si mostra più aggressiva nei confronti di Taiwan, i Taiwanesi si allontanano. La percentuale di chi immagina un’ipotetica riunificazione diminuisce, e questo è l’aspetto politico. Quello identitario è reversibile. È chiaro che più si va avanti e più le giovani generazioni taiwanesi non solo non si sentono legate alla Repubblica Popolare per il suo sistema politico come può essere invece per le generazioni più anziane. Magari si sentono anche cinesi ma non si sentono rappresentate dal governo del Partito Comunista Cinese e quindi si immaginano ancora Repubblica di Cina ma non vogliono avere nulla a che fare col sistema politico della Repubblica popolare. Invece le generazioni più giovani non si sentono parte della Repubblica di Cina, ma si sentono Taiwanesi a tutti gli effetti e quindi il legame con la Cina continentale piano piano si sta recidendo non solo a livello politico, ma appunto anche a livello identitario e culturale. Appare chiaro anche lo sforzo che sta facendo il Partito Democratico Progressista, sta rafforzando la narrativa identitaria, la questione delle varie etnie che ci sono sull’isola principale di Taiwan.”

A proposito di sistema politico, il sistema politico taiwanese mi pare abbia carattere maggioritario con due gruppi politici dove chi vince, vince tutto. Trovi che la società sia una società molto polarizzata o c’è condivisione di principi in maniera piuttosto uniforme?

“A livello di partiti la polarizzazione è fortissima e spesso anche i cittadini stessi si lamentano. La percepiscono tant’è che ogni cosa che un partito sostiene viene contestata dall’altro e viceversa. Non c’è collaborazione, comparazione di nessun tipo. Se le suonano di santa ragione anche spesso con episodi folkloristici (che spesso trovano spazio sui video occidentali). A livello di società, è un tema interessante. C’è una percentuale che si sta assottigliando, ma che comunque ha una sua rilevanza di cittadini che sente di appartenere alla sfera culturale, incline a mantenere un legame con la Cina. Questo è un tema delicato perché va ricordato che la Cina fino a Lee Teng-hui che aprì a tutta una serie di figure… lui fu il primo presidente taiwanese a tutti gli effetti e fino ad allora il Kuomintang, la dirigenza del Kuomintang era relativa agli esuli del partito nazionalista cinese che ripiegò a Taiwan. Questo è un tema delicato che anche Tsai ha dimostrato di saper manovrare con la giusta cautela. Saper bilanciare la narrazione identitaria che è ben presente, però anche muovendosi all’interno di un certo reticolo non solo costituzionale ma anche culturale e di sentimento. Ad esempio, quando ha fatto il discorso di capodanno Tsai, spesso sui media occidentali si è detto che non ha mai nominato la Repubblica di Cina. Spesso si evidenziano scelte lessicali e le si interpretano a seconda della prospettiva di Pechino; invece c’è un’altra dimensione, altrettanto importante, che è quella interna perché il fatto di citare o non citare la Repubblica di Cina non è solo una questione che stanno a controllare a Pechino, ma riguarda anche quella fetta di società di cui parlavo adesso che si sente ancora collegata a quella sfera culturale cinese. Quindi è un equilibrio delicato riuscire a far sentire partecipe tutta la società, entrambe le parti.”

Quanto secondo te la narrazione della comunità internazionale ha inciso sull’intensificarsi delle tensioni tra Taipei e Pechino? In particolare cosa rappresenta strategicamente Taiwan per gli Stati Uniti? Quanto è probabile un progressivo inserimento di Taiwan nelle organizzazioni internazionali o comunque un riconoscimento attraverso strumenti diplomatici (come la partecipazione al summit per le democrazie)?

“Partiamo dal presupposto che Pechino non si lascia influenzare. L’obiettivo di Pechino è ben presente. L’obiettivo definito storico. Poi bisogna vedere quanti di questi annunci siano retorica e quanto di concreto ci sia, ma certamente non è un argomento, dal punto di vista ufficiale, negoziabile. Questo a prescindere dall’atteggiamento degli Stati Uniti. È chiaro che più gli S.U. tirano per la giacchetta Taiwan, più dall’altra parte pechino si sente in dovere di rispondere in qualche modo non solo in risposta agli S.U. ma anche per un discorso interno. Ci sono tre linee retoriche che segue il Partito Comunista su questo. Sui media occidentali è difficile dare spazio o parlare di Taiwan, come anche di tanti altri luoghi che non vanno per la maggiore, senza il riferimento alle grandi potenze. Questo però non è solo una prerogativa di Taiwan. È vero che lo spazio riservato per capire la prospettiva taiwanese è piuttosto risicato. Di solito si valutano le visioni che hanno Cina e U.S., mentre bisognerebbe cominciare a capire la prospettiva taiwanese anche perché ci chiediamo sempre se gli S.U. vorranno intervenire -ed è una domanda legittima ed importantissima- ma, detto questo ci si deve chiedere se i Taiwanesi vogliano combattere. Ma la domanda è questa! Se gli S. U. vogliono intervenire, ma i Taiwanesi non vogliono combattere, cosa intervengono a fare? Quindi capire la prospettiva taiwanese sarebbe cruciale anche perché sarebbe questa la prima domanda da fare…”

Per citare un tuo recente articolo, cosa vogliono i taiwanesi?

“I dati sembrano chiarissimi, l’87% vuole lo status quo, con varie sfumature, quelle di cui parlavamo prima: più la Cina diventa aggressiva, più la prospettiva è quella di una indipendenza formale, come Repubblica di Taiwan. Questa cosa va ricordata: i Taiwanesi si sentono indipendenti a tutti gli effetti, hanno un governo e indipendenza nei fatti dalla Cina; è chiaro che non è la stessa cosa che essere indipendenti come Taiwan. Questa è la linea rossa dove si gioca l’argomento. Si legge sui giornali Violazione dei diritti umani di Pechino a Taiwan. Ma dov’è questa violazione dei diritti umani? Chi scrive queste cose pensa di aggiungere un argomento per criticare la Cina, ma questo argomento è giusto su Hong Kong, Xinjiang, etc.; ma su Taiwan si sminuisce la storia di Taiwan perché Il Partico Comunista Cinese non controlla nulla, non viene violato nessun diritto umano dal PCC a Taiwan; quindi la stragrande maggioranza vuole lo status quo, non vuole l’unificazione (riunificazione per Pechino) o annessione.  Allo stesso modo, però, la domanda è “i Taiwanesi vogliono la guerra?” No, non vogliono neanche la guerra. Quindi conta tantissimo il gioco di posizionamento, il relativo gioco retorico, il relativo gioco strategico, deterrenza…”

A questo proposito, Taiwan sembra avere una comunicazione migliore di Pechino, Pensi che nel futuro vedremo un sempre maggiore coinvolgimento diplomatico di Taiwan anche in qualche organizzazione internazionale?

“C’è da dire che negli ultimi anni sono stati avviati rapporti, dialoghi che prima non c’erano. Il caso della Lituania è interessante e non è l’unico. Detto questo, andrei piano sull’immaginare delle svolte epocali imminenti perché il peso della Cina è molto forte. Anche l’U E è piuttosto ondivaga sul caso lituano, non mi sembra ci sia una convergenza, un appoggio alla vicenda lituana. Non siamo nella guerra fredda con Stati Uniti ed Unione Sovietica, siamo un mondo integrato dove i rapporti con la Cina sono solidi ed il famoso decoupling di cui si parla da anni ed anni non mi sembra di intravederlo all’orizzonte se non su alcuni settori strategici; qualche tempo fa, sul Nikkei esce la cosa famosa, poi ripresa su altri giornali internazionali: il governo taiwanese starebbe valutando di  bloccare l’esportazione dei semiconduttori verso la Repubblica popolare perché ci sono problemi di sicurezza. Ma davvero a dicembre 2021 il governo taiwanese si accorge che ci sono problemi di sicurezza a esportare semiconduttori verso Pechino? Scrivere o pensare una cosa del genere ritengo sia insultante verso il governo taiwanese che in, realtà, è in prima linea e conosce benissimo tutti i rischi e opportunità legati ai rapporti con Pechino. Quindi se fino adesso non è stato fatto ancora questo passo, è evidente che non è che si accorgono al dicembre 2021, dopo 3 anni che gli Stati Uniti premono giorno e notte su questo argomento, che forse c’è un problema di sicurezza. È perché non lo vogliono bloccare. Questo per dire che Taiwan non riesce a fare a meno della Cina, figuriamoci tanti altri. Non ci riesce Taiwan che ha questa posizione politica, figuriamoci tanti altri. Non è solo una questione economica, è una questione diplomatica. In assenza di un dialogo politico tra governi, è chiaro che il governo taiwanese, finché c’è il DPP, non potrà mai avere un dialogo con il PCC perché partono da due posizioni che non possono essere conciliabili ma, in assenza di questo dialogo i colossi tecnologici taiwanesi, di cui comunque la Cina ha bisogno, svolgono la funzione di ambasciatori. È semplice…”

Era una delle ultime domande quella sul ruolo del settore privato. TSMC (semiconduttori) o Foxconn (componenti elettrici) in alcuni casi hanno un riconoscimento ed una legittimità maggiore di quella dei rappresentanti politici taiwanesi, soprattutto in giurisdizioni che non li riconoscono formalmente. Qual è la relazione tra lo stato e il settore privato a Taiwan?

“Certo, questo mi sembra semplice da vedere anche per l’approvvigionamento dei vaccini. Ne ho scritto varie volte su come l’impossibilità del dialogo politico ha richiesto l’ingresso in gioco di entità intermedie per portare avanti un dialogo non ufficiale. Non sorprende, dunque, che Tsai abbia dato il suo via libera per l’acquisto delle dosi da Fosun da parte di Foxconn e TSMC. Taiwan ha così ottenuto 10 milioni di dosi a maggio/giugno. Il governo taiwanese era impossibilitato a rivolgersi direttamente al governo cinese o all’azienda cinese, quindi viene utilizzato il ruolo di questi colossi tecnologici che, in questo caso, hanno svolto il ruolo di ambasciatori, di diplomatici. Ma non solo in questo caso, in tantissimi casi l’assenza del dialogo politico, l’esportazione di semiconduttori funziona come leva diplomatica. È evidentissimo e più gli Stati Uniti cercano di bloccare questo flusso, più Taiwan ha bisogno di un’ambiguità strategica che diventa sempre meno ambigua. Se io sono piccolo ed ho un vicino grande che mi vuole invadere, se ho qualcosa che al mio vicino serve, il vicino prima di invadermi ci pensa un secondo. Se questo flusso lo interrompi, il vicino grande non ha più interesse a non invadere il piccolo. È chiaro che Taiwan chiede agli stati Uniti quanto possa valere la sua richiesta… più gli Stati Uniti insistono più Taiwan ha bisogno di una chiarezza strategica.”


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Foto copertina: Il mercato notturno di Keelung a Taiwan