La triste vicenda del giovane Marco Vannini, prepotentemente salita agli onori della cronaca giudiziaria italiana, torna a far notizia e ad alimentare spinosi dibattiti in dottrina e giurisprudenza su diversi istituti giuridici per effetto della recente sentenza della Corte di Cassazione.


La triste vicenda del giovane Marco Vannini, prepotentemente salita agli onori della cronaca giudiziaria italiana, torna a far notizia e ad alimentare spinosi dibattiti in dottrina e giurisprudenza su diversi istituti giuridici per effetto della recente sentenza della Corte di Cassazione[1].
Prima di addentrarsi nell’analisi delle questioni giuridiche che hanno impegnato gli Ermellini, appare opportuno ricostruire i fatti che hanno determinato l’infausto epilogo.
Il caso risale al 17 Maggio del 2015. Il Vannini si trovava a casa della propria fidanzata, Martina Ciontoli, allorquando, mentre faceva un doccia, veniva attinto da un colpo d’arma da fuoco esploso da Antonio Ciontoli. Il proiettile raggiungeva il braccio destro della vittima ed attraversava polmone e cuore. I presenti sul posto non allertavano tempestivamente i soccorsi ed il ferito moriva a diverse ore dal fatto per anemia emorragica.
In primo grado la condotta di Antonio Cintoli è stata qualificata colposa. In particolare, è stata ritenuta attendibile la versione alla luce della quale Antonio Ciontoli avrebbe, con l’intento di fare un scherzo, puntato la pistola, che deteneva per ragioni di servizio e che riteneva erroneamente scarica, in direzione di Marco Vannini, mentre questi stava facendo la doccia, ed avrebbe premuto il grilletto.
A questo primo contegno di carattere commissivo e colposo, stando a quanto accertato in sede di Prime Cure, sarebbe seguita l’omissione di una tempestiva sollecitazione dei soccorsi, ascrivibile a tutti i membri della famiglia, che in quel momento erano presenti nell’abitazione, ossia Martina e Federico Ciontoli e Maria Pezzillo, rispettivamente figli e moglie di Antonio.

Una ricostruzione in tal senso è stata adottata anche dalla Corte di Assise di Appello di Roma. Dunque, da entrambe le sentenze di merito risulta acclarato che Antonio Ciontoli fosse solo al momento dello sparo e che i suoi figli raggiunsero la stanza da bagno solo dopo aver sentito il rumore dell’esplosione, alle ore 23:15 circa.
Al fine di rasserenarli Antonio Ciontoli avrebbe riferito loro che si era trattato di un “colpo d’aria” prodotto dalla pistola che non veniva utilizzata da tempo.

Alle ore 23.41 Federico Ciontoli effettuava una prima chiamata al 118, affermando che un ragazzo, a causa di uno scherzo, si era sentito male e non “rispondeva più”. La telefonata veniva improvvisamente interrotta da Maria Pezzillo, la quale – probabilmente sollecitata da Antonio Ciontoli – asseriva che non ci fosse necessità di soccorso. Diversi minuti dopo era Antonio Ciontoli a contattare gli operatori sanitari ed a richiedere intervento per un giovane caduto nella vasca e “bucatosi” con un pettine a punta. Giunta l’ambulanza sul posto, alle ore 00.22 circa, Martina Ciontoli raccontava all’infermiera di ignorare cosa fosse accaduto e che il padre le aveva detto inizialmente che Marco era “un po’ svenuto preso da un attacco di panico, una crisi di ansia” e successivamente che “era scivolato e si era ferito con un pettine a punta”.
Vannini veniva trasportato in stato comatoso presso il presidio di pronto soccorso dell’ospedale di Ladispoli e quivi dopo qualche ora spirava in seguito ad anemia emorragica.
La Corte di Assise di Roma condannava a 14 anni di reclusione Antonio Ciontoli, riconoscendolo colpevole di omicidio omissivo doloso e di omessa custodia dell’arma. Di contro, ai suoi familiari veniva comminata la pena di anni 3 di reclusione per il delitto di omicidio colposo, nello specifico per concorso colposo nell’omicidio doloso commesso da Antonio Ciontoli). Il giudice di Prime Cure aveva escluso la presenza dei familiari al momento dello sparo ed aveva ritenuto che gli stessi non erano stati correttamente informati sulle reali cause del ferimento. Tuttavia, l’evento morte, a giudizio del giudicante, doveva eziologicamente ascriversi ad un atteggiamento colposo dei presenti, in quanto essi avevano omesso di verificare la causa del malessere di Marco Vannini, pur essendo consapevoli della gravità della ferita ed avendo assistito al progressivo peggioramento delle condizioni di salute della vittima.
La Corte d’Assise d’Appello confermava la condanna a carico di Federico e Martina Ciontoli e di Maria Pezzillo, ma riformava la decisione in merito alla posizione di Antonio Ciontoli, applicando al medesimo la pena di anni 5 di reclusione sull’assunto che i fatti a lui contestati integrassero il reato di omicidio colposo con l’aggravante di aver previsto l’evento.
Ricorrevano per Cassazione il Procuratore generale presso la Corte di Appello di Roma, lamentando il difetto di motivazione circa l’asserita inconfigurabilità del dolo eventuale in capo ad Antonio Ciontoli ed ai suoi familiari, e questi ultimi, dolendosi dell’erronea qualificazione del fatto in termini di omicidio omissivo, posto che in capo a nessuno di essi era rinvenibile una posizione di garanzia idonea ad attivare la clausola di equivalenza di cui all’articolo 40 co. 2 c.p. .
Preliminarmente all’indagine sugli approdi ermeneutici cui sono pervenuti i Giudici di Legittimità, occorre sin da subito delimitare l’oggetto del giudizio che è dato dal secondo tratto di condotta ovvero dalla mancata allerta dei soccorsi, cui hanno partecipato tutti i componenti della famiglia Ciontoli. Eventuali diversificazioni di posizioni tra gli imputati potranno effettuarsi, dunque, esclusivamente sul piano della consapevolezza della gravità dello stato di salute di Marco Vannini.
Così circoscritto il campo di esame, gli Ermellini si soffermano, innanzitutto, sulla qualificazione giuridica della condotta omissiva e riconoscono sussistente in capo a tutti gli imputati una posizione di garanzia con conseguenze applicabilità dell’articolo 40 capoverso c.p. .
La problematica involge chiaramente il rapporto tra la fattispecie di omissione di soccorso di cui all’articolo 593 comma 2 c.p., nella forma aggravata dell’evento morte di cui al comma 3, ed il reato omissivo improprio previsto dall’articolo 40 comma 2 c.p., in combinato disposto con l’articolo 575 c.p. o con l’articolo 589 c.p., a seconda che si accerti il dolo ovvero la colpa.
La Corte di Cassazione, pur accogliendo le conclusioni dei giudici di merito relativamente al riconoscimento della sussistenza della posizione di garanzia in capo agli imputati, ne ha criticato le argomentazioni che sono state poste a fondamento delle stesse.
L’obbligo giuridico di impedire l’evento era stato, infatti, impropriamente individuato nel principio del neminem laedere. Inoltre, il giudice di seconde cure aveva escluso l’applicabilità dell’articolo 593 c.p. per difetto di tipicità, in base ad una erronea interpretazione dell’inciso “ritrovare un corpo inanimato” contenuto nella lettera della norma. Secondo la Corte d’Assise di Appello di Roma la fattispecie di cui all’articolo 593 c.p. non avrebbe potuto trovare applicazione in quanto la presenza sul locus commissi delicti degli imputati, cioè di coloro che devono considerarsi responsabili dell’aggravamento delle condizioni del ferito e di colui che ha esploso il colpo, non consentiva di discorrere di “ritrovamento” di un corpo inanimato.
All’uopo i Giudici di Legittimità, richiamando una giurisprudenza consolidata della medesima Corte2, hanno chiarito che «il termine trovare deve intendersi nel senso di imbattersi, venire in presenza di, ed implica un contatto materiale diretto, attraverso gli organi sensoriali, con l’oggetto del ritrovamento» senza che rilevi «la presenza in loco dell’agente prima che il pericolo sorga, non potendo escludersi l’obbligo del soccorso solo perchè il contatto sensoriale tra agente e soccorrendo si verifica non a causa di una condotta posta in essere dal primo ma a causa di una condotta dello stesso soccorrendo o di terzi».
Sulla scorta del richiamato orientamento giurisprudenziale, la Corte ritiene sussistente il requisito del “ritrovamento” anche con riguardo alla posizione di Antonio Ciontoli, responsabile del ferimento, dal momento che «dovette essere sorpreso da un fatto per lui non prevedibile e, al pari degli altri, si trovò al cospetto di un ferito bisognoso di soccorso». L’unica circostanza idonea ad escludere la configurabilità di un obbligo di soccorso a carico di Antonio Ciontoli sarebbe l’accertamento del dolo in ordine alla condotta che ha determinato la situazione di pericolo (lo sparo). Come fa notare la Cassazione, infatti, sarebbe illogico assegnare un obbligo di soccorso a colui che ha deliberatamente causato una situazione di pericolo. In altri termini, l’omissione di soccorso costituisce la naturale prosecuzione del contegno doloso che ha ingenerato la situazione di pericolo da cui deriva l’evento lesivo. In queste ipotesi, dunque, trova applicazione il principio di assorbimento per consunzione, in base al quale il disvalore della condotta omissiva viene inglobato in quello afferente alla fattispecie dolosa sanzionata.
Il Giudice di Legittimità, poi, esclude che il discrimine tra le due fattispecie in commento possa essere individuato nella sussistenza del nesso causale tra condotta omissiva ed evento morte o dalla verifica in punto di colpevolezza dell’autore: tali requisiti infatti, devono entrambi ricorrere per l’applicabilità di entrambe le fattispecie3.
Ad avviso degli Ermellini, l’elemento distintivo tra le due ipotesi delittuose consiste, piuttosto, nella sussistenza di una posizione di garanzia, che costituisce elemento costitutivo pregnante del reato omissivo improprio di cui all’articolo 40 comma 2 c.p. .
La fonte di tale obbligo giuridico, tuttavia, non può essere individuata, come pure aveva fatto la Corte d’Assise d’appello, nel principio generale del neminem laedere, il quale, incombendo su qualsiasi consociato, non ha alcuna capacità selettiva per la costituzione di posizioni di garanzia qualificate.
La Corte di Cassazione prosegue, poi, distinguendo l’obbligo di garanzia da quello di agire, sotteso alla norma incriminatrice di cui all’articolo 593 c.p. nei termini che seguono: «la posizione di garanzia è l’obbligo gravante su categorie predeterminate di soggetti a cui la legge extrapenale o altra fonte giuridica – quale il contratto – capace di produrre obbligo assegni a terzi adeguati poteri per l’impedimento di eventi offensivi di beni altrui, la cui tutela è a loro affidata in ragione dell’incapacità dei titolari di provvedere autonomamente alla loro protezione. L’obbligo di attivarsi è invece quello di agire a tutela di certi beni che sorge in capo a soggetti privi di poteri giuridici impeditivi dell’evento al verificarsi di un determinato presupposto di fatto individuato dalla stessa norma incriminatrice ».
Proprio alla luce della tracciate coordinate ermeneutiche ed in adesione con quanto sostenuto da una parte della dottrina dovrebbe escludersi l’assunzione de facto di una posizione di garanzia ovvero di un obbligo giuridico di impedire l’evento assunto dal soccorritore in occasione della situazione di pericolo. A ciò osterebbe il difetto di previsione normativa di tale onere impeditivo con conseguente violazione del principio della riserva di legge. Ancora, i poteri impeditivi in capo al garante devono, necessariamente preesistere alla situazione di pericolo da evitare. Cionondimeno, la Cassazione, aderendo ad un indirizzo giurisprudenziale consolidato, ha ritenuto che l’obbligo di garanzia possa scaturire da una situazione fattuale, ed in particolare, dall’assunzione volontaria da parte di un soggetto della tutela altrui. Presupposto necessario affinché sorga la posizione di garanzia è che il soggetto che assume volontariamente la tutela altrui abbia determinato con la sua azione volontaria un aumento del rischio o una più accentuata esposizione a pericolo della persona da tutelare. L’obbligo giuridico di impedire l’evento, che parrebbe rintracciare il proprio addentellato normativo nella disposizione di cui all’articolo 1173 c.c., scaturirebbe dall’affidamento che il titolare del bene da tutelare ripone nel soggetto che ha assunto volontariamente il compito di protezione e dalla derivante astensione dal far ricorso a strumenti alternativa di salvaguardia.
Antonio Ciontoli ed i suoi familiari hanno assunto, ad opinione della Corte, l’obbligo di garanzia (con mutamento in itinere dell’iniziale obbligo di agire) nell’attimo in cui si sono spesi nel tranquillizzare il Vannini sulle sue condizioni di salute, ingenerando nel medesimo un legittimo affidamento nell’attività salvifica dei propri soccorritori con consequenziale rinuncia ad attivare uno strumento alternativo di salvaguardia, quale il provvedere in prima persona ad allertare tempestivamente i soccorsi.
Chiarita l’applicabilità dell’articolo 40 cpv nel caso di specie, residua accertare se gli imputati omisero l’azione doverosa con dolo o con colpa e, dunque, se la suddetta norma di parte generale debba essere riferita all’articolo 575 c.p. o all’articolo 589 c.p.
I giudici di legittimità hanno censurato le argomentazioni con cui la Corte d’assise d’appello di Roma ha escluso la sussistenza del dolo eventuale in capo ad Antonio Ciontoli ed ai suoi familiari. A parere della Corte, il giudice di merito ha travisato le indicazioni interpretative contenute nella pronuncia delle SU sulla vicenda Thyssenkrupp4. In quel caso la Cassazione chiariva che «nel dolo eventuale la volontà si esprime nella consapevole e ponderata adesione all’evento e che – a tal fine – non bisogna verificare se l’agente abbia accettato il rischio del verificarsi dell’evento, quanto, piuttosto, se egli abbia accettato l’evento ». E’, infatti, nel concreto confronto dell’agente con l’evento – e, infine, nell’accettazione della realizzazione dell’evento – che si sostanzia la ragione della rimproverabilità della condotta e, quindi, della colpevolezza.
Le difficoltà per l’interprete non attengono tanto alla definizione quanto all’accertamento; ed è proprio nell’ambito della ricostruzione indiziaria che, a parere della Corte di legittimità, la sentenza impugnata svela errori applicativi e difetti di motivazione.

Innanzitutto, l’indagine sull’elemento soggettivo non può essere svolta in termini unitari per tutti gli imputati, ma occorre necessariamente considerare isolatamente la posizione di Antonio Ciontoli – dal momento che lo stesso, avendo esploso il colpo, ben conosceva lo stato di pericolo in cui versava Vannini – da quella dei familiari intervenuti successivamente.
Il giudice di Seconde Cure in merito alla posizione di Antonio Ciontoli esclude il dolo eventuale, in base alla prima formula di Frank sull’assunto che se l’imputato avesse avuto certezza della verificazione dell’evento si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita.
La Corte d’assise d’appello di Roma, valorizzando nel giudizio controfattuale le finalità che animavano l’imputato, ha cosi ragionato: Antonio Ciontoli cercò di occultare il ferimento, in guisa da evitare che si risalisse alla sua responsabilità per aver fatto un incauto uso dell’arma in dotazione, e di certo non accettò mai che si verificasse la morte di Marco Vannini, perché questo evento avrebbe comportato per lui ed i suoi familiari conseguenze ancora peggiori.
Il fine di evitare conseguenze dannose sul piano lavorativo sarebbe, dunque, incompatibile con un’adesione volontaria all’evento morte.
Tale conclusione risulta per la Cassazione manifestamente illogica, in quanto conferisce al descritto scopo un valore indiziario non adeguatamente giustificato. Non si comprende, a parere degli Ermellini, in che termini Antonio Ciontoli avrebbe potuto evitare che si risalisse al reale motivo del ferimento del giovane Vannini, posto che – sopravvissuto o meno il ferito – le indagini sarebbero state inevitabili. Di contro, argomenta la Corte di Cassazione, proprio dal fine di occultare le cause delle lesioni derivanti da un uso incauto dell’arma e di evitare problemi sul posto di lavoro, può essere desunta la volontà omicida. Difatti, la morte dell’unico testimone in grado di ricostruire fedelmente quanto avvenuto, avrebbe reso, certamente, più complesso l’accertamento della responsabilità. Il ferimento letale, in assenza di una fondamentale fonte di conoscenza della vicenda, si sarebbe anche potuto attribuire ad un colpo di pistola fatto partire accidentalmente dalla stessa vittima, notoriamente non avvezza all’uso di armi da sparo.
Nemmeno persuasive sono parse le argomentazioni utilizzate dal Giudice di Appello per affermare la sussistenza della colpa in luogo del dolo con riguardo alle posizioni dei familiari di Antonio Ciontoli.

La corte di Cassazione

La Corte di Cassazione le ha ritenute manifestamente illogiche e contraddittorie.
Innanzitutto, non appare coerente sostenere che Federico e Martina Ciontoli e Maria Pezzillo credettero che il colpo che aveva colpito Marco Vannini fosse a salve, atteso che l’incidente aveva provocato una ferita sanguinante, che aveva macchiato l’accappatoio indossato dalla vittima nonché i vestiti della fidanzata e reso necessario un tamponamento, come dimostra il rinvenimento di un asciugamano sporco di sangue; a ciò si aggiunga che fu Federico Ciontoli, unitamente al padre ed alla presenza della madre, a cercare di individuare il foro di uscita del proiettile.
Inoltre, la Corte chiarisce che è illogico sostenere che i familiari non ebbero contezza della gravità della ferita, poiché era inverosimile che le urla di dolore di Marco – tanto forti da essere udite dai vicini di casa – fossero ingenerate da un semplice spavento.
In ultimo, il tacere ai soccorritori le cause reali del malessere di Marco Vannini non può essere considerato un mero comportamento negligente di sottovalutazione di quanto verificatosi.
Codesto contegno appare evidentemente connotato da reticenza, ossia dalla volontà di tacere ciò di cui si è a conoscenza e che si dovrebbe dire, che solitamente contraddistingue le condotte dolose.
Per effetto di tali osservazioni, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del Procuratore Generale ed ha annullato con rinvio ad altra sezione della Corte di assise di appello di Roma, per un nuovo giudizio che dovrà vertere sulla individuazione dell’elemento soggettivo in capo a tutti gli imputati che parteciparono all’omicidio di Marco Vannini.
Al giudice del rinvio, cui pare precluso un giudizio sulla sussistenza di una posizione di garanzia gravante sugli imputati, non residua che stabilire se debba trovare applicazione l’articolo 40 comma 2 in combinato disposto con l’articolo 575 ovvero 589 c.p. a seconda che accerti il dolo o la colpa nella condotta omissiva di soccorso.
Il mancato riconoscimento di una posizione di garanzia avrebbe determinato prospettive di condanna assai diverse.
Difatti, ad  Antonio Ciontoli avrebbe potuto essere ascritto il reato di cui all’articolo 589 c.p. in concorso, laddove accertato il dolo, con la fattispecie di omissione di soccorso ex. art. 593 comma 2 nella forma non aggravata dall’evento morte per l’operare del principio del ne bis in idem sostanziale, che impone di non punire due volte un soggetto per uno stesso fatto (in questo caso la morte).
Per i familiari, invece, si sarebbe potuto discutere esclusivamente di omissione di soccorso aggravata dall’evento morte e, qualora in occasione del nuovo giudizio di merito si escludesse il dolo nella richiesta di intervento dei soccorsi, gli stessi avrebbero potuto aspirare ad una pronuncia assolutoria. La fattispecie di cui all’articolo 593 c.p., infatti, è reato omissivo proprio che si configura esclusivamente a titolo di dolo.


Note

1Corte di Cassazione I sezione penale  sentenza 7 Febbraio 2020 n.  9049

2Ex. multiis Cass. Sez.V, 31/01/1978, n. 6339; Cass. Sez. V, 21/11/1974 n. 3894

3Cass. 23/08/2019, n. 38200

4Cass. SS.UU., 24/04/2014,  n. 38343


Foto Copertina: Immagine web. Fonte Open.it


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