Dalla prima pubblicazione nel 2005, il Climate Change Performance Index (CCPI) è uno strumento di monitoraggio indipendente che valuta il grado di avanzamento nella protezione dell’ambiente di 57 paesi e dell’Unione Europea, i quali sono responsabili per più del 90% delle emissioni di anidride carbonica totale. A partire da quest’anno, il Cile, che detiene la presidenza della COP25, si aggiunge alla lista dei paesi analizzati dal CCPI.


 

Con l’obiettivo di implementare la trasparenza nella politica climatica internazionale, il CCPI[1] rende possibile un’analisi comparativa dell’impegno globale per contrastare il cambiamento climatico e i progressi compiuti dai singoli paesi: di fatto, tale indice rappresenta un potente strumento di accountability per i governi in relazione alla loro responsabilità di azione sulla crisi climatica.

Il CCPI valuta la performance dei paesi in relazione a 14 indicatori e quattro categorie principali: emissioni di gas serra, energia rinnovabile, uso energetico e politica climatica, quest’ultima considerata particolarmente importante in quanto concerne i più recenti sviluppi delle politiche ambientali nazionali, che necessitano un periodo di tempo più lungo per avere effetti concreti e che altrimenti non troverebbero una proiezione nei dati quantitativi su cui si basa circa l’80% della valutazione della prestazione di ogni stato.

Nel 2017 la metodologia del CCPI ha subito notevoli modifiche volte ad incorporare le misure stabilite dagli Accordi di Parigi, firmati nel 2015 al fine di limitare il riscaldamento globale ad un massimo di 1,5°C: da allora, il CCPI include una valutazione della compatibilità “ben al di sotto di 2°C” delle prestazioni attuali dei paesi e dei loro obiettivi, con una peculiare attenzione verso le Nationally Determined Contributions (NDCs) previste dai sopracitati accordi.

Gli ultimi sviluppi

Una maggiore pressione della società civile, l’avanzamento scientifico e tecnologico (in modo particolare per quanto riguarda l’abbattimento dei costi delle energie rinnovabili e della mobilità elettrica) e importanti segni di riforma dei mercati finanziari rappresentano dinamiche positive per la gestione della crisi climatica; tuttavia, benché alcuni paesi stiano progredendo anche in campo politico, la resistenza mostrata da alcune fra le maggiori economie mondiali all’implementazione degli Accordi di Parigi ha contribuito al rallentamento della transizione verso economie ad emissioni zero. È perciò necessario fissare obiettivi più ambiziosi, poiché gli impegni attuali sono ben lontani dal mettere il mondo sulla buona strada per mantenere il riscaldamento globale sotto la soglia di 1,5°C.

La crisi climatica è inoltre considerata in relazione alla sicurezza in via sempre maggiore, in quanto ha le potenzialità di esacerbare situazioni di instabilità nei paesi più vulnerabili, più colpiti e allo stesso tempo meno responsabili delle emissioni globali[2]:

A tal proposito, la sicurezza climatica è apparsa tra i punti principali della discussione avvenuta nel Febbraio 2019 in occasione della Munich Security Conference, mostrando una sempre crescente consapevolezza dell’ampiezza del rischio umanitario posto dai cambiamenti climatici a livello globale.

Nonostante ciò, a partire dal 2019 numerosi attori del settore finanziario si sono mobilitati per allineare le loro attività agli obiettivi fissati dagli Accordi di Parigi: in primo luogo, la European Investment Bank ha annunciato che a partire dal 2021 non finanzierà più progetti di produzione di energia da combustibili fossili[3]; allo stesso modo, la Banca Centrale Svedese ha reso nota la propria volontà di interrompere l’acquisto di bond del governo australiano a causa della forte dipendenza del paese dalle emissioni di C02.[4]

CCPI 2020: i risultati

Per quanto riguarda il progresso generale nell’implementazione delle politiche climatiche, nessun paese ha raggiunto un grado di performance in tutte le categorie tale da ottenere una valutazione complessiva “molto alto” nell’indice. [5] Solo due fra i paesi del G20 si classificano come “high performers” (India e Gran Bretagna), mentre Polonia ed Irlanda si trovano al fondo della classifica europea come peggiori performers. Tuttavia, a livello complessivo l’UE è classificata fra i medium performers, con ben due paesi (Svezia, Danimarca) che occupano le prime posizioni dell’indice.

Fra i peggiori, Cina, Arabia Saudita e Stati Uniti, che dopo la decisione del presidente uscente Trump di ritirarsi dagli Accordi di Parigi hanno continuato il trend negativo degli ultimi anni, fino a finire al fondo della classifica totale.

Limitatamente alla prima categoria considerata dal CCPI, le emissioni globali di gas serra continuano ad aumentare: ben 13 dei paesi del G20 sono classificati come very low o low performing countries; per la prima volta, la Cina non si trova fra i peggiori dieci paesi (nonostante rimanga fra i very low per le emissioni di Co2). Fra i paesi europei, Cipro e Portogallo rimangono i peggiori performers, mentre avanzano Svezia e Gran Bretagna, considerati fra i migliori performers insieme all’Egitto[6].

Per quanto concerne le energie rinnovabili, Malaysia, Iran e Federazione Russa si trovano agli ultimi posti: benché a partire dal 2018 le installazioni di energie rinnovabili abbiano superato quelle di combustibili fossili ed energia nucleare, due terzi delle emissioni globali di gas serra rimangono ancora legate a settori quali elettricità, trasporti ed industria; una transizione energetica globale è quindi più che mai necessaria.[7]

Malta, Marocco e Messico sono i migliori performers nella categoria di uso energetico: nonostante ciò, l’ultimo Energy Efficiency Report dell’ International Energy Agency (IEA) evidenzia come il 2018 abbia segnato un rallentamento storico nei miglioramenti dell’efficienza energetica, dovuto alla combinazione di fattori sociali, trend economici ed eventi climatici estremi. Sebbene tecnologie economicamente vantaggiose siano già disponibili, investimenti ed attuali misure politiche non riescono tuttavia a tenere il passo con la domanda energetica.[8]

Infine, le politiche climatiche nazionali considerate nell’ultima categoria dell’indice vedono Turchia, Stati Uniti e Australia fra gli ultimi in classifica: i risultati delle elezioni in numerosi paesi hanno messo in luce come la questione climatica rappresenti un tema cruciale fra gli elettori, prime fra tutti le elezioni Americane, che hanno visto il neoeletto presidente Joe Biden mettere al centro della propria campagna elettorale la questione della transizione energetica e il rientro negli Accordi di Parigi.[9]
Non resta quindi che domandarsi se le politiche green di Biden e l’impegno del suo inviato speciale per il clima John Kerry consentiranno agli Stati Uniti di risalire dalle ultime posizioni della classifica e se esse scateneranno un effetto-domino di avanzamento in campo climatico a livello globale.


Note

[1] https://ccpi.org/ 

[2] Patrick Huntjens, K. N. (2015). Climate Change as a Threat Multiplier. The Hague Institute for Global Justice.

[3] https://www.bbc.com/news/business-50427873.

[4] https://www.theguardian.com/environment/2019/nov/15/swedens-central-bank-dumps-australian-bonds-over-high-emissions.

[5] CCPI 2020, p.8, Disponibile al link: https://newclimate.org/wp-content/uploads/2019/12/CCPI-2020-Results_Web_Version.pdf.

[6] Ivi, p.10.

[7] Ivi, p.12.

[8] Ivi, p. 14

[9] https://www.nbcnews.com/politics/white-house/john-kerry-aims-strengthen-paris-climate-accord-when-biden-administration-n1250599.


Foto copertina: New Climate