
A causa del diffondersi del Coronavirus anche nell’area mediorientale, nello Yemen è stato annunciato un cessate il fuoco di due settimane, mentre si ipotizza che l’Arabia Saudita ritiri definitivamente le sue truppe.
Proxy war tra Arabia Saudita e Iran, conflitto settario tra sunniti e sciiti, stato fallito e sede di Al-Qaeda della Penisola Arabica.[1] Molteplici spiegazioni sono state fornite per tentare di spiegare il complicato conflitto yemenita. Nessuna di questa, tuttavia, offre una visione esaustiva, ma corrisponde solo ad una piccola parte di un puzzle. L’unica cosa certa è che si tratta della peggiore catastrofe umanitaria al mondo, così come è stata definita dalle Nazioni Unite.
Dall’inizio del conflitto, 24 milioni di persone necessitano assistenza umanitaria, circa l’80% della popolazione, di cui 3,2 milioni soffrono di grave malnutrizione.
La metà delle infrastrutture è stata distrutta, soltanto il 50% delle strutture sanitarie è funzionante, ma, a causa del collasso economico e del conflitto, si registra una carenza di personale, di attrezzature e medicinali. Inoltre, rimane alto il rischio di malattie come la malaria o il colera, a causa del limitato accesso all’acqua potabile. [2]
Data la situazione precaria, il 25 marzo, il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, invitava al “cessate il fuoco” per prevenire lo scoppio della pandemia di Covid-19. Nonostante gli Houthi, il governo yemenita e le altre parti in causa abbiano elogiato l’iniziativa delle Nazioni Unite, nessun accordo è stato stipulato in forma ufficiale.
Come ha dichiarato il ministro degli esteri saudita, Adel al-Jubayr, sul suo profilo Twitter, il regno saudita ha optato per un cessate il fuoco unilaterale a partire da giovedì 9 aprile e che durerà due settimane. La decisione è stata presa per cercare di contenere la diffusione del Coronavirus nel paese più povero del mondo arabo. [3]
Ad oggi, è stato registrato un solo caso di Covid-19 nel Paese, ma il sistema sanitario obsoleto, fortemente debilitato dagli scontri, non è in grado di gestire un’epidemia, che avrebbe delle conseguenze disastrose.
Il conflitto yemenita, iniziato nel 2011, in seguito alle rivolte delle primavere arabe, è particolarmente complesso per la molteplicità di attori coinvolti, sia interni che esterni. La guerra in Yemen è, prima di tutto, conflitto civile, tra vari attori, con rivendicazioni differenti, e che a sua volta, si inserisce nel contesto regionale ed internazionale.
Nel corso degli anni, la comunità internazionale ha tentato più volte di rispondere all’emergenza: gli accordi di Riyadh, gli accordi di Stoccolma, gli accordi di Hodeida. Tutti celebrati come opportunità per una soluzione pacifica, ma tutti falliti.
La risposta delle Nazioni unite alla crisi è avvenuta attraverso la “lente” saudita. Le decisioni intraprese dal Consiglio di Sicurezza riflettono gli interessi di alcuni suoi stati membri, in particolare, ogni risoluzione emanata è stata espressione dell’influenza saudita esercitata e degli interessi economici che legano quest’ultima ai membri permanenti.
Tali interessi hanno impedito interventi neutrali e hanno, sistematicamente, ostacolato iniziative di altri Paesi membri che chiedevano di monitorare le violazioni di diritti umani compiuti dalla coalizione a guida saudita. [4]
Sin dal 2015, la presidenza Obama ha fornito il supporto logistico e di intelligence alle operazioni militari dei suoi alleati mediorientali[5], in modo da proteggere il governo legittimo di Abd Rabbih Manṣūr Hādī. Tuttavia, la coalizione saudita ha utilizzato, in maniera indiscriminata e sproporzionata, raid aerei che, deliberatamente, hanno ucciso migliaia di civili e distrutto infrastrutture essenziali, affamato la popolazione come tattica di guerra, imposto il blocco navale ed aereo sulle zone controllate agli Houhti, impedendo, in questo modo, l’accesso agli aiuti umanitari. Dati gli abusi e le violazioni da parte di tutte le parti in conflitto, inclusi l’utilizzo di bambini soldato e la politicizzazione degli aiuti umanitari, non solo gli Houthi, quindi, ma anche Arabia Saudita, i Paesi del Golfo e i loro alleati occidentali sono colpevoli di crimini di guerra. L’amministrazione Trump continua a dare il pieno supporto alla coalizione anti-ribelli, nonostante i comprovati crimini commessi, e, difatti, gli Stati Uniti sono i maggiori venditori di armi all’Arabia Saudita.[6]
Di conseguenza, appare evidente come le decisioni adottate dal Consiglio di Sicurezza siano poco inclini all’effettiva risoluzione del conflitto yemenita e mirino più a salvaguardare gli interessi economici delle grandi potenze occidentali nell’area.
Risoluzione ONU 2216
La risoluzione N°2216 del 2015 ben esplica questa tendenza. Il testo, al fine di impedire ai ribelli di impossessarsi del Paese, prevedeva pesanti sanzioni per il leader politico degli Houthi, Abdul-Malik al-Houthi, per il comandante militare Abd al-Khaliq al-Houthi, per il suo vice, oltre che per l’ex presidente, Ali Abdullah Saleh, e suo figlio, Ahmed.
Inoltre, si chiedeva il disarmo degli Houthi, la fine delle violenze, il ritiro da tutte le aree conquistate e il totale embargo sulla fornitura delle armi. Gli Houthi sono un gruppo non statale, il governo di Hādī è uno stato membro del Consiglio di Sicurezza, pertanto, quest’ultimo ha adottato la strategia più agevole.
Tuttavia, ha dato prova di non funzionare affatto.
Al contrario, invece di indebolire il gruppo dei ribelli, ha finito per rafforzarlo, rendendolo meno sensibile alle minacce diplomatiche e alle sanzioni. Inoltre, l’approccio adottato dalle Nazioni Unite, essendo diretto, quasi esclusivamente, agli Houthi, ha reso questi ultimi meno inclini alla negoziazione, dato, in modo particolare, le conquiste effettuate recentemente. Attualmente, essi appaiono i reali vincitori del conflitto e, di conseguenza, non sono disposti a rinunciare al vantaggio territoriale, conquistato sul campo di battaglia.
Il fallimento è intrinseco nella risoluzione 2216 e che, ancora oggi, rappresenta il modello da cui partono tutti i tentativi di risoluzione.
Secondo l’ultimo report, pubblicato a gennaio 2020, l’approccio adottato dalle Nazioni Unite sostanzialmente non è mutato, nonostante i suoi fallimenti. Ciò significa che sarà, ancora una volta, inefficace per sancire la fine del conflitto.
La risoluzione approvata non apporta significative modifiche rispetto alla risoluzione del 2015.
Teoricamente, le sanzioni sono previste per chiunque “minacci la pace, la sicurezza e la stabilità nello Yemen”. Praticamente, il Consiglio di Sicurezza ha sanzionato solo cinque individui, tre degli Houthi, l’ex presidente Saleh e suo figlio. Nessun componente del governo yemenita internazionalmente riconosciuto e nessun componente della coalizione saudita sono oggetto di sanzioni, nonostante le violazioni chiaramente commesse.[7]
Data la complessità della situazione, appare, fin da subito, evidente il motivo per cui l’approccio delle Nazioni Unite non abbia portato alla risoluzione del conflitto.
I colloqui di pace intrapresi sono stati fragili e frammentati, non inclusivi dei numerosi attori coinvolti. L’approccio alla gestione della crisi da parte delle Nazioni Unite si è concentrata nel breve periodo, cercando di contenere le micro-crisi, in Hodeida e Aden, ad esempio, ma fallimentari nell’affrontare le cause profonde del conflitto, compromettendo, in questo modo, la possibilità di stabilire la pace in maniera duratura.[8]
Gli interventi umanitari portati avanti dalla comunità internazionale per far fronte all’emergenza yemenita non hanno prestato la sufficiente attenzione alle cause macro-economiche che stanno alla base del sottosviluppo del Paese.
È necessario un cambiamento nell’approccio adottato dalle Nazioni Unite: abbandonare negoziati di pace limitati geograficamente in favore di negoziati su scala nazionali, inclusivi dei molteplici attori coinvolti. Soltanto in questo modo, è possibile pensare alla risoluzione della crisi yemenita.
Intanto, lo scoppio della pandemia ha offerto all’Arabia Saudita l’occasione per poter attuare un’exit strategy[9] dallo Yemen, data l’assenza di qualunque prospettiva di vittoria e l’enorme costo sostenuto, permettendo, al contempo, di salvaguardare la reputazione della monarchia.
A cinque anni dal lancio dell’operazione “Decisive Storm” l’obiettivo di sconfiggere gli Houhti in un tempo ridotto è molto lontano dall’essere raggiunto.
Lo scoppio del Coronavirus anche tra i membri della famiglia reale ha ridisegnato le priorità dell’agenda saudita, imponendo una maggiore attenzione alla situazione domestica.
L’uscita di scena dell’Arabia Saudita costringe la comunità internazionale ad un cambio di strategia che sia realmente inclusiva e che non ignori ulteriormente le richieste dei vari attori politici, primi fra tutti gli Houhti. È necessario agire con urgenza, nonostante la fine potrebbe essere, ancora, lontana.
Note
[1] Clausen Maria-Louise (2015) Understanding the Crisis in Yemen: Evaluating Competing Narratives, The International Spectator, 50:3, 16-29
[2] https://reports.unocha.org/en/country/yemen
[3]https://twitter.com/AdelAljubeir/status/1248049170453336064
[4] https://sanaacenter.org/publications/analysis/9603
[5] https://obamawhitehouse.archives.gov/the-press-office/2015/03/25/statement-nsc-spokesperson-bernadette-meehan-situation-yemen
[6]https://www.theguardian.com/commentisfree/2019/oct/03/yemen-airstrikes-saudi-arabia-mbs-us
[7] https://sanaacenter.org/publications/analysis/9339
[8] https://www.mei.edu/publications/stockholm-riyadh-breaking-yemen-peace-process-deadlock
[9] https://www.aljazeera.com/indepth/opinion/saudi-arabia-preparing-war-yemen-200412155912401.html
Foto copertina: La gente cerca tra le macerie di case nel sito di un attacco aereo a guida saudita vicino al complesso del Ministero della Difesa dello Yemen a Sanaa, Yemen, l’11 novembre 2017. Hani Mohammed — AP. Time