Sin dal 2011 e successivamente la caduta del regime di Gheddafi, la Libia si è ritrovata nel caos più totale. Oggi, le fazioni politiche contrastanti si sono raggruppate intorno ai due principali protagonisti, il Governo di Accordo Nazionale (GNA) di stanza a Tripoli e il blocco formato dalla Camera dei Rappresentanti, il Libyan National Army (LNA) guidato da Khalifa Haftar e il governo basato a Beida. In questo contesto però, gruppi criminali e jihadisti di Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM) e dell’ ISIS hanno trovato terreno fertile per le loro attività stabilendosi in Libia, divenuta importante area strategica per traffici illeciti e base logistica per attacchi terroristici in paesi vicini, come l’Algeria nel 2013 e la Tunisia nel biennio 2015-2016.
In un’intervista alla rivista online dell’ISIS Dabiq nel 2015, il leader dello Stato Islamico in Libia Abul-Mughirah Al-Qahtani spiega perché la Libia è strategicamente importante: “è in Africa e nel sud dell’Europa. E’ una via per raggiungere numerosi paesi africani attraverso il deserto”. Inoltre, le ragguardevoli risorse di petrolio e gas naturale nel paese e la rilevanza di esse per i paesi europei avrebbe permesso “allo Stato Islamico, in caso di controllo di questo territorio, di colpire economicamente in modo significativo i paesi europei, specialmente l’Italia”i.
Crocevia tra Africa ed Europa, la Libia ha rappresentato negli ultimi anni il territorio migliore per trafficanti e gruppi jihadisti. Con il collasso dell’ISIS in Siria e Iraq, in molti hanno visto la Libia la principale meta per i foreign fighters nordafricani che hanno combattuto tra le fila dello Stato Islamico e Al-Qaeda, in particolare l’ex Fronte Al-Nusra.
La Libia inoltre, funge anche da scalo per poter raggiungere altri paesi africani dove l’attività jihadista è presente (in particolare nel Sahel e nel Corno d’Africa). In aggiunta alla minaccia fondamentalista, tutte le possibili attività criminali hanno trovato un proprio sviluppo in e attraverso la Libia, affliggendo i paesi vicini. Traffico di migranti, prostituzione, droga e, sopratutto, armi. Queste situazioni dal 2011 sono state sempre più spesso annunciate dagli attori regionali, individuandole come le principali minacce alla sicurezza e alla stabilità regionale. Tuttavia queste analisi riflettono solo in parte la questione sicurezza nella stessa Libia. Infatti, se la situazione resta instabile, il collasso della struttura statale nel paese ha permesso lo sviluppo di nuovi modelli economici illegali, non solo sotto forma di traffici di armi e droghe, ma anche nella gestione dell’immigrazione illegale, del traffico di esseri umani e in attività finanziarie illecite legate a questi fenomeni. In aggiunta, le irrisolte dispute legate alle minoranze non arabe dei Tuareg e Tebu nel sud del paese si sono intensificate dopo che queste ultime hanno fatto proprie queste nuove attività economiche.
La situazione
Nonostante le violenze siano decisamente diminuite dalla fine della seconda guerra civile del 2014, le conseguenze politiche permangono: i blocchi politici opposti nati durante il periodo post-2011 sono ancora in piedi e tutti i tentativi portati avanti dai vari attori regionali e internazionali non hanno avuto particolare successo. La sicurezza risulta oggi più frammentata perfino del periodo di guerra civile, con il controllo del territorio diviso tra gruppi regionali, tribali e ideologici diversi. Nessun tentativo di integrazione tra questi attori è stato portato a buon fine, con conflitti che, seppur localizzati e di minor intensità, continuano da più di tre anni. I motivi sono i più disparati: dalle differenti visioni sul futuro della Libia, al controllo delle risorse energetiche, dei traffici e delle infrastrutture strategiche del paese. In questo quadro, a preoccupare maggiormente i policymakers regionali ed europei sono il traffico di armi e lo spostamento di militanti jihadisti: i controlli ai confini del paese sono ancora deboli, e i gruppi estremisti continuano a trovare spazio all’interno del mosaico libico in maniera ancora più discreta e subdola da quando l’ISIS è stato sconfitto nel 2016 a Sirte e non esiste più una sua territorialità in Libia.
Con l’instabilità politica e il perenne stato di allerta, il traffico di armi continua senza sosta ad espandersi. Secondo molti analisti, le organizzazioni criminali libiche hanno preso possesso di numerose riserve di armi dell’esercito di Gheddafi; tali armi vengono vendute al miglior offerente, solitamente gruppi jihadisti transnazionali ii. I traffici però, come detto, non riguardano solo le armi. Nel corso degli ultimi anni questi gruppi hanno modificato il loro modo di lavorare, con un significativo aumento del traffico dei migranti. Questa massa di persone che negli ultimi anni si è spostata attraverso i confini porosi degli stati sahariani fino ad arrivare nel sud della Libia, territorio come detto conteso da gruppi jihadisti, militari, tribù minoritarie e mercenari, è divenuta una delle più sentite questioni nel paese. Pur non avendo ancora reali dati statistici per misurare la grandezza del fenomeno, le previsioni lasciano pensare che l’immigrazione avrà un impatto ancora più persistente del traffico di armi, sia nel breve che nel lungo periodo.
Mentre il traffico di armi rimane un grande problema, in particolare attraverso le frontiere a sud del paese, il fenomeno è in diminuzione rispetto ad alcuni anni fa. Di contro, il traffico di migranti si è espanso vertiginosamente, divenendo un fattore chiave nei cambiamenti demografici e nei movimenti della popolazione libica all’interno del paese. L’opinione pubblica libica, fino a poco tempo fa, non destava particolarmente attenzione al fenomeno, se non in alcune delle città interessate. Tuttavia, di recente, con l’intensificarsi dell’attenzione mediatica internazionale (emblematici i video della CNN iii), il tema è divenuto centrale. La pressione dei governi europei alla Libia di fermare i flussi che attraversano il Mediterraneo e l’opinione pubblica interna, sempre più attenta all’argomento, hanno spinto le autorità libiche a concentrarsi sulla sponda sud. Un esempio è il conflitto nato nella città di Sebha lo scorso maggio iv.
Similmente alla questione riguardante il traffico di armi, la presenza di gruppi militanti in Libia continua ad avere una certa rilevanza regionale. Come nel quinquennio 2011-2016, i gruppi militanti regionali continuano ad avere facile accesso al territorio libico, trovandovi armi, rifugio e possibilità di addestramento v. Tuttavia, diversamente dagli anni scorsi, negli ultimi tre anni il fenomeno si è leggermente ridotto, grazie all’attività antiterroristica aerea occidentale (come gli strike aerei statunitensi contro AQIM nel sud della Libia vi) e l’intensificarsi dei pattugliamenti da parte delle forze armate di Tripoli e dell’autoproclamato Esercito libico di Haftar. La presenza di foreign fighters dell’ISIS in Libia provenienti in particolare dal Nord Africa e dal Sahel, e il loro possibile ritorno in patria, ha ricevuto un particolare interesse da parte degli attori regionali, sopratutto dopo la cacciata dell’ISIS da Sirte. Non ci sono però ad oggi molti casi di combattenti ritornati in patria, dimostrando piuttosto quanto questi gruppi siano interessati a restare in Libia. Quindi, nonostante questi gruppi continuino a rappresentare una minaccia regionale, non pare risultino più pericolosi di quanto lo fossero nel quinquennio 2011-2016, ed anzi alcuni di essi hanno meno accesso e possibilità nel paese rispetto a prima.
Se quindi esternamente la minaccia non sembra peggiorare, la situazione politica interna del paese potrebbe indurre in molti alla radicalizzazione e quindi, a nuovi gruppi militanti o all’espansione quelli già presenti. Da quando gli islamisti sono stati messi sotto pressione dal lancio dell’Operazione Dignità nel 2014 da parte di Khalifa Haftar, numerosi gruppi con interessi convergenti hanno generato alleanze per contrastare l’avanzata dell’esercito libico. Questo si evince in particolare nei gruppi legati alle città orientali della Libia di Bengasi e Derna vii. Nel frattempo, non è completamente chiaro come gli attori locali, in particolare le forze di Haftar e i suoi alleati, riescano da una parte a contrastare le forze estremiste e dall’altra riconoscere e tentare una riconciliazione con quelle non radicalizzate. Se è pacifico dire che alcuni dei gruppi colpiti da Haftar siano legati al jihadismo, in particolare quelli affiliati all’ISIS, è altrettanto pacifico affermare che la lotta al “terrorismo” in Libia ha assunto anche contorni politici: intere coalizioni, come le Forze di Protezione di Derna, vengono etichettate come “gruppi terroristici” nonostante alcune delle sigle che le compongono hanno poco a che fare con il jihadismo, risultando invece opponenti di Haftar e dei suoi alleati viii.
Se tale è il comportamento verso tutti i membri di coalizioni e alleanze, non ci sono prospettive di riconciliazione e pertanto non è difficile presumere che le sigle non radicalizzate rischino di radicalizzarsi nel lungo periodo, con un potenziale incremento della minaccia a livello regionale e la possibilità di aggregarsi ai grandi gruppi operanti nel Sahel o restare in Libia, divenendo fattori di instabilità.
Senza dubbio l’immigrazione e il riconoscimento di gruppi terroristici è divenuta una questione altamente politicizzata in Libia e nella regione, e i policymakers europei e americani dovrebbero trovare un approccio cooperativo con i partner per stabilizzare la regione e trovare quell’equilibrio tra i differenti interessi dei vari attori libici e regionali.
Gli effetti nella regione
Algeria
L’Algeria considera una lunga parte del suo confine con Tunisia, Mali e Libia sotto minaccia, in particolare dalle spinte provenienti da quest’ultima. Allo stesso tempo, l’Algeria risulta essere un bersaglio prioritario per molte organizzazioni jihadiste come ISIS e AQIM. Per Algeri, la Libia rappresenta innanzitutto un problema di sicurezza. Diversamente dalla Tunisia infatti, i rapporti economici tra Algeri e Tripoli non sono mai stati significativi, così come la presenza di algerini nel paese, decisamente ridotta. Dal punto di vista economico quindi, la crisi libica non ha avuto un impatto importante sull’Algeria. D’altro canto, il vuoto presente in Libia crea una significativa minaccia alla sicurezza dei paesi confinanti. Per questa ragione l’Algeria persegue due obiettivi: ristabilire un ambiente sicuro e controllato per prevenire lo stabilimento di gruppi radicali jihadisti in Libia e usare il paese come base per attacchi in Algeria; mantenere un equilibrio di potere regionale, in particolare nei confronti dell’Egitto, evitando così che Tripoli diventi uno stato cliente del Cairo, con Khalifa Haftar, molto vicino al Presidente egiziano al-Sisi, al suo comando ix. Visto lo status di potenza regionale, l’Algeria è stata più volte chiamata in causa dagli europei, in particolare la Francia, chiedendole di intervenire militarmente in Libia. Tuttavia, l’Algeria ha sistematicamente rifiutato qualsiasi coinvolgimento militare, basandosi sulla costituzione del paese che vieta il dispiegamento di truppe all’estero e di intervento negli affari domestici di un altro paese.
Ritornando al primo obiettivo, gli algerini hanno spostato il loro mirino dal traffico di armi alle organizzazioni jihadiste. La preoccupazione nasce dal fatto che la Libia possa diventare un rifugio per tali organizzazioni, in particolare nell’area sud-occidentale. E’ il caso della città di Sabratha, dove combattenti tunisini affiliati all’ISIS si sono stabilizzati, divenendo una minaccia sia per la Tunisia che per l’Algeria x, o delle attività del gruppo Al-Mourabitoun guidato dal jihadista Mokhtar Belmokhtar, conosciuto anche come Mr. Marlboro per la sua lunga e proficua esperienza nel contrabbando di sigarette, che resta nella memoria degli algerini per la presa di ostaggi al sito petrolifero di Tiguentourine nel 2013 xi.
Per affrontare queste minacce, la strategia dell’Algeria va in due direzioni: la prima, consiste in un controllo totale dei confini con Libia, Tunisia e Mali da parte dei militari algerini. Si conterebbero circa 80.000 soldati algerini; la seconda prevede una maggiore cooperazione con le grandi potenze coinvolte nell’area, in particolare la Francia. Come detto, gli europei, e in particolare i francesi, continuano a chiedere all’Algeria di intervenire, ma sono diversi i motivi per cui gli algerini non sono scesi direttamente in campo in Libia. Innanzitutto, l’opinione pubblica non sembra essere così favorevole a un intervento nel paese vicino, inoltre la popolazione libica potrebbe essere poco avvezza a collaborare con gli algerini. In secondo luogo, l’esercito algerino non vuole apparire come uno strumento delle potenze occidentali, cosa che favorirebbe tra l’altro la propaganda jihadista. Infine, una discesa sul campo attirerebbe di certo le attività dei gruppi jihadisti, e quindi un alto rischio di attacchi in casa propria. La paura è quindi di restare invischiati in un lungo conflitto con numerosi nemici, poco definibili e molto mobili, causando seri problemi alla sicurezza interna del paese.
Tunisia
La Tunisia è stata ampiamente destabilizzata dalla crisi libica, colpendola dal punto di vista economico, della sicurezza e della stabilità politica, sopratutto durante la transizione democratica nel biennio 2015-2016. I peggiori attacchi terroristici in Tunisia sono partiti dalla Libia: tra essi ricordiamo l’attacco nel giugno 2015 al resort di Sousse, dove 38 turisti occidentali sono rimasti uccisi xii; o ancora l’attentato al museo del Bardo, sempre nel 2015 xiii. Questi attacchi sono culminati con la “battaglia di Ben Guerdane” nel marzo 2016, dove 100 combattenti dell’ISIS dalla Libia hanno tentato invano di conquistare la città per renderla base di partenza per la creazione di un emirato in tutta la Tunisia xiv.
L’estremismo in Tunisia ha una lunga storia, ma la sua versione jihadista moderna nasce nel 2011, quando con la caduta del regime di Ben Ali numerosi detenuti accusati di radicalismo sono stati liberati. Da qui, alcuni ex jihadisti degli anni ’90, in particolare Abu Iyadh Al-Tunisi e Abu Ayub Al-Tunisi, decidono di creare la potente organizzazione jihadista salafita Ansar al-Sharia in Tunisia (AST). Coinvolti in numerosi attacchi, nel 2013 le autorità tunisine decidono di abbattere AST. La serrata repressione costringe i militanti a scappare all’estero o restare in Tunisia con piccole cellule locali. Il leader e fondatore Ayub Al-Tunisi si rifugia in Siria, dove diventa un importante membro dell’ISIS, mentre il collega Iyadh Al-Tunisi fugge in Libia, divenendo uno dei più potenti membri del gruppo affiliato ad Al-Qaeda, Al-Mourabitoun, del già citato Mokhtar Belmokhtar. In questo contesto, non ci sono numeri specifici su quanti individui siano effettivamente scappati in Siria, Iraq e Libia dopo la repressione governativa: secondo varie stime si parla di circa 3.000/4.000 individui in Siria e Iraq e almeno 1.500 in Libia. La Libia diviene così la principale destinazione vicina per i candidati jihadisti tunisini. Le strade che collegano i due paesi diventano delle “autostrade del jihad”, permettendo ai tunisini di trovare rifugio in Libia, appoggi dai gruppi locali, armi e nuove reclute per avanzare ulteriori attacchi nella regione e in patria.
In aggiunta alla questione sicurezza, la crisi libica ha colpito direttamente anche l’economia tunisina, sopratutto il commercio transfrontaliero. Il commercio è stato piuttosto soppiantato dall’economia criminale, specialmente nel traffico di armi. La crisi libica ha inoltre colpito gli investimenti tunisini, l’importazione dei prodotti libici (in particolare il petrolio) e favorito l’immigrazione dalla Libia e il rientro dei tunisini in Libia, spesso disoccupati. La situazione è stata analizzata da uno studio condotto dalla Banca Mondiale nel 2016: il risultato è stato catastrofico. Nel biennio 2015-16, il picco di attentati terroristici in Tunisia, il numero di turisti è diminuito del 55%, mentre gli investimenti libici nel paese, particolarmente significativi nel periodo precedente il 2011, sono calati dell’82% xv. Queste catastrofiche conseguenze avranno un impatto a lungo termine sulla stabilità economica del paese, incrementando la povertà e la disoccupazione.
Il governo tunisino, supportato dalla comunità internazionale, specialmente da USA e Francia, ha reagito tardivamente, nel 2014. La decisione di dichiarare lo “stato di emergenza” e la chiusura del confine con la Libia, con la costruzione di un “muro” dotato di tecnologie all’avanguardia, vanno in tal senso. In aggiunta, numerosi accordi con Francia e Stati Uniti sono stati siglati, in particolare con la consegna di armamenti moderni, l’addestramento delle forze speciali tunisine e l’installazione di strutture di controllo moderne al confine con la Libia. In questo quadro, la decisione degli Stati Uniti di elevare la Tunisia a rango di “maggiore alleato non-NATO” nell’area ha facilitato i processi di acquisizione di materiale avanzato da parte di Tunisi xvi. Inoltre, sempre gli Stati Uniti hanno installato strutture di sorveglianza con droni militari in Tunisia, includendo anche la firma di un accordo, lo Status of Forces Agreement (SOFA), che permette agli USA di stazione mezzi e uomini nel paese, sancendo definitivamente la partnership strategica tra i due, e il definitivo supporto dell’Occidente alle autorità tunisine xvii.
Oltre le potenze europee e gli Stati Uniti, la Tunisia ha trovato nell’Algeria un partner importante nella sicurezza cooperativa. Infatti, l’Algeria ha fornito un importante supporto da quando il terrorismo è emerso in Tunisia nel 2011. Le capacità di controterrorismo algerine, acquisite durante la stagione degli anni ’90, hanno aiutato la Tunisia in questi anni, sopratutto nel periodo di transizione alla democrazia. Tuttavia, nonostante la situazione in Tunisia si sia stabilizzata, il pericolo proviene dai foreign fighters di ritorno. Con il collasso dell’ISIS in Medio Oriente e la persistente situazione critica in Libia, la questione del ritorno dei combattenti tunisini rappresenta una minaccia concreta per la sicurezza nazionale. Al momento, in centinaia sono detenuti nelle carceri tunisine sotto stretta sorveglianza, e altre decine sono rinchiusi nelle carceri siriane. In centinaia poi sono morti o dispersi in Medio Oriente. Risulta quindi complicato fare una stima del numero di tunisini che potrebbero tornare, ma la minaccia è reale. Infatti, coloro che potrebbero tornare porterebbero con loro un addestramento di alto livello non solo dal punto di vista militare, ma anche ideologico, oltre una rete di contatti con altri jihadisti sparsi per il mondo. Pertanto, risulta estremamente pericoloso lasciare che tali individui tornino e si uniscano a cellule attive in Tunisia o in Libia, condividendo le proprie conoscenze ed “expertise”. Tuttavia, secondo molti esperti, una migrazione massiva di jihadisti dal Medio Oriente alla Libia è improbabile: tralasciando i controlli e il monitoraggio, molti di loro ritorneranno nei loro paesi e si arrenderanno o rimarranno lì, a combattere fino alla morte.
Sahel
Sin dal 2011, molti analisti hanno dichiarato che le dinamiche di sicurezza del Nord Africa influenzano la regione del Sahel e viceversa. Infatti, ad esempio, il collasso del Mali nel 2012 è stato un risultato diretto della caduta del regime di Gheddafi e il ritorno in Mali di migliaia di Tuareg dalla Libia. Di ritorno, l’attacco di gennaio 2013 presso le infrastrutture petrolifere di Tiguentourine è stato organizzato dalla base in Mali da parte di Belmokhtar e del suo gruppo Al-Mourabitoun. Il commando partì dal nord del Mali e, passando per il confine con la Libia, entrò in Algeria. Ancora, con l’operazione militare francese Operation Serval per proteggere il Mali dall’avanza a nord della coalizione jihadista guidata da AQIM, il Movimento per l’Unità e la Jihad in West Africa (MUJWA) e Ansar al-Din, i jihadisti lasciarono il Sahel per raggiungere il sud della Libia e da lì, ricompattarsi e tornare ad attaccare il nord del Mali.
La crisi libica non ha certo scaturito i problemi del Sahel, piuttosto, ha accellerato una disgregazione nella regione iniziata nei primi anni 2000, quando il neo costituito al-Qaeda in Maghreb si stabilizzò nel nord del Mali e da lì iniziò ad attaccare i deboli stati della regione, come Mauritania, Mali e Niger.. AQIM nel corso degli anni ha creato una solida rete di relazioni con la criminalità organizzata locale e la specializzazione in rapimenti di occidentali che ne hanno rimpinguato le casse. In aggiunta, AQIM ha seguito una politica di avvicinamento con altri gruppi jihadisti della regione, come Boko Haram, organizzazione principalmente presente in Nigeria e nei paesi della costa occidentale dell’Africa. Infine, AQIM ha saggiamente stabilito ottimi rapporti con le tribù locali, seguendo un’intelligente strategia di matrimoni combinati e aiutando i gruppi locali più poveri, fornendo loro denaro e risorse in cambio di uomini pronti alla jihad. Nel 2011, AQIM non solo era l’attore non statale più ricco della regione, ma anche il più forte, contando circa 1.200 uomini ben armati in tutto il Sahel. Con la caduta del regime di Gheddafi, gruppi come AQIM hanno avuto acceso ad un luogo sicuro dove riorganizzarsi e rifornirsi di interi arsenali. Infatti, operazioni come Operation Serval nel 2013 e Operation Barkhane nel 2014, hanno sì colpito duramente questi gruppi, uccidendo centinaia di jihadisti, tra cui molti leader, tuttavia, questi hanno semplicemente compiuto una ritirata strategica in zone come il sud della Libia, divenuti dei rifugi sicuri dove ricompattarsi e ritornare. AQIM è infatti un gruppo transnazionale, che non opera nel solo Mali. E così tanti gruppi, che si spostano e cambiano i propri obiettivi in base alle contingenze. Nonostante le operazioni militari francesi e internazionali, il Sahel è anzi peggiorato. Il Mali non è stato in grado di riprendere il controllo dell’area nord, restando un paese debole. Dal 2014 poi, i gruppi jihadisti hanno modificato i propri bersagli tradizionali, puntando a nuove “prede” come il Burkina Faso e il Senegal. Inoltre, nel 2015 l’ISIS ha stabilito nella regione una propria sigla, l’Islamic State in the Greater Sahara (ISGS), guidata da Abu Walid al-Sahrawi, precedentemente affiliato a Mokhtar Belmokhtar. Nel 2017 poi, tutte le sigle legate ad Al-Qaeda si sono unite i una singola organizzazione, il Gruppo in Supporto all’Islam e ai Musulmani (GSIM). Queste due organizzazioni rappresentano i più pericolosi attori non statuali nella regione, con importanti connessioni con le organizzazioni in Libia. Il collasso dell’ISIS nel nord del paese e la ritirata dei jihadisti verso il Fezzan, nel sud, rappresenta oggi uno degli scenari più pericolosi per il Sahel, vista la possibilità di questi ultimi di unirsi con le proprie controparti nella regione e destabilizzare ulteriormente l’area.
La Libia resta una delle questioni più preoccupanti per i paesi delle regioni nordafricane e del Sahel. Le sua posizione geografica influenza la sicurezza dei paesi vicini. La situazione interna è una bomba ad orologeria pronta a esplodere qualora, in breve, non si raggiunga un accordo politico che soddisfi tutti gli attori interessati, garantendo una de-radicalizzazione del paese. Diversamente, potenzialmente l’instabilità del paese nel lungo periodo potrebbe portare numerosi individui verso la radicalizzazione, incrementando le fila dei gruppi jihadisti e alimentando le insicurezze non solo della regione nordafricana e del Sahel, ma anche di quelle più lontane, come l’Europa e, in particolare, l’Italia.
Note
1“Interview With Abul-Mughirah Al-Qahtani” Dabiq, 2015; https://azelin.files.wordpress.com/2015/09/the-islamic-state-e2809cdc481biq-magazine-11e280b3.pdf
2HARCHAOUI, J., 2018, “Too Close for Comfort: How Algeria Faces the Libyan Conflict”, Small Arms Survey; http://www.smallarmssurvey.org/fileadmin/docs/T-Briefing-Papers/SAS-SANA-BP-Algeria-Libya.pdf
3CNN, 2017, “People for sale. Exposing migrant slave auctions in Libya; https://edition.cnn.com/specials/africa/libya-slave-auctions
4Libya Herald, 2018, “Tebu seem to gain upper hand on Awlad Sulieman in latest Sebha fighting”; https://www.libyaherald.com/2018/05/14/tebu-seem-to-gain-upper-hand-on-awlad-sulieman-in-sebha-fighting/
5WEHREY, Frederic, 2017, “The challenge of violent extremism in North Africa: the case of Libya”, Carnegie Endowment for International Peace, Testimony before U.S. House Subcommittee on Counterterrorism and Intelligence; https://docs.house.gov/meetings/HM/HM05/20170329/105759/HHRG-115-HM05-Wstate-WehreyF-20170329.pdf
6US Africa Command, 2018, “ U.S. confirms strike against al-Qa’ida’s Abu Musa Abu Dawud”; https://www.africom.mil/media-room/pressrelease/30524/u-s-confirms-strike-against-al-qaidas-musa-abu-dawud
7TRUITTE, K., 2018, “The Derna Mujahideen Shura Council: A Revolutionary Islamist Coalition in Libya”, Perspective on Terrorism, Universiteit Leiden; https://www.universiteitleiden.nl/binaries/content/assets/customsites/perspectives-on-terrorism/2018/issue-5/truitte-2.pdf
8SALEM, A., 2018, “The War in Derna: What’s Happening Now, and What’s Next?”, EUI RSCAS Policy Briefs, No. 2018/09, http://cadmus.eui.eu/handle/1814/56084
9TAYLOR, A., 2018 , “Algeria’s Libya Problem”, Atlantic Council; http://www.atlanticcouncil.org/blogs/menasource/algeria-s-libya-problem
10BOUKHARS, A., 2018, “The Potential Jihadi Windfall From the Militarization of Tunisia’s Border Region With Libya”, Carnegie Endowment for International Peace ; https://carnegieendowment.org/2018/01/26/potential-jihadi-windfall-from-militarization-of-tunisia-s-border-region-with-libya-pub-75365
11Repubblica, 2013, “Algeria, terroristi attaccano sito petrolifero. Presi in ostaggio 41 stranieri, due uccisi”; https://www.repubblica.it/esteri/2013/01/16/news/algeria_presi_in_ostaggio_41_stranieri-50668859/
12STRADA, M., 2015, “Tunisia, attentato agli hotel di lusso «Strage in spiaggia, 38 vittime» La strage rivendicata dall’Isis”, La Stampa; https://www.corriere.it/esteri/15_giugno_26/tunisia-attacco-armato-contro-resort-turistico-sousse-c17e2d26-1bf6-11e5-a24d-298f280523ad.shtml
13Repubblica, 2015, “Tunisi: terroristi sparano nel museo. 4 italiani morti. Blitz libera gli ostaggi, 17 i turisti uccisi”; https://www.repubblica.it/esteri/2015/03/18/news/tunisia_spari_in_parlamento-109844640/
14TORELLI, S.M, 2016, “The Ben Guerdane Attack and Tunisia’s Tackling of Terrorism”, Terrorism Monitor Volume: 14 Issue: 6; https://jamestown.org/program/the-ben-guerdane-attack-and-tunisias-tackling-of-terrorism/
15SY, A., (2017), “Impact of the Libya Crisis on the Tunisian Economy”, World Bank Reports, No. ACS16340; https://openknowledge.worldbank.org/handle/10986/26407
16United States Department Of State, 2015, “Designation of Tunisia as a Major Non-NATO Ally”; https://2009-2017.state.gov/r/pa/prs/ps/2015/07/244811.htm
17NADHIF, A., 2016, “Where Does US-Tunisian Military Cooperation End?”, Al-Monitor; https://www.al-monitor.com/pulse/originals/2016/11/tunisia-us-military-cooperation-secret-base-fight-terrorism.html
Copertina: csds-center
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