Intervista a Stefano Fontacone, coautore di “Crisi o transizione energetica? Come il conflitto in Ucraina cambia la strategia europea per la sostenibilità”, Diarkos edizioni 2022.


Con la fine della pandemia, la strategia europea ha iniziato a confrontarsi con la scarsità delle fonti energetiche tradizionali e con l’assenza di quelle tecnologie che permetterebbero di completare il passaggio alla fonti naturali. A questa già complessa situazione, si è aggiunta la crisi geopolitica determinata dall’aggressione russa all’Ucraina. Per colpire Mosca, l’Europa sta provando a sganciarsi definitivamente dalle forniture energetiche russe, ovviamente non è una missione semplice in tempi brevi. Questa incertezza pesa e non poco sul Vecchio Continente. Per comprendere al meglio queste dinamiche, abbiamo intervistato Stefano Fontacone, direttore del Centro Europa Ricerche, e coautore (insieme a Demostenes Floros) di “Crisi o transizione energetica? Come il conflitto in Ucraina cambia la strategia europea per la sostenibilità”, Diarkos edizioni 2022. (Acquista qui)

L’intervista 

Quali sono le dinamiche cha hanno portato ad un aumento spropositato del costo del gas? È solo “colpa” della guerra o no? “L’aumento dei prezzi del gas naturale sul mercato europeo prende avvio ad aprile 2021 e accelera definitivamente nel successivo mese di settembre, in un contesto di generalizzato aumento dei prezzi delle materie prime e nel pieno del rimbalzo post-pandemico dell’economia mondiale. Non è dunque la guerra a innescare la spinta rialzista dei prezzi del gas. Come esaminiamo nel libro, hanno contato altri fattori strutturali, in parte legati al processo di transizione energetica. In particolare, la scelta di grandi paesi asiatici come la Cina e l’India di sposare gli obiettivi di decarbonizzazione (entrambi i paesi ancora dipendono per circa il 50% dal carbone) ha aumentato enormemente, soprattutto in prospettiva, la domanda di gas di quest’area, che è anche quella a più rapida crescita economica. Soddisfare questa domanda è diventata quindi la scelta più conveniente per il fornitore russo, anche perché dall’altra parte i paesi europei sono impegnati in programmi volti a ridurre il consumo di gas e al contempo hanno scelto di abbandonare qualsiasi prospettiva di investimento nel settore. In questo modo l’Europa ha perso potere dal lato della domanda e ha ulteriormente indebolito la propria capacità di offerta. Esiste quindi un movimento carsico che porta l’Asia a diventare un concorrente dell’Europa nella domanda di gas e questo si ripercuote sui prezzi. L’invasione dell’Ucraina agisce come detonatore su questa situazione già fragile, perché di fatto porta sul mercato un nuovo fattore di rischio geo-politico: la possibilità che la Federazione Russa agisca per manipolare i prezzi o addirittura interrompa le forniture. Va ricordato a questo riguardo che la Russia è stato fino allo scorso anno un fornitore di massima affidabilità, che difficilmente riscontreremo nei nuovi fornitori, siano essi il Qatar o l’Algeria. Di fronte a questa novità il mercato europeo è letteralmente impazzito, portando in evidenza l’errore di fondo compiuto dall’Europa nel considerare l’energia come mero elemento di mercato e non anche come fattore di sicurezza nazionale.”.

Quante volte in questi mesi abbiamo sentito che la colpa è della “speculazione”. Che cosa significa e chi sta speculando in questa fase? “Il mercato TTF, da cui il gas transita prima di arrivare all’utente finale europeo, ha natura mera mente finanziaria. Sul TTF non avviene infatti uno scambio immediato di quantità fisiche di gas, bensì uno scambio su scadenze predefinite. In sostanza si scambiano titoli (futures) appoggiati alla commodity gas. Questo consente agli operatori di avere certezza sulla disponibilità futura di gas e di coprirsi da attraverso ulteriori strumenti finanziari (i derivati) dal rischio di volatilità dei mercati. Il mercato TTF porta dunque in equilibrio le aspettative sulle future condizioni di domanda e offerta del gas.  Un mercato di questo tipo è per sua natura speculativo e non ha quindi molto senso accusare la speculazione per l’esplosione dei prezzi. Al contrario, si può ritenere che in condizioni normali questo tipo di mercato sia un previsore efficiente, in grado di assicurare la disponibilità a un prezzo equo dei quantitativi di gas necessari per soddisfare la domanda finale. E fino alla fine del 2021 non avevamo infatti avuto problemi di approvvigionamento né ci eravamo confrontati con aumenti di prezzo non giustificati dai fondamentali economici. Ma per ottenere questo esito è appunto necessario trovarsi in condizioni normali, dalle quali ci si è definitivamente allontanati con l’invasione dell’Ucraina. In particolare, torna oggi in superficie un fatto colpevolmente trascurato, ossia che mentre si è spinto per portare al massimo grado la liberalizzazione del mercato europeo di distribuzione del gas, dal lato dell’offerta sono rimaste inalterate le condizioni di monopolio naturale della Federazione russa. Che invadendo l’Ucraina ha improvvisamente posto il mercato di fronte al rischio di un’interruzione delle forniture. Questa incertezza ha mandato fuori giri il mercato che in questi mesi ha cercato di prezzare il nuovo rischio geo-politico. Non a caso, il trend crescente dei prezzi si è interrotto dopo l’annuncio da parte di Gazprom dell’interruzione di Nord Stream per necessità di manutenzione. A quel punto l’incertezza sull’interruzione delle forniture è divenuta certezza e il mercato ha iniziato a ritrovare il suo equilibrio. Da questo punto di vista è molto significativo il fatto che le notizie diffuse successivamente, come il prolungamento del periodo di manutenzione e addirittura il “sabotaggio” dei gasdotti Nord Stream, non abbiano provocato alcuna spinta al rialzo sui prezzi, che hanno continuato a scendere. Per cui a questo punto ci troviamo in una situazione più definita, sapendo che i prezzi dei mesi passati erano troppo alti, ma al contempo sapendo anche che i prezzi prevalenti fino al 2021 erano troppo bassi. In questo corridoio verrà trovato un nuovo equilibrio in cui il prezzo del gas incorporerà il sopravvenuto rischio geo-politico.  

L’aumento del prezzo del gas darà la spinta giusta per una transizione energetica?
“La questione non è ovvia. Chiaramente, i prezzi raggiunti dai prezzi del gas e dell’elettricità porteranno imprese e consumatori a considerare con maggiore attenzione la convenienza offerta dalle fonti pulite. In questa direzione potrebbe spingere anche l’avversione che una parte dell’opinione pubblica sta maturando verso la scelta bellica della Federazione Russa. Vi sono quindi ragioni sia economiche sia psicologiche che potrebbero accelerare dal basso il processo di transizione. Salendo al poi al livello governativo, quindi dell’organizzazione delle politiche economiche, ormai sembra essere stata riacquisita la consapevolezza di dover trattare la materia energetica anche in termini di sicurezza nazionale e per la gran parte dei paesi europei rafforzare la quota di energia prodotta da fonti pulite è l’unico modo per acquisire indipendenza dagli stati che detengono le riserve di fonti fossili. Fra i quali, per inciso, vanno ricompresi anche gli Stati Uniti. Esistono tuttavia due fattori che limitano una transizione energetica più rapida. Il primo è costituito dalla disponibilità di tecnologie. Nel libro richiamiamo le cifre fornite dall’Agenzia Internazionale per l’Energia (International Energy Agency), secondo le quali al momento disporremmo solo del 70% delle tecnologie necessarie per conseguire gli obiettivi fissati dalla transizione per il 2030. La quota scende poi al 50% se consideriamo gli obiettivi del 2050. Certo i nuovi prezzi spingeranno la corsa tecnologica, ma un vincolo immediato esiste ed è consistente. Il secondo fattore limitante ha, se possibile, un rilievo anche maggiore. L’analisi del libro evidenzia come la transizione sia un processo organizzato al di fuori del mercato, dal momento che fino allo scorso anno il prezzo delle energie fossili era ancora relativamente basso rispetto alle spese necessarie per una maggiore diffusione degli impianti capaci di produrre energia pulita. Per questa ragione i governi sono intervenuti con un sistema id incentivi volti a sussidiare le fonti pulite e ad aumentare attraverso la tassazione le fonti fossili. Oggi che i prezzi delle energie tradizionali hanno raggiunto i livelli che sappiamo, questo sistema di incentivi rischia di avere effetti opposti a quelli desiderati. Aumentare artificialmente prezzi già straordinariamente alti riduce infatti gli spazi finanziari di famiglie e imprese e quindi prosciuga le risorse necessarie per gli investimenti in energia pulita. Per dare una quantificazione, si consideri che secondo l’Agenzia internazionale per l’Energia durante il percorso della transizione le spese per fonti fossili sarebbero dovute diminuire, a seguito del minor consumo, di circa 50 trilioni di dollari. Nel libro ripetiamo questi calcoli, ma adottando i nuovi prezzi dell’energia e il risparmio atteso risulta essersi pressoché dimezzato. Il venir meno di queste risorse, che avrebbero dovuto finanziare la transizione, è un vincolo finanziario che si presenta in modo inatteso e a cui dobbiamo far fronte. Per questo non ci sembrano condivisibili le letture di quanti guardano con soddisfazione all’aumento dei prezzi delle fonti fossili, con la certezza che a questo conseguirà una definitiva spinta vero l’energia pulita. Se non si interviene sul sistema degli incentivi si rischia invece di dover abbandonare la transizione per mancanza di risorse. D’altronde se non fosse così, sarebbe difficile capire perché la Federazione Russa è così impegnata nel manipolare verso l’alto i prezzi del gas.”.       

L’Europa rischia di sfaldarsi sul price cap?
L’Europa ha risposto all’invasione dell’Ucraina con compattezza e prontezza inconsuete. Ciò non significa che si siano per magia ricomposti i diversi interessi nazionali e di questo abbiamo appunto evidenza con il contrasto sul price cap e sulle altre misure di intervento sul mercato del gas. Dietro a questa discussione troviamo però un qualcosa di più profondo rispetto a un generico rischio di sfaldamento. Al di là del caso del tutto particolare dell’Ungheria, che non è rappresentativo della vera discussione europea, ciò a cui stiamo assistendo è l’isolamento del cuore mercantilista e non solidale dell’Unione europea, ossia del blocco tedesco-olandese. Come diciamo infatti nel saggio, i problemi di volatilità del mercato del gas europeo e di eccesso di dipendenza dalle forniture russe originano dalle scelte dei paesi del Nord Europa. Peraltro, che l’Olanda si opponga al price cap è quasi scontato, dal momento che esportando gas trae vantaggio dall’aumento dei prezzi e che ospitando l’hub TTF non ha interesse a che se ne imbriglino le dinamiche. Molto più profondo è quanto sta accadendo il Germania, che ha costruito la competitività della sua industria manifatturiera (appunto il cuore mercantilistico dell’Europa) anche sulle strette relazioni con la Federazione Russa e sulle forniture di energia a basso costo che quest’ultima avrebbe garantito per un tempo indefinito. Relazioni speciali che hanno portato alla costruzione di infrastrutture come i gasdotti Nord Stream, prioritariamente progettati per soddisfare i fabbisogni della Germania. Un altro aspetto che richiamiamo nel nostro volume è appunto il costo che l’intera Europa sta oggi pagando per l’assenza di un’infrastruttura alternativa come avrebbe potuto essere il Sud Stream, bloccato dalla politica statunitense dopo l’annessione della Crimea. La difficoltà dell’alleanza mercantilista sta ora liberando spazio per alleanze alternative, come quella costruitasi attorno alla proposta di price cap e che vede non solo un forte protagonismo italiano ma anche, fatto ben più importante, una frattura nella tradizionale comunità di intenti franco-tedesca. Con la Francia appunto schierata a favore di interventi con cui calmierare il mercato del gas europeo. Si tratta di un cambiamento che potrebbe rivelare radici profonde e che potrebbe segnare un’importante, e a mio parere virtuosa evoluzione delle politiche economiche europee.

Il razionamento energetico è inevitabile?
“A questa domanda la risposta è secca ed è purtroppo positiva. Non è infatti pensabile ritenere di conservare inalterati i consumi di un bene come il gas naturale il cui prezzo è aumentato, tra il minimo del 2020 e il massimo dello scorso agosto, di oltre il 1000%. Una delle conclusioni della nostra analisi è appunto che per i paesi europei il razionamento dei consumi energetici è già nei fatti e incorporato nei prezzi raggiunti dal gas naturale, che devono essere considerati come assolutamente insostenibili. Esiste un indicatore macroeconomico molto chiaro che ci avverte su questo esito: prendendo a riferimento l’Italia, il saldo degli scambi con l’estero sta passando da un attivo di oltre 40 miliardi di euro a un deficit di quasi 35 miliardi. Questa differenza di 75 miliardi misura il costo per il nostro paese della bolletta energetica. Un costo che è insostenibile e soprattutto che sarebbe del tutto insensato continuare a pagare. E come gli shock degli anni Settanta portarono a un ridimensionamento della domanda di petrolio, così lo shock di oggi porterà a ridurre la domanda di gas naturale.
Nel lungo periodo il processo sarà guidato dall’innovazione tecnologica che ne assorbirà i costi per imprese e consumatori (ad esempio, a parità di prestazioni e di soddisfazione di guida, una macchina di oggi consuma una quantità di benzina di gran lunga minore che negli anni Settanta). Ma nell’immediato l’unica prospettiva è quella di un razionamento della domanda.”.

Quali sono le mosse concrete che il prossimo Governo italiano potrà adottare per affrontare la crisi energetica e quindi economica?
“Ci sono diversi problemi da affrontare. Il primo è rappresentato da come contenere l’aumento dei prezzi. Su questo punto c’è una risposta europea che verte sul price cap, ma ci sono anche misure adottabili a livello nazionale. Per favorire una più rapida discesa delle bollette del gas l’ARERA – l’Autorità nazionale di regolazione dei prezzi- ha modificato il meccanismo di indicizzazione. Prima il costo delle bollette per clienti in maggiore tutela era fissato trimestralmente sulla base del prezzo di mercato del secondo mese antecedente. Con questo meccanismo, le bollette del gas dell’ultimo trimestre 2022 sarebbero state indicizzate al prezzo di agosto, uno dei massimi mai raggiunti. E questo prezzo sarebbe rimasto in vigore appunto fino alla fine dell’anno. Ora il costo delle bollette viene invece fissato mensilmente e su base posticipata per cui a ottobre si pagheranno i prezzi effettivamente determinatisi nel mese, che sono molto più bassi di quelli di agosto. Così si proseguirà nei prossimi mesi che presumibilmente incorporeranno ulteriori flessioni di prezzo. Al momento è possibile stimare che per fine anno una riduzione delle bollette del gas nell’ordine del 20% e forse anche del 30%. Il che non assorbe gli aumenti dei mesi passati, ma sicuramente accelera il rientro dai picchi estivi. Significativa è anche la decisione di abbandonare il TTF come riferimento per l’indicizzazione, per passare alla borsa italiana PSV, dove vengono quotati prezzi più bassi. L’importanza della scelta non sta però tanto nel differenziale di prezzo, comunque limitato, quanto nel segnale che viene mandato nel non considerare più rappresentativo il mercato olandese. Rimanendo dal lato dei prezzi c’è poi un secondo problema: come scollegare il prezzo dell’elettricità da quello del gas. Per come è configurato il mercato europeo, le bollette elettriche seguono infatti quasi specularmente l’andamento del prezzo del gas. Quindi lo shock che stiamo subendo è doppio. Non paghiamo di più solo le bollette del gas, ma anche quelle della luce. La soluzione su cui si sta lavorando è di considerare separatamente la quota di elettricità prodotta da rinnovabili, che è molto meno costosa di quella prodotta col gas. Il passaggio non è tecnicamente semplice, ma è sicuramente opportuno realizzarlo in tempi brevi.   L’altro problema da affrontare è quello delle quantità, ossia come sostituire le forniture russe che sono venute meno. Qui la soluzione è la diversificazione geografica e il risultato finora ottenuto è a tutti gli effetti eccezionale. La quota della Federazione russa sulle importazioni italiane di gas è infatti crollata, scendendo a settembre al 18,5%, meno della metà del 40% registrato fino al 2021. Ciò limita il rischio di rimanere senza gas, ma occorre avere ben presente che non elimina del tutto il rischio. Sostituire per intero le forniture russe è infatti impossibile e gli acquisti dagli altri fornitori non saranno affidabili come quelli della Federazione russa. Quindi il rischio è stato limitato, ma non può essere eliminato. Probabilmente vedremo quindi rinnovate tensioni col finire dell’inverno, quando le riserve saranno vicine a esaurirsi e l’assenza di forniture russe non consentirà di ripristinarle in misura sufficiente.
Infine, esiste un ampio spettro di misure fiscali che consente di alleviare l’impatto su famiglie e imprese, quali l’azzeramento degli oneri di sistema che grava sulle bollette, la riduzione dell’Iva, la concessione di aiuti monetari diretti possibilmente concentrati sulle fasce più deboli della popolazione. Tutti interventi già adottati e che occorrerà prolungare fino al rientro definitivo della crisi.
Volendo usare una formula di sintesi per l’insieme dei provvedimenti da adottare direi che occorre avere nervi saldi e occhio lungo. Nervi saldi perché la fase più acuta della crisi è probabilmente alle spalle e occhio lungo perché non si tornerà più alla stessa situazione pre-crisi e saranno necessarie misure capaci di ridurre su base strutturale la dipendenza energetica dell’Italia.”.    


Foto copertina: Crisi o transizione energetica