View over the Western Wall (Wailing Wall) and the Dome of the Rock Mosque, UNESCO World Heritage Site, Jerusalem, Israel, Middle East

Il Medio Oriente rappresenta, ancora oggi, il centro delle più spinose questioni internazionali. Più che Medio Oriente, sarebbe forse più corretto utilizzare l’acronimo MENA (Middle East and North Africa), indicando i paesi che vanno dal Marocco all’Iran. Numerosi i dossier aperti, tante le complicazioni politiche, religiose e sociali  che partono da qui, ma che inevitabilmente si ripercuotono in tutto il mondo. Il Prof. Massimo Campanini[1], orientalista, tra gli storici più stimati e seguiti in Italia, ci racconta dei Fratelli Musulmani in Egitto, della guerra dimenticata nello Yemen, della contrapposizione Sunniti/Sciiti nonché della concezione eurocentrica del mondo islamico.


Islam e democrazia possono coesistere?

Sgombrerei innanzi tutto il campo da un equivoco. Alcuni anni fa ebbe grande successo un libello che si intitolava “L’Islam è compatibile con la democrazia?[2]” .

Si tratta di un quesito mal posto perché coinvolge due categorie eterogenee: Islam fa infatti riferimento a una religione, mentre democrazia è un concetto politico. Inoltre, il quesito è carico di pregiudizi. Nessuno si è mai posto il problema se l’Ebraismo o il Cristianesimo siano compatibili con la democrazia.

Perché allora dovremmo porcelo per l’Islam?. Democratiche non sono le idee, le religioni, le rivelazioni. Democratici sono gli uomini. Esistono ebrei democratici ed ebrei che non lo sono; cristiani democratici e cristiani che non lo sono; musulmani democratici e musulmani che non lo sono. Ma non ha senso chiedersi se l’Ebraismo, il Cristianesimo o l’Islam (o il Buddhismo) sono democratici. Dunque nella domanda è implicita la pregiudiziale che la risposta sia negativa (e tale infatti era la tesi dell’autore del libello in questione), un atteggiamento intellettuale evidentemente non equilibrato o addirittura disonesto.

Sul terreno della prassi politica, è ovvio che la democrazia, se declinata in termini islamici, potrebbe avere caratteristiche non collimanti con quella declinata nei paesi euro-occidentali. I principali concetti politici del pensiero islamico classico, tuttavia, corrispondono in modo speculare ai concetti impliciti nella nozione di democrazia all’occidentale: contratto (‘ahd), consenso (ijmâ‘), legittimazione dal basso del potere pubblico (ikhtiyâr), giustizia (‘adâla), bene comune (maslaha), uguaglianza (musâwât). L’unico concetto che pare irriducibile a quelli della democrazia è il concetto di umma o Comunità dei credenti. L’idea di popolo (sha‘b) collegato all’idea di nazione (watan) non esisteva nel pensiero politico islamico classico, dove era sostituito appunto da quello di umma, ovvero di comunità dei credenti, cioè implicante una connotazione religiosa.

Indubbiamente, le nozioni di popolo e di nazione sono costitutive della democrazia nel senso occidentale del termine, tuttavia l’idea di umma non è completamente in contraddizione con l’idea di democrazia, in quanto implica l’etica collettiva e la necessità di un bene comune che prevalga sugli egoismi degli interessi individuali.

Certo, democrazia vuol dire letteralmente “potere del popolo” mentre in Islam la sovranità è comunque sempre e solo di Dio.

Tuttavia, da una parte democrazia è termine assai ambiguo (il “potere del popolo” si è storicamente realizzato in termini che vanno dal collettivismo sovietico al liberismo-liberista fondato sul sistema rappresentativo parlamentare e la discriminazione sociale); d’altra parte, se la sovranità è di Dio, sono comunque gli uomini che esercitano l’autorità. Dio è sovrano, ma se ne sta in cielo. Sono gli uomini che realizzano e gestiscono gli stati e i governi. Anche nell’Islam. Quindi non vedo perché l’Islam non dovrebbe essere compatibile con la democrazia.

Perché il Medio Oriente da circa cento anni rappresenta sempre la sfida da vincere per la pace e la stabilità mondiale?

Per quattro motivi interconnessi: perché è una regione strategicamente decisiva dal punto di vista geopolitico e delle risorse; perché le élite al potere nei paesi mediorientali sono state perlopiù tiranniche e hanno saccheggiato le risorse a proprio beneficio schiacciando e deprimendo la società civile che, a un certo punto, si è ribellata (anche in modo violento, vedi le “primavere arabe”); perché l’Europa, gli USA e l’Occidente in genere hanno sempre seguito, anche dopo le indipendenze nazionali, una politica di potenza neo-colonialista che ha mirato al proprio interesse e non a quello delle popolazioni locali, che a un certo punto se ne sono rese conto e si sono ribellate (anche in modo violento, magari manifestando simpatia per al-Qa’ida o i Talebani); perché gli USA e gli Occidentali in genere hanno praticato politiche univoche e sbilanciate favorendo aprioristicamente, a prescindere, i paesi amici o creduti tali (Israele e Arabia Saudita su tutti) a discapito di paesi che potevano avere una funzione equilibrante nel passato (l’Egitto di Nasser negli anni Cinquanta e Sessanta) o che comunque hanno un peso geopolitico che non può essere trascurato o minimizzato (l’Iran post-khomeinista e ora, sembra, anche la Turchia).

Naturalmente, queste idee sono motivate dalla storia stessa del Medio Oriente che non può essere ricostruita qui: basta studiarla usando le categorie giuste e il puzzle diventa comprensibilissimo.

Le “Primavere arabe” che tanto avevano entusiasmato il mondo Occidentale con le loro proteste dal sapore romantico: il popolo che chiedeva libertà e democrazia contro i “tiranni” oppressori , si sono invece dimostrate sostanzialmente un salto nel vuoto. Secondo Lei cosa non è andato nel verso giusto, e perché si sono rivelate un flop.

Le “primavere arabe” sono iniziate tra le più grandi speranze di rinnovamento democratico della zona MENA ma ormai credo si possa dire che siano fallite. I motivi sono stati diversi.

In Egitto è stato determinante il ruolo dei militari che con il colpo di stato del 3 luglio 2013 hanno defenestrato il presidente civile legittimamente eletto e si sono rimpadroniti del potere che detengono dalla rivoluzione del 1952.

In Siria, in Libia e in Yemen sono scoppiate incontrollate guerre intestine alimentate sia infiltrazioni di organizzazioni qaidiste come al-Nusra o lo stesso ISIS, sia dal fazionalismo e tribalismo interno, sia dall’ingerenza delle grandi (USA e Russia) e medie (Arabia Saudita e Turchia) potenze.

Prof. Massimo Campanini

I partiti e le organizzazioni islno avuto un ruolo centrale nelle “primavere arabe”, che agli inizi sono potute sembrare un vero laboratorio politico dell’islamismo “di governo”. Ma questi movimenti islamisti sono stati probabilmente meno alternativi al potere en place di quanto potesse sembrare, oppure non sono riusciti a trasformare il loro precedente ruolo contro-egemonico in egemonia sociale e politica.

Solo in Tunisia, Ennahda è riuscito a svolgere una funzione democratica che ha aiutato la transizione dalla dittatura. In ogni caso, molti punti oscuri non sono stati ancora acclarati. Le “primavere” sono state davvero quel moto democratico di popolo che ha cercato di aprire nuove strade di libertà per i paesi arabi? O sono state, almeno in parte (soprattutto in Libia e in Siria), etero-dirette e/o poi piegate o strumentalizzate? Solo il tempo potrà dirlo davvero e non è detto neppure che si arriverà a una risposta esaustiva.

Gli osservatori spesso ci parlano di contrapposizione geopolitica tra il blocco Sunnita e quello sciita in relazione alla varie crisi nell’area (mi riferisco, ad esempio, alla Siria ed allo Yemen). Secondo Lei questa divisione su base confessionale è davvero così forte e così importante rispetto ad altre possibili chiavi di lettura?

Il conflitto tra sunniti e sciiti è nato per motivi politici (legati alla questione della successione politica al Profeta Muhammad), è continuato come lotta di supremazia tra imperi (quello ottomano sunnita e quello safavide[3] sciita) ed è tuttora la foglia di fico con cui si coprono le rivalità egemoniche nella zona strategica del Golfo tra l’Arabia Saudita (sunnita) e l’Iran (sciita). La motivazione religiosa è stata ed è tuttora strumentalizzata per fini umani-troppo-umani. Come per la questione della democrazia, bisogna stare attenti a non confondere le idee (positive) con gli interessi di parte.

All’interno del  movimento dei Fratelli Musulmani, sembrano esserci due correnti ideologiche: quella legata al pensiero del fondatore Hasan Al- Banna, e quella invece più vicina al messaggio di Sayyid Qutb. Potrebbe illustrarci brevemente quali sono le sostanziali differenze di queste due visioni rispetto al rapporto con l’autorità politica ed al concetto di “democrazia”. Inoltre secondo Lei quale corrente prevarrà nei “Fratelli” di domani?

 I Fratelli Musulmani sono nati negli anni Venti-Trenta del secolo scorso come movimento popolare di massa inteso a islamizzare lo stato attraverso un processo di crescita educativa, morale e civile della società, un processo bottom-up di principio non violento, anzi democratico.

Che da Qutb in poi, negli anni Sessanta e oltre, in Egitto o Siria o Algeria, abbiano conosciuto una radicalizzazione è dipeso soprattutto dalla estrema durezza delle persecuzioni cui sono stati sottoposti dai regimi egiziano e siriano e algerino. Il jihadismo di al-Qa’ida si richiama bensì a Qutb, ma Bin Laden e Zawahiri hanno sempre professato aperta ostilità verso i Fratelli Musulmani in quanto tali poiché questi ultimi non concordano con la strategia di conquista del potere attraverso la lotta armata. Quindi la semplicistica equazione tanto in voga Fratelli musulmani uguale terroristi è l’ennesimo frutto dell’islamofobia ignorante della storia. È impossibile oggi prevedere il futuro dell’organizzazione.

In Egitto essa è stata decapitata dai militari. Tuttavia in Marocco e Tunisia almeno vi sono partiti (come il Partito della giustizia e dello sviluppo o Ennahda), rapportabili in qualche modo all’orizzonte teorico della Fratellanza, che partecipano alla vita democratica o sono addirittura al governo.

Cosa sta accadendo nello Yemen: è in atto una guerra di natura religiosa o settaria?

Lo Yemen è un paese che ha sofferto per secoli di due fattori potenzialmente distruttivi: il tribalismo e lo sbilanciamento dei rapporti di forza tra sunniti e sciiti.

Il tribalismo, assai radicato in Yemen, è ovviamente un elemento centrifugo, di divisione interna tra gruppi clanici, e non è il caso di spiegarsi oltre.

Per quanto riguarda la questione “religiosa”, lo Yemen è stato per secoli governato da dinastie sciite che però erano numericamente minoritarie, poiché la maggioranza della popolazione è sunnita. Il presidente ‘Ali ‘Abdallah Saleh, che ha governato per oltre trent’anni dalla fine degli anni Settanta al 2011, era personalmente uno sciita del nord che però si è alleato coi sunniti.

Quando la “primavera” yemenita ha dissolto lo stato faticosamente cucito insieme nel 1990, i sunniti si sono impadroniti del potere, ma la maggior parte degli sciiti (gli Huthi in particolare) non ha accettato questo rovesciamento dei rapporti di forza e si è ribellata. Da qui la guerra civile, da qui l’intervento dell’Arabia Saudita contro gli Huthi. È necessario tuttavia ricordare che gli Huthi sono bensì sciiti, ma zayditi[4] e non imamiti[5], cioè non sono di obbedienza iraniana, non riconoscono come loro imam Khamenei né come loro guide religiose gli ayatollah di Qom. Per cui, anche se ovviamente dal punto di vista politico, non possono che accogliere positivamente l’aiuto iraniano, nulla garantisce o obbliga a credere che, se vittoriosi, gli Huthi diventerebbero una ruota del carro iraniano.

È corretto affermare che il fallimento delle ideologie laiche sviluppatesi nella seconda metà del novecento in tutto il Medio Oriente ed, in particolare, del nazionalismo, del socialismo arabo e del panarabismo, abbia aperto la strada al fondamentalismo “religioso”?

Certamente, anzi è stato un o “il” fattore determinante del ritorno all’Islam a partire dagli anni Settanta. La data cruciale è la guerra dei sei giorni del 1967 di cui si celebra quest’anno il cinquantennale. Quella guerra – la naksa ovvero la disfatta araba contro Israele – ha fatto crollare i miti del nazionalismo e del socialismo laici di cui il massimo rappresentante era stato il presidente egiziano Nasser (ma si pensi anche agli Assad o a Gheddafi). Su quelle macerie ideologiche è rifiorito l’Islam, la cui recente radicalizzazione però si è alimentata anche ad altre fonti (ripeto quanto detto sopra: gli errori occidentali, la rapacità delle élite locali, la crisi economica e l’impoverimento delle classi medie).

Quanto c’è di “religioso” dietro gli attentati che stanno sconvolgendo l’Europa?

Poco o nulla se vogliamo intendere che i terroristi sono mossi da motivi “religiosi”. Come già detto ad abundantiam più sopra la religione è il pretesto, la foglia di fico, con cui coprire interessi politici e strategie umane-troppo-umane.

L’Europa, comunque, è un bersaglio privilegiato perché molti la identificano (giustamente peraltro) col colonialismo vecchio e nuovo (Gran Bretagna e Francia sono state le due massime potenze imperialiste), con la persuasione (più o meno fondata) che gli occidentali continuino a saccheggiare e sfruttare il Medio Oriente e gli arabi.

“L’islam è una religione intrinsecamente violenta e maschilista e, per questo, inconciliabile con i valori occidentali”. Questa affermazione – che sentiamo oramai sempre più spesso ripetere – è da considerarsi solo uno slogan politico o contiene un fondo di verità?

Tutte le religioni hanno un fondo di violenza, fa parte del loro DNA per così dire, perché una religione non può che considerarsi depositaria della “verità” rispetto alle altre.

La Bibbia ebraica, dal libro dell’Esodo al Deuteronomio, è piena di incitamenti a sterminare i nemici, a passare a fil di spada gli avversari vendendo le donne e i bambini assoggettati come schiavi. Il mistico cristiano e dottore della Chiesa Bernardo di Clairvaux[6] (XII secolo), bandendo la seconda crociata col pamphlet “De laude novae militiae”, scriveva che i soldati di Cristo uccidono legittimamente gli infedeli e che spargere il sangue in nome di Cristo è gradito a Dio.

I fondamentalisti indù e buddhisti in Sri Lanka e Thailandia danno la caccia al musulmano e espellono i musulmani dai loro villaggi. Quindi, la condanna dell’islam come religione eminentemente o esclusivamente violenta è uno slogan politico utilissimo ad attizzare uno dei chiodi fissi dell’Occidente: la “creazione del nemico” (si veda la teoria del partigiano di Carl Schmitt).

Prima c’è stato il comunismo, ora c’è l’islam, dopo, se l’Islam verrà annientato come il comunismo (ma l’osso mi pare assai più duro da rodere), ci sarà la Cina: alcuni strateghi americani hanno già pensato a piani di guerra totale contro “il pericolo giallo”. 


[1] È stato docente di Civiltà islamica nella Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele dalla fondazione fino al 2013, ed è stato per quasi sei anni docente di Storia contemporanea dei Paesi arabi nella Facoltà di Studi Arabo-Islamici e del Mediterraneo dell’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”. Professore associato di Storia dei paesi islamici presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento dal 2011 al 2016, attualmente a riposo. Le sue opere più importanti:

  • Il pensiero islamico contemporaneo, Bologna, il Mulino, 2005, 2009 e 2016 (nuova edizione rivista e accresciuta).
  • Storia dell’Egitto contemporaneo, Roma, Edizioni Lavoro, 2005, (tradotto in arabo dal Majlis al-ʿalāʾ li-l-thaqāfa [Consiglio Superiore della Cultura], Il Cairo 2006)
  • Storia del Medio Oriente, Bologna, il Mulino 2006 e 2007, (tradotto in spagnolo e portoghese e in serbo 2011), quinta edizione rivista e accresciuta col titolo Storia del Medio Oriente contemporaneo 2017.
  • Ideologia e politica nell’Islam, Bologna, il Mulino, 2008.
  • I sunniti, Bologna, il Mulino, 2008 e 2016.
  • I Fratelli Musulmani nel mondo contemporaneo (con Karim Mezran), Torino, UTET, 2010
  • L’alternativa islamica, Milano, Bruno Mondadori 2012.
  • Quale Islam? Jihadismo, radicalismo, riformismo, Brescia, La Scuola, 2015.
  • L’Islam, religione dell’Occidente, Milano, Mimesis, 2016.
  • Storia dell’Egitto dalla conquista araba ad oggi, Bologna, Il Mulino 2017.

[2]Renzo Guolo “L’islam è compatibile con la democrazia?”. Edizioni Laterza, 2007

[3]I Safavidi sono stati una dinastia-confraternita mistica di lingua e cultura turca. Originari del Kurdistan persiano, si insediarono in Azerbaigian e governarono la Persia tra il 1501 e il 1736.

[4]Lo Zaydismo è una delle varianti dello Sciismo islamico ed è attualmente diffuso nel solo Yemen, anche se in passato, era diffuso anche in Persia, specialmente in varie regioni gravitanti intorno al Mar Caspio. Deve il suo nome a Zayd ibn ʿAlī ibn al-Ḥusayn, uno dei figli del quarto Imām sciita Zayn al-ʿĀbidīn, che insorse inutilmente a Kūfa nel 740 d.C. contro il potere omayyade, da lui ritenuto usurpatore e violentemente ostile all’Ahl al-Bayt.

[5]Duodecimani”,oImamiti” dichiararono che l’Imam “occultato” seguitava ad agire comunque tramite suoi rappresentanti (wakīl) ma la catena di morti precoci e di omicidi creò ulteriori difficoltà e, con la morte del quarto e ultimo wakīl nel 940, nessun altro venne designato. Tale data segna l’inizio del “Grande Occultamento” che continua fino ad oggi.

[6]Bernardo di Chiaravalle  un monaco, abate e teologo francese dell’ordine cistercense, fondatore della celebre abbazia di Clairvaux, di cui fu abate, e di altri monasteri. Viene venerato come santo da Chiesa cattolica, Chiesa anglicana e Chiesa luterana.

Foto Copertina : Gerusalemme