Il prossimo 3 novembre 240 milioni di cittadini americani saranno chiamati alle urne per scegliere il nuovo presidente.  I candidati: per il partito repubblicano sarà il presidente in carica Donald Trump, per i democratici l’ex vicepresidente di Obama, Joe Biden. Ma quale iter conduce all’elezione del Presidente degli Stati Uniti?


 

Il procedimento elettorale che porta alla designazione del Presidente si distingue dai sistemi elettorali predisposti allo scopo dalle democrazie occidentali per durata e modalità di svolgimento. Esso copre un arco di tempo di due anni e si articola in due fasi successive: a) una fase preliminare, durante la quale viene selezionato il leader politico che i due maggiori partiti – il Democratic Party e il Grand Old Party – propongono alle rispettive Convention nazionali quale candidato ufficiale alla Casa Bianca; b) la fase conclusiva, costituita dalle elezioni generali vere e proprie che culminano con l’elezione del nuovo Presidente[1].

L’Election Day

L’Election Day è fissata al martedì successivo al primo lunedì di novembre: quest’anno sarà dunque il 3 novembre. La scelta di votare a novembre e di martedì ha sue ragioni storiche e pratiche. Fin dai tempi del Continental Congress, la prima assemblea dei nascenti Stati Uniti, il periodo di attività politica era l’inverno, per non costringere i rappresentanti a lasciare l’attività nei campi. Nel 1792, venne deciso che le elezioni presidenziali dovevano tenersi a novembre, così da avere abbastanza tempo per contare i voti prima dell’inaugurazione del nuovo Congresso a gennaio. Dal 1845, divenne legge il voto il primo martedì di novembre, con l’eccezione del 1° novembre per rispettare la festività cattolica di Ognissanti. Il motivo della scelta del martedì come ElectionDay è legato all’epoca pre-rivoluzione industriale, in cui ad una larga parte degli elettori occorreva un giorno di viaggio per recarsi al luogo del voto nei grandi spazi dell’America. Essendo la domenica destinata al riposo, si pensò di utilizzare il lunedì per gli spostamenti, così che tutti potessero raggiungere i seggi per il martedì.

The winner takes all: i “Grandi” elettori

Ripartizione dei “Grandi” elettori

Il sistema elettorale americano è indiretto. Gli elettori esprimo il cosiddetto Collegio elettorale, Electoral College, formato da 538 Grandi Elettori ed è una maggioranza di questi che decide poi ufficialmente il Presidente. I Grandi Elettori sono chiamati a votare il lunedì seguente il secondo martedì di dicembre: quest’anno dunque il 19 dicembre. Ad insediarsi[2] alla Casa Bianca sarà il candidato che avrà raggiunto la maggioranza assoluta dei voti, 270 dunque. Nel caso nessuno dei candidati alla Presidenza dovesse ottenere la maggioranza assoluta, è previsto che il Presidente venga scelto dalla Camera dei Rappresentanti. Questa situazione si è verificata nel 1824 quando fu eletto Andrew Jackson.
I Grandi elettori sono ripartiti per stato e il loro numero rispecchia, per ciascuno stato, la somma di seggi alla Camera federale[3], al Senato più tre rappresentanti cui avrebbe diritto il District of Columbia, quello della capitale Washington Dc, se fosse considerato uno stato. I grandi elettori sono quasi sempre assegnati in blocco, l’intero pacchetto a chi vince il voto popolare nello stato – secondo la formula “winner takes all” – chi vince prende tutto.
Uniche eccezioni sono il Nebraska e il Maine, dove vige un metodo più proporzionale: due grandi elettori assegnati a chi vince il voto popolare mentre i restanti, due in Maine e tre in Nebraska, ai vincitori di ciascuna delle circoscrizioni elettorali nello stato. Questa formula può comportare una spartizione dei grandi elettori tra democratici e repubblicani.[4] I Grandi Elettori non hanno un vincolo di mandato. Accade tuttavia molto raramente che un Grande Elettore voti per un candidato Presidente diverso da quello che ha deciso di sostenere inizialmente. Tale circostanza rende di fatto il sistema elettorale sopra descritto solo formalmente indiretto.

Gli Stati “Swing”

L’elezione del Presidente è evidentemente legata dunque alle affermazioni nei singoli Stati e l’importanza degli Stati è in funzione del numero degli elettori presidenziali. In base a questo sistema è possibile che un candidato ottenga la maggioranza dei voti popolari, ma non riesca a vincere in un numero sufficiente di Stati tale da consentirgli la maggioranza dei voti elettorali. Tale eventualità si è verificata nelle elezioni del 2000: il candidato – sconfitto – del partito democratico, Albert Gore, ottenne circa 543.895 voti popolari in più nei confronti del candidato del partito repubblicano, George W. Bush, il quale risultò eletto grazie ai 271 voti elettorali. Furono in quell’occasione determinanti i 25 voti elettorali assegnati a Bush nello Stato della Florida, ottenuti grazie ad un margine ridottissimo di voti popolari (537).
Anche nel 2016 la democratica Hillary Clinton ottenne quasi tre milioni di voti in più su scala nazionale ma perse contro Trump nella matematica del collegio elettorale, che richiede di accumulare almeno 270 grandi elettori grazie a successi anche di stretta misura nei singoli stati.
E’ questa realtà a trasformare in ago della bilancia alcuni stati cosiddetti “swing”, cioè incerti, in particolare quest’anno Pennsylvania, Michigan, Wisconsin, Arizona, North Carolina e Florida.
La scadenza federale ultima per certificare le elezioni sulla base del Collegio elettorale, e per la soluzione di eventuali dispute, è l’8 dicembre. I nomi dei Grandi elettori sono indicati dai due partiti, tradizionalmente scelti tra fedeli funzionari o militanti locali.

L’inedito ruolo del voto postale

Il voto postale nel 2020 avrà un impatto particolarmente significativo a causa della pandemia, ponendo inedite sfide allo scrutinio. E’ ancora in dubbio quale percentuale rappresenterà a conti fatti, ma sarà significativa e forse decisiva circa il 35%, in ogni caso superiore al 25% del 2016. Sono però attese dure polemiche su schede valide e nulle nei voti postali. Se sarà alla fine inferiore alle attese, potrebbe oltretutto creare altri problemi: sovraffollamenti delle urne fisiche nel giorno formale del voto, il 3 novembre, che creino ingestibili code e mettano in difficoltà lo staff elettorale.

Una partecipazione record?

Sono 240 milioni gli americani aventi diritto al voto. E nonostante le difficoltà 50 milioni di loro hanno già votato, un record nelle schede depositate in anticipo o via posta. Entro il 3 novembre, secondo alcuni esperti, potrebbero aver già votato di persona o via posta 85 milioni di americani. Il totale finale dei votanti potrebbe superare i 150 milioni, pari a una partecipazione complessiva almeno del 62 per cento. Potrebbe cioè essere la più elevata dal 1908, quando raggiunse il 65,7% in un elettorato assai più ristretto, senza allora il voto alle donne e di gran parte degli afroamericani apertamente discriminati al sud. Negli ultimi vent’anni il tasso dei votanti è stato attorno al 60 per cento.


Note

[1] https://www.opiniojuris.it/lelezione-del-presidente-degli-stati-uniti-damerica/

[2] L’insediamento del Presidente degli Stati Uniti d’America (l’Inauguration Day) si tiene, dal 1933, il giorno 20 gennaio, a mezzogiorno, al Campidoglio. Nell’occasione egli presta giuramento, secondo tradizione nelle mani del Presidente della Corte Suprema, e pronuncia il suo primo discorso.

[3]Ogni Stato” – recita l’art. 2, sezione I, comma 2, della Costituzione americana, così come modificata dal XII emendamento – “nomin[a], nel modo […] stabilito dal suo organo legislativo, un numero di Elettori, pari al numero complessivo dei senatori e dei rappresentanti che lo Stato ha diritto di mandare al Congresso”.

[4] https://www.ilsole24ore.com/art/elezioni-usa-2020-come-funziona-regole-e-schede-elettorali-ADy48Py


Foto copertina: Bbc