L’attuale stato di emergenza sanitario ha creato numerosi problemi con riguardo alla gestione della popolazione penitenziaria.
Lo stato acclarato di sovraffollamento delle carceri, per cui il nostro paese è stato spesso sanzionato dalla CEDU, rischia di trasformare gli istituti penitenziari in veri e propri focolai epidemici.
La presa di provvedimenti a favore dei detenuti è dovuta per ragioni di civiltà giuridica oltreché ordinamentali, basti pensare all’art. 27 comma 3 della Costituzione secondo cui le pene, per assolvere una finalità rieducativa, non possono – e non devono – tradursi in trattamenti contrari al senso di umanità.
Una sostanziale riduzione del numero dei detenuti è auspicabile, non solo, a salvaguardia del diritto alla salute degli stessi, ma anche al fine di garantire una maggior tutela al personale della polizia penitenziaria e ad ogni altro soggetto coinvolto nella gestione della vita carceraria.
Oltretutto, occorre precisare che ad aggravare la situazione vi è anche l’esiguo numero di magistrati preposti alla “Sorveglianza” a fronte dell’elevato numero di detenuti con conseguente aggravio in punta di mole di lavoro pendente, che ora rischia di accentuarsi a causa dell’emergenza Covid-19.
Il Legislatore ha elaborato una prima risposta a questo problema all’art. 123 del Decreto Legge 17 marzo 2020, n. 18 – cd. «Decreto Cura Italia», norma emergenziale che non è stata salutata con favore da parte degli operatori del settore giustizia.
Si premette all’analisi che seguirà che, come sancito al comma dal comma 9, dall’attuazione delle misure predisposte dall’art. 123 non derivano nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, sicché le amministrazioni dovranno provvedere mediante l’impiego delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente.
Al comma 1 sono elencati i requisiti soggettivi ostativi alla detenzione domiciliare, come l’esser detenuto per uno dei delitti elencati all’art. 4 bis l.354/1975 (es. per associazione di stampo mafioso ex art. 416 bis cp ), nonché per i delitti di cui agli artt. 572 e 612- bis cp.
La previsione di quest’ultimi delitti nel novero delle condizioni ostative alla detenzione domiciliare rappresenta un’aggiunta rispetto a quanto operato dal Legislatore nella l. 199/2010, di cui, l’art. 123 del “Cura Italia” ha mantenuto solo alcune delle preclusioni soggettive.
Infatti, l’art.123 non può applicarsi ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza, ai sensi degli articoli 102, 105 e 108 del codice penale, ai detenuti che sono sottoposti al regime di sorveglianza particolare, ai sensi dell’articolo 14-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, salvo che sia stato accolto il reclamo previsto dall’articolo 14-ter della medesima legge.
Il Legislatore, inoltre, attraverso questa norma, in considerazione delle rivolte carcerarie del mese di marzo 2020, ha reso inapplicabile la detenzione domiciliare ex art. 123 ai detenuti coinvolti nei disordini e nelle sommosse a far data dal 7 marzo 2020, nei cui confronti sia stato redatto il rapporto disciplinare ai sensi dell’articolo 81, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 2000, n. 230, in quanto appare opportuno evidenziare che l’art. 123 DL n 18/2020 si differenzia anche dall’art. 47-ter l. 354/1975; sebbene entrambe le norme siano applicabili ad i soggetti indicati all’art. 4-bis l.ord.pen., occorre osservare che si le stesse si fondano su presupposti applicativi ben diversi, specialmente di natura temporale.
Infatti, la detenzione domiciliare di cui all’art. 47-ter può essere applicata a quei detenuti cui restano da scontare 2 anni di reclusione. Tale presupposto temporale si eleva a 4 anni per soggetti gravemente malati, minori degli anni 21 con comprovate esigenze di studio e salute, persona con età oltre 60 anni inabili e per donne incinte o con prole convivente di anni inferiori a 10.
Il comma 1 sancisce la deroga, valida fino al 30 giugno 2020, alla legge sulla detenzione domiciliare n. 199 26 novembre 2010, precisamente al disposto dei commi 1, 2 e 4 dell’articolo 1.prevedendo una procedura – di competenza del Tribunale di Sorveglianza – indirizzata a coloro ai quali hanno un residuo pena non superiore a 18 mesi. Tali soggetti, infatti, potranno espiare la propria residua pena in regime di detenzione presso la propria abitazione o in altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza.
Nonostante la deroga, il legislatore emergenziale ha ritenuto opportuno ispirarsi alla l.199/2010 che offriva un modello già sperimentato in ragione del sovraffollamento carcerario. Tuttavia, il richiamo alla menzionata legge non è stato del tutto pedissequo essendo state apportate, al canovaccio offerto da quest’ultima, delle modifiche; a conferma di ciò basti osservare la lettera f) del comma 1 dell’art. 123, a norma della quale è preclusa l’applicazione della detenzione domiciliare a quei detenuti privi di un domicilio effettivo e idoneo alla misura e alle esigenze di tutela delle persone offese dal reato.
Un’ulteriore deroga alla legge 199/2010 è apprezzabile nella parte in cui all’art. 123 comma 1 non è prevista la condizione ostativa del «concreto pericolo di fuga» e del «pericolo concreto che il condannato possa commettere delitti». In ogni caso, come affermato dal comma 8 dell’art. 123 restano ferme le ulteriori disposizioni dell’articolo 1 della legge 26 novembre 2010, n. 199, ove compatibili.
In coerenza con quanto detto, il procedimento per l’applicazione della misura resta lo stesso di cui all’art. 1 l.199/2010, potendo esso esser promosso su istanza del detenuto, d’ufficio dal pubblico ministero ovvero per iniziativa della direzione penitenziaria. In sede di applicazione, l’ufficio penitenziario competente non è tenuto ad inviare al magistrato di sorveglianza una relazione sul comportamento tenuto dal detenuto durante il periodo di detenzione, la cui emanazione sarebbe un aggravio futile alla procedura in esame, dato che tra le condizioni ostative vi è già una di tipo disciplinare. In ogni caso, la direzione penitenziaria è tenuta ad indicare il luogo in cui avverrà la detenzione e la sua idoneità alla stessa, nonché la presenze di cause ostative alla detenzione domiciliare – ex multiplis attestare che la pena da eseguire non sia superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena – e che il condannato abbia fornito l’espresso consenso alla attivazione delle procedure di controllo.
La detenzione domiciliare ex art. 123 è applicabile anche per il condannato non detenuto (la cui pena rientri nei limiti sopra indicati) su istanza del Pubblico Ministero che ha emesso o competente ad emettere l’ordine di carcerazione. In questa ipotesi, il magistrato è tenuto a trasmettere il fascicolo contenete tutti gli atti relativi all’esecuzione – ivi compreso il verbale di idoneità del domicilio – al Giudice dell’esecuzione il quale provvederà ai sensi della l. 199/2010.
Uno dei principali punti dolenti del provvedimento in esame è la procedura di controllo a cui devono essere sottoposti i detenuti con un residuo di pena superiore a 6 mesi di detenzione. La richiamata attività, infatti, dovrebbe essere realizzata mediante il ricorso a mezzi elettronici o altri strumenti tecnici resi disponibili per i singoli istituti penitenziari.
Dal comma 5 si evince che il provvedimento in esame è stato adottato senza avere la contezza dei reali mezzi di controllo – ossia braccialetti elettronici – in possesso alle amministrazioni penitenziari. Quanto detto trova una – drammatica – conferma nella previsione secondo cui, entro 10 giorni dall’entrata in vigore del decreto, il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia, d’intesa con il capo della Polizia-Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, deve individuare il numero dei mezzi elettronici e degli altri strumenti tecnici da rendere disponibili, nei limiti delle risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente, tenuto conto anche delle emergenze sanitarie rappresentate dalle autorità competenti. Da quanto scritto, sembra potersi evincere che la summenzionata procedura di controllo sia stata adottata nonostante la piena consapevolezza della mancanza dei mezzi concreti per adottare tali misure di controllo.
La norma oggetto del presente decreto non è stata salutata con favore da parte del CSM e del CNF.
Entrambi gli organi rappresentativi, infatti, hanno definito la previsione di cui all’art. 123 del d.l «Cura Italia» come: provvedimento «poco originale», inadeguato rispetto al contesto emergenziale che vive il Paese nonché al rischio sanitario a cui sono posti gli istituti di pena. Seppur la ratio della norma sia quella di creare una procedura snella e scevra di fasi o adempimenti in grado di appesantirla, essa sembra esser stata tradita sotto più fronti.
Il Legislatore, nel redigere l’art. 123, non ha prestato alla detenzione domiciliare la stessa attenzione riservata all’individuazione delle cause soggettive ostative. Infatti, si è premurato di evidenziare la non fruibilità del beneficio ai detenuti condannati per i delitti di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 cp. e stalking ex art. 612 bis, preclusione da salutare con grande favore in ragione della tutela delle persone offese essendo queste, spesso, persone legate da vincoli di parentela, le quali sarebbero state esposte ad una convivenza domiciliare non serena.
Tuttavia, l’apparente accortezza sull’impatto reale della norma non appare del tutto adeguata, in quanto l’art. 123 crea degli automatismi pericolosi, come evidenziato dal CSM. Segnatamente, i poteri valutativi del Giudice in sede di Sorveglianza sono limitati all’individuazione delle cause ostative di cui al comma 1 e all’inidoneità del domicilio, in quanto non è previsto dalla norma la possibilità di precludere la concessione del beneficio per pericolo di fuga o pericolo di commissione di altri delitti.
Tale esclusione non è stata – neanche – giustificata in modo convincente nella relazione all’ art. 123, nella quale si legge testualmente «la ragione di questa scelta è che si tratta di due presupposti che limitano l’utilizzo dell’istituto e che in questa fase di urgenza sono di complesso accertamento».
Non appare affatto ragionevole precludere al giudice un accertamento del caso concreto in favore di una procedura più snella, la quale non riesce ad avere un impatto reale e risolutivo sull’emergenza.
In realtà, il provvedimento aggrava – sostanzialmente e di fatto – gli obblighi a cui sono tenute le amministrazioni penitenziarie, sulle cui esigue finanze e sul cui impegno grava l’onere di fornire i braccialetti elettronici per le procedure di controllo, i quali sono, al momento, insufficienti rispetto ai detenuti che potrebbero usufruire della misura, nonché tutte le risorse finanziarie e umane volte a soddisfare le domande di tutela. In conclusione, prevedendo al comma 9 la clausola di invarianza finanziaria, il legislatore sembra aver commesso lo stesso errore fatto con la L. 69/2019, in cui ha previsto la procedura del «Codice Rosso» per le vittime di violenza domestica e di genere, senza però fornire alle amministrazioni competenti delle risorse idonee e concrete per attuare le tutele ivi previste.
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