Dal Pivot to Asia ai riflessi della guerra in Ucraina. Le tensioni nel Pacifico potrebbero tramutarsi in conflitti aperti. La domanda non è se avverrà, ma quando.


Lo scorso marzo, ad un mese dallo scoppio delle guerra in Ucraina, un po’ a sorpresa Kurt Campbell, il coordinatore del Consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti per l’Indo-Pacifico, ha identificato il Pacifico come il teatro in cui è più probabile che Washington vedrà una “sorpresa strategica” dalla Cina. Il commento di Campbell sottolinea le preoccupazioni di Washington secondo cui la Cina sta cercando di acquisire strutture militari nel Pacifico, limitando l’influenza degli Stati Uniti nella regione[1].
E’ dal 2011 che gli Stati Uniti guardano con maggiore attenzione all’area dell’Indo-Pacifico come zona strategicamente vitale. Durante un viaggio ad Honolulu, in Australia e in Indonesia per una serie di importanti incontri, l’allora presidente statunitense Barak Obama, lanciava un messaggio che racchiudeva la strategia diplomatica, militare ed economica integrata che si estende dal subcontinente indiano attraverso il nord-est asiatico e che può plasmare profondamente le relazioni USA-Cina. Il messaggio centrale: era : “Gli Stati Uniti svolgeranno un ruolo di leadership in Asia per i decenni a venire.”. Una virata storica, dovuta anche ad alcune tensioni che rischiavano di diventare crisi. Nel 2010, gli Stati Uniti non hanno esitato a rispondere alla mano pesante cinese nella regione. In reazione al test della Corea del Nord di un ordigno nucleare e poi al lancio di provocazioni mortali contro il Sud, l’amministrazione Obama sostenne inequivocabilmente Seoul, esercitando forti pressioni sulla Cina per tenere a freno Pyongyang e contro le forti obiezioni della Cina ha svolto esercitazioni navali nel Mar Giallo per servire come avvertimento alla Corea del Nord. Sia nel nord-est asiatico che nel Mar Cinese Meridionale, l’amministrazione Obama affermò formalmente la sua neutralità nelle controversie territoriali che coinvolgevano la Cina, ma adottando posizioni sostanziali che prevedibilmente hanno sollevato problemi a Pechino. Quando il Giappone arrestò un capitano di un peschereccio cinese dopo un incidente nelle acque territoriali vicino alle contese isole Senkaku/Diaoyu, il Dipartimento di Stato confermava che l’alleanza USA-Giappone copriva anche quella porzione di mare perché le isole sono sotto l’effettivo controllo amministrativo del Giappone. Insomma una presenza importante nel Pacifico a discapito di altre zone del mondo, dal Medio Oriente all’Africa da dove gli Stati Uniti preferirono ritirarsi.
Questo approccio è diventato l’ormai famoso “Pivot to Asia” della coppia Obama-Clinton.
Sono passati poco più di 10 anni, ma nel mezzo è passata un’epoca. L’allontanamento statunitense dai teatri mediorientali e centroasiatici, hanno lasciato spazio a russi e cinesi, l’attuale guerra in Ucraina diventa inevitabilmente uno spartiacque della recente storia del mondo. L’area dell’Indopacifico resta nonostante tutto, un area strategicamente importante ma ricca di potenziali situazioni di crisi.
L’espansione marittima cinese minaccia e non poco la stabilità dei confini delle acque territoriali, e allo stesso tempo Hong Kong e Taiwan rappresentano, per motivi sostanzialmente simili, due spine nel fianco di Pechino. Tra Seul e Pyongyang l’area resta inevitabilmente tesa, divise tra chi ne vorrebbe una riunificazione e chi come Kim Jong Un sa bene che potrà sopravvivere solo se mantiene alto il livello di allerta, con lancio di missili in mare. In Giappone si discute se modificare o meno il famoso articolo 9 della costituzione giapponese che proibisce la guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali che coinvolgono lo Stato. Allo stesso modo l’India fa parte del QUAD Il Dialogo quadrilaterale di sicurezza (Quadrilateral Security Dialogue, QSD)cioè l’alleanza strategica informale con Australia, Giappone e Stati Uniti con lo scopo di contenere l’espansionismo cinese nella regione dell’Indo-Pacifico, ma allo stesso tempo si astiene dal votare le sanzioni contro la Russia generando una sorta di corto circuito. Ma per gli Stati Uniti i problemi nel pacifico non sono finiti. Il giorno dopo la fine del viaggio di Biden nella regione del Pacifico lo scorso maggio, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi diede vita ad un tour di dieci giorni in otto nazioni del Pacifico. Kiribati e Isole Salomone alcune tra le sue mete: arcipelaghi famosi per le loro acque cristalline, ma soprattutto con una posizione strategica che fa gola a Pechino. Solo un mese fa, proprio con le Isole Salomone la Cina ha siglato un accordo che le consente di inviare polizia e incrociatori per proteggere la sua presenza economica nell’arcipelago. Il timore di Washington e alleati è che tale accordo non resti un caso isolato. E sia il primo passo per assicurarsi una base militare nella regione (la seconda fuori dalla Cina contro le 800 americane)[2]. L’aspetto più preoccupante per Washington, è che questi Stati fino a pochi anni fa avevano rapporti con Taiwan e non con Pechino, certi di una sicurezza offerta dall’Australia. Ma è bastato qualche investimento nelle infrastrutture fisiche e digitali da parte cinese per ribaltare il piatto.

Gli effetti della guerra in Ucraina

La guerra in Ucraina rischia seriamente di porre ulteriori problemi anche alla tenuta delle alleanze e degli appoggi dei paesi dell’indopacifico. Basti guardare come hanno votato questi Stati la risoluzione di condanna dell’aggressione.
Nonostante l’ambigua dichiarazione dell’ASEAN[3] (Association of Southeast Asian Nations) la maggior parte della regione ha sostenuto la risoluzione. 8 membri su 10 dell’ASEAN hanno votato a favore: Brunei, Cambogia, Indonesia, Malesia, Myanmar, Filippine, Singapore e a sorpresa anche la Thailandia, Il Paese guidato da un ex generale negli ultimi anni ha allacciato legami sempre più stretti con la Cina, spesso a discapito del tradizionale alleato americano. Stesso discorso vale anche per la Cambogia, che assieme al Laos rappresenta l’asse cinese del sud asiatico, anche perché appare difficile immaginare che Phnom Penh possa aver votato a favore della risoluzione senza aver prima informato Pechino.  Non fa invece testo il voto del Myanmar: il seggio del Paese alle Nazioni Unite è ancora detenuto da Kyaw Moe Tun, ambasciatore nominato dal governo civile estromesso dal colpo di stato militare dello scorso anno.
Pesante, invece, l’astensione del Vietnam, il Paese con le prospettive più alte di crescita dell’intero sud est asiatico che ha saputo attirare quegli investimenti internazionali che negli ultimi anni hanno lasciato la Cina.  Ma è anche un Paese su cui gli americani puntano come partner strategico per controbilanciare il ruolo della Cina. Hanoi, però, pratica da anni la politica dei due forni. Da un lato, chiede aiuto agli Stati Uniti per difendere gli arcipelaghi delle isole Paracelso e Spratly, rivendicate da Pechino; dall’altro, mantiene saldo lo storico asse “comunista” del mondo, con la Russia e la Cina. E a giudicare da come la guerra fra Ucraina e Russia viene ignorata dai media nazionali, è chiaro che il Partito Comunista vietnamita farà di tutto per evitare una scelta di campo. Nell’Asia meridionale sono stati 4 i voti a favore: Afghanistan stesso ragionamento del Myanmar, Bhutan, Maldive e Nepal. E 4 astenuti: Bangladesh, India, Pakistan e Sri Lanka. Come detto in precedenza ciò che preoccupa Washington è proprio l’astensione indiana.

Taiwan come Kiev?

Un pensiero oscuro corre lungo le cancellerie dei paesi asiatici filo-occidentali e cioè Singapore, Taiwan, Corea del Sud, Giappone, Indonesia e Filippine: l’aggressione russa nei confronti dell’Ucraina potrebbe incoraggiare la Cina a fare lo stesso con Taiwan.
Pechino sin da subito ha precisato che le due situazioni non possono essere sovrapponibili pur rimarcando la responsabilità della NATO nel minacciare l’area di sicurezza russa con numerose esercitazioni e soprattutto aprendo la porta alle adesioni di Georgia e Ucraina[4].
Ma Taiwan non è tranquilla e la Presidente Tsai Ing-wen, ha affermato di sentire forte empatia per l’Ucraina: “Stiamo tutti assistendo all’invasione di un Grande Paese contro un Paese infinitamente più piccolo”. La sensazione che i riflessi della guerra in Ucraina alimenteranno le tensioni già presenti nell’indopacifico. La vera domanda non è se, ma quando.


Note

[1] Craig Singleton, “Beijing Eyes New Military Bases Across the Indo-Pacific”, Foreign Policy
[2] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/ispitel-indo-pacifico-grand-tour-cinese-35174
[3] https://asean.org/asean-foreign-ministers-statement-calling-for-a-ceasefire-in-ukraine/
[4] https://www.scmp.com/news/china/diplomacy/article/3169963/why-beijing-thinks-taiwan-different-ukraine


Foto copertina: Copertina editoriale Enigma Pacifico