Intervista al Prof. Enzo Pace Professore di Sociologia delle religioni presso la Scuola Galileiana di Studi Avanzati dell’Università di Padova.



Prima domanda: «Sappiamo che l’Islam non è un blocco monolitico, ma presenta al suo interno delle diversità profonde. La prima, e forse la più importante, è quella tra Sunniti e Sciiti. Oltre alle differenze di natura prettamente religiosa, esiste anche un diverso approccio nel rapporto tra società, politica e religione tra i paesi Sunniti e quelli Sciiti?»

Risposta: «La differenza più rilevante fra Sunniti e Sciiti per quanto riguarda il modo in cui sono stati pensati i rapporti fra società, politica e religione, deriva dal fatto che i secondi sono stati sconfitti dai primi. Ricordo, in breve, le profonde divergenze teologiche (per i Sunniti, la rivelazione si compie con il Profeta Muhammad; per gli Sciiti, i loro capi spirituali – gli Imam – possono esercitare una funzione ermeneutica anche dopo la morte del Profeta) e quelle politiche (relative a chi dovesse essere il legittimo successore di Muhammad: per i Sunniti solo un vicario del Profeta – khalifa, in arabo, califfo in italiano – poteva guidare la comunità dei credenti, mentre per gli Sciiti, la successione doveva essere basata sul legame di parentela con la famiglia del Profeta – bayt Allah). Per tutte queste ragioni gli Sciiti furono considerati degli eretici da parte dei Sunniti, combattuti e sconfitti militarmente nel 680 d.C. nella battaglia di Karbala (oggi in Iraq). In termini di organizzazione religiosa, ciò significa che, mentre i Sunniti fanno diventare l’Islam, un potente apparato ideologico dei grandi imperi musulmani (degli Omayyadi, prima, e degli ‘Abbasidi, poi, fra il 680 e il 1250 circa), gli Sciiti sono una setta perseguitata, emarginata che lotta per sopravvivere, resistendo sino all’ultimo grave scacco subito a causa della morte del dodicesimo capo nell’874 d.C., un bambino precocemente scomparso, che tuttavia la teologia sciita considera invece solo occultato alla vista dei credenti. Da qui l’idea messianica propria dello sciismo: gli Sciiti attendono ancora oggi che l’Imam torni a essere visibile, nella consapevolezza che quando ciò accadrà, coinciderà con i segni della fine dei tempi e della battaglia apocalittica finale fra il Bene e il Male. Il ritorno visibile dell’Imam prenderà allora la figura del Mahdi, il Salvatore, e Gesù che combatte l’anti-Cristo, sarà l’anticipatore dell’imminente riapparizione dell’Imam nascosto. Lo spirito della setta ha rafforzato nei secoli l’idea, dunque, della necessaria connessione fra redenzione finale del mondo e lotta politica per l’affermazione della giustizia nel mondo. Gli Sciiti sono tendenzialmente sostenitori di una teologia politica, mentre i Sunniti, paradossalmente, dominati per secoli da una forma politica dinastico-imperiale, hanno finito per razionalizzare il messaggio religioso, secolarizzando categorie teologiche nella politica».

 

Seconda domanda: «All’interno del mondo sunnita, l’assenza di un clero strutturato e organizzato (come quello sciita), dà la possibilità a chiunque in grado di leggere il Corano, di diventare un Imam e guidare la preghiera. Secondo Lei, la possibilità di una libera interpretazione, in alcuni casi anche senza un controllo gerarchico, potrebbe aver favorito l’ascesa di gruppi terroristici ispirati da errate interpretazioni del Corano da parte di un Imam? È solo un caso che la maggior parte dei gruppi terroristici sono sunniti, oppure esiste una correlazione?

Risposta: «Nel mondo sciita, per le considerazioni svolte nella prima risposta, si è sentito il bisogno di un ceto di professionisti in scienze religiose (teologi che sapessero interpretare i precetti religiosi anche per amministrare la vita sociale e politica, tramite il fiqh., una giurisprudenza religiosa volta a regolare le cose di questo mondo) che garantisse, grazie alla sua professionalità, la tenuta e la compattezza di una minoranza religiosa malvista e perseguitata. Questo ceto di teologi-giuristi-guide-sociali si è progressivamente stabilizzato a partire del XVII secolo, quando il territorio iraniano sarà riunificato sotto la dinastia dei Safavidi. Questa casa regnante stabilirà una sorta di funzionale separazione fra ceto religioso e ceto politico, assegnando al primo però la funzione di custode dell’identità religiosa e nazionale del nuovo Stato. Il ceto religioso avrà proprie istituzioni di formazione del suo personale, rendite e beni propri e, infine, un’autorevolezza morale e religiosa che non avrà riscontri nel mondo sunnita. Si può dire, ma con una certa cautela, che tale ceto diventerà un clero, creando un’istituzione teologica con funzioni di etica sociale. Sarà solo con Khomeyni che, innovando la tradizione, questo clero (gli ayatollah) assumerà direttamente le responsabilità del potere politico.

In quello sunnita il ceto prevalente è formato dagli esperti in diritto religioso (‘ulama, fuqaha, qadi), specializzati nella produzione e applicazione di un sistema di norme che facesse da ponte fra i testi sacri (Corano e Tradizione orale del profeta) e l’esercizio del potere dei califfi su una società territorialmente vasta, complessa, multi-culturale, multi-linguistica e multi-religiosa.

Ciò significa che nel mondo sunnita c’è strutturalmente un deficit di autorità, nel senso che dopo il Profeta si succedono dei vicari affiancato da un corpus di funzionari che, sino al IX secolo, compie uno sforzo poderoso di costruzione di un sistema giuridico fondato su basi rivelate/religiose, per poi chiudere la porta dell’interpretazione, cioè ritenere che tutto il lavoro interpretativo delle fonti sacre potesse essere ormai ritenuto concluso. Da quel momento, tutt’al più, si sono avute opinioni autorevoli (fatwa) di dotti della legge religiosa, che potevano essere più o meno seguite, ma che non avevano certo la consistenza di un verdetto inappellabile, come invece si è verificato nel mondo sciita, quando gli Imam erano visti come capi politici e spirituali della comunità, ai quali si attribuiva una sorta d’infallibilità quando si pronunciavano su questioni ritenute cruciali.

Per tornare al merito della domanda – in riferimento al mondo moderno e contemporaneo – nel mondo sunnita è giusto dire che non solo non c’è un clero che possa arrogarsi il monopolio dell’interpretazione (limitata e circoscritta) delle fonti sacre, ma neanche una figura equivalente a un capo supremo religioso (un Papa o un Primate o un Patriarca, tanto per fare riferimento rispettivamente alla Chiesa Cattolica, a quella Anglicana o a quelle Ortodosse). Perciò, in realtà com’è avvenuto in passato, c’è ancor oggi una tendenziale differenza di opinioni fra i dotti in scienze religiose.

Fintanto che queste discordie erano risolte per volontà politica di questo o quel califfo, che sposava un’opinione dell’uno o dell’altro, la competizione teologica o dottrinaria era circoscritta all’ambiente di corte, degli specialisti in scienze religiose e dei funzionari assoldati come esperti da un califfo. Quando finisce il sistema califfale (convenzionalmente con la dissoluzione dell’Impero Ottomano, quando nel 1923 Mustafa Kemal Atatürk, fondatore della moderna Repubblica turca, lo dichiara terminato), la competizione fra esperti in parte perde di significato, giacché le nuove élite politiche post-coloniali del mondo arabo e iraniano musulmano sono interessate non alla costruzione di uno Stato libero islamico ma molto più concretamente ad una forma statuale nazionale, fondata sulla separazione funzionale fra religione e politica, sul modello della Turchia di Mustafa Kemal.

Inoltre, la competenza degli esperti in scienze religiose si restringe sempre più, cedendo il passo ai codici elaborati in Europa, limitandosi strettamente alle materie civilistiche (matrimonio, divorzio, eredità, dote per la donna, figliolanza ecc.), a quel campo che prenderà il nome di codice dello statuto personale. Di conseguenza, fra il 1980 e i giorni nostri, si moltiplicheranno in ambiente sunnita sia figure di esperti che, grazie ai vecchi e nuovi media, diventeranno dei buoni telepredicatori, sia figure di tanti autodidatti, autoproclamatisi esperti in scienze religiose. Non si tratta d’Imam, poiché questa figura storicamente svolge una funzione precisa che non richiede alti studi né particolari doti spirituali.

Imam, letteralmente, nel mondo sunnita è chi guida la preghiera del venerdì, un officiante senza poteri sacri né autorità sapienziali particolari. Per gli Sciiti, invece, è sinonimo di suprema guida spirituale e politica della comunità. Solo in Occidente la figura dell’Imam ha cambiato statuto, divenendo sinonimo di leader religioso di una comunità, spesso non nominato oppure semplicemente scelto a tempo per svolgere alcune funzioni utili alla vita della comunità stessa, senza, ripeto, alcuna legittimità derivante da un curriculum studiorum particolare, riconosciuto da questa o quell’università teologica che sia a Tunisi, al Cairo, in Marocco o a Ryadh.

I leader che hanno fondato gruppi di resistenza armata in nome dell’Islam, spesso contestano il potere religioso dei dotti e degli Imam, ritenuti succubi del potere politico costituito; essi, perciò, non si definiscono Imam (ma piuttosto shaykh, sceicco o califfo, come nel caso di Al-Baghdadi, leader dell’ISIS), ma avanguardia di un Islam puro e duro, di un Islam tutto politico che non necessariamente ha bisogno di alimentarsi alla conoscenza tradizionale propria delle scienze religiose dell’Islam. Tutto ciò è senz’altro più vero per il mondo sunnita, meno per quello sciita. In quest’ultimo caso, infatti, dopo l’instaurazione della Repubblica Islamica dell’Iran, disegnata costituzionalmente dall’ayatollah Khomeyni, nel 1979-80, lo sciismo (almeno quello più diffuso e maggioritario) diventa religione di stato e il principio di legittimità del potere politico riposa sull’idea che una democrazia (formalmente la costituzione iraniana presenta un’ipotesi di repubblica democratica) può funzionare bene solo se regolata dalla guida illuminata di esperti in cose religiose (è il principio del così detto velayat al-fahiq). Nel mondo sciita la rivoluzione iraniana è la dimostrazione che un popolo di credenti (in realtà a quella rivoluzione concorsero forze sociali e politiche di diverse tendenze ideologiche, laiche e religiose, marxiste e liberali ecc.) può costruire una società perfetta e virtuosa che si rispecchia in un ordinamento politico (uno Stato) fondato sul potere di chi sa interpretare e applicare in terra la parola divina. Il ricorso al metodo di fare la guerra che convenzionalmente chiamiamo terrorismo è senz’altro meno frequente fra gli sciiti, con un’eccezione – dovuta all’eccezionalità forse della situazione storico-politica, ma che comunque conferma la regola – dei militanti dello Hizbollah,  il Partito di Dio libanese cui si attribuisce, almeno ad una sua fazione estremista, una serie di attentati-suicidi con uomini-bomba sin dal 1983 contro obiettivi americani o israeliani».

 

Terza domanda: «Gli attentatori di Parigi e Bruxelles erano cittadini europei. Nati e cresciuti nelle periferie delle grandi città, secondo le testimonianze di amici e parenti fino a poco tempo prima degli attentati, non erano dei ferventi praticanti religiosi.       La radicalizzazione pare essere stata tanto rapida quanto violenta. Secondo Lei quali sono le ragioni dell’affermazione dell’Islam radicale tra i giovani occidentali? Cosa spinge questi ragazzi a marginalizzarsi dalla società che li circonda ed aderire ad una sorta di Umma virtuale?»

Risposta: «Si discute molto fra gli studiosi e gli analisti del fenomeno su quali possano essere le cause sociali e culturali: non c’è una ragione unica e forte che permetta di capire il fenomeno, ma una pluralità di concause. Non basta guardare alle condizioni di disagio sociale ed economico, giacché esso coinvolge una quota consistente delle coorti giovanili; non è sufficiente, interrogarsi sul conflitto intergenerazionale: gli ultimi discendenti di famiglie d’immigrati di fede musulmana contro cui ci si ribella, rimproverando ai loro padri e alle loro madri di essersi troppo assimilati. Non basta evocare, come fa Olvier Roy, la “sant’ignoranza” – che è vera, tuttavia – cioè la profonda e scarsa conoscenza dell’Islam da parte dei militanti radicali, divenuta nella loro testa una religione spogliata da ogni riferimento culturale (perciò pericolosa per chi l’abbraccia e la porta in giro come un vessillo minaccioso di riscossa, giacché è un Islam puritano che, a loro occhi, deve de-contaminare l’Islam storico di tutte le mediazioni culturali e influenze esterne che esso avrebbe subito nel corso del tempo). Può essere più utile considerare, come ha fatto recentemente Renzo Guolo (L’ultima utopia, Milano, 2015), il fattore sostitutivo dell’islam come ideologia (moderna) che riempie il vuoto lasciato dalle grandi utopie politiche del Novecento: un’ideologia che, tuttavia, riprende temi e motivi propri dell’anti-imperialismo, della guerra rivoluzionaria contro un mondo dominato dal capitalismo globalizzato e così via. Tuttavia per scendere dal piano alto dell’ideologia alla bassa cucina della lotta armata, cioè per compiere il salto psicologico di ritenere possibile e necessario, affascinante e appassionante, uccidere chi considero il mio nemico (spesso indistinto e anonimo secondo la logica propria del metodo di fare la guerra, il terrorismo), ci vuole un supplemento morale che allo stato dei fatti proviene da un’interpretazione puritana e intransigente del messaggio religioso. Il terreno ideologico che nutre le menti di tanti giovani che imbracciano le armi è ciò che genericamente è chiamato salafismo, una visione dell’Islam che nasce in un angolo sperduto del mondo arabo nel XVIII secolo, sull’altipiano del Neged, nell’attuale Arabia Saudita. Qui, come ha ricordato un sociologo tunisino Hamadi Redissi, si può studiare come una setta isolata dal resto del mondo sunnita, è diventata, invece, grazie alla potenza dei petro-dollari, un’ortodossia a vocazione globale (fondata sulla pretesa di incarnare il vero e autentico Islam, di per sé un’eresia poiché nessuno ha il potere di dire qual è il vero Islam).

Essa si è diffusa nel mondo intero, formando generazioni di musulmani puritani e intransigenti. Con ciò non voglio dire che ci sia un nesso causale diretto fra salafismo e gruppi armati dell’Islam politico. Ma certo questi ultimi portano alle estreme conseguenze un pensiero che viene da lontano e che ha avuto qualche chance di fronte al collasso delle classi dirigenti dei maggiori paesi a maggioranza musulmana che hanno guidato le lotte per l’indipendenza coloniale e creato i nuovi stati nazionali (per un approfondimento mi permetto di rinviare al mio articolo Elmetti e Turbanti. La domanda di democrazia nel mondo musulmano, in “Il Mulino”, 2, 196- 213). La deriva terroristica, è bene ricordarlo, inizia proprio in risposta a regimi politici che chiudevano tutti gli spazi di democrazia, promessi e mai realizzati, che avevano affermato di ispirarsi nella loro azione politica ai principi della giustizia sociale ed economica e così via. Tale deriva prende avvio in Egitto negli anni Sessanta e ha la sua prova del fuoco in Algeria fra il 1990 e il 1992, i veri incubatori di tutte le forme di lotta armata fatta anche a colpi di citazioni coraniche (spesso estrapolate e manipolate) e di giustificazioni impossibili (dal punto di vista teologico e della dottrina classica musulmana dello jus in bello) di atti di efferata violenza e crudeltà contro vittime inermi»

Quarta domanda: «Perché l’Isis risulta essere più “attraente” per i giovani rispetto ad Al-Qaeda? Gli obiettivi sono gli stessi o ci sono sostanziali differenze?»

Risposta: «Secondo me, la differenza sta tutta nel fatto che l’ISIS è apparso capace di conquistare un territorio e di dichiararlo come il nucleo fondante del restaurato califfato (abolito nella vicina Turchia nel 1923), potenzialmente come principio del superamento degli Stati-nazioni, esempio nucleare di un più ampio processo di riunificazione della santa umma musulmana radunata sotto un unico vessillo nero (simbolo della vittoria, colore amato molto dai califfi abbasidi), una nuova utopica patria del miliardo e quasi cinquecento milioni di musulmani del mondo, saldamente divisi per nazioni. Al-Qa‘ida è superato agli occhi dei nuovi militanti dell’ISIS perché rappresenta un’internazionale della lotta armata senza terra e senza patria»

 

Quinta domanda: «Esiste un rischio concreto della realizzazione dello “scontro di civiltà” tra culture incompatibili ipotizzato da Huntigton o la religione è, ancora una volta, la bandiera dietro la quale si nascondono i veri interessi di natura politica ed economica?»

Risposta: «Continuo a pensare che bisogna prendere sul serio il sostrato religioso di un’ideologia politica come quella che per comodità gli specialisti chiamano il jihadismo. Una sigla questa che fa eco a una parola che ha una lunga storia della religione islamica (jihad), ma che ha assunto altri significati, a volte umani troppo umani (avrebbe detto Nietzsche). Nel senso che è diventato l’involucro ideologico che serve a coprire e giustificare qualsiasi tipo di violenza (contro donne e bambini, civili, sacerdoti inermi – dai monaci trappisti di Tiberine in Algeria all’anziano prete francese, Jacques Hamel, che celebrava messa nella sua parrocchia di Saint-Etienne-du-Rouvray, in Normandia).

Il terrorismo è, anche per gli Stati,  un metodo per farsi la guerra: il caso siriano è lì a ricordarcelo, con Arabia Saudita che si misura contro l’Iran per procura, appoggiando questo o quel gruppo, il governo o una fazione in armi. Ci sono motivi geopolitici saldamente intrecciati al desiderio di controllare fonti energetiche, ancora per qualche decennio, strategiche, che non possono essere dimenticate e che, invece, a forza di parlare d’Islam contro l’Occidente si finisce per occultare»

 

Sesta domanda: «Secondo l’UCOII (Unione delle Comunità Islamiche in Italia) il numero di convertiti all’Islam è circa 80.000, in maggioranza sono giovani. Secondo Lei cosa spinge i giovani europei a convertirsi all’Islam, cosa “offre” l’Islam in più rispetto al cristianesimo? È una questione solo religiosa o ci sono aspetti di natura sociologica?»

Risposta: «La cifra non è confermata da chi studia il fenomeno (es. Stefano Allievi); una parte di chi si converte lo fa anche per altre ragioni, affettive ad esempio, perché ci s’innamora di una persona che è di fede musulmana, oppure spirituali (quando ci si accosta all’Islam attraverso le esperienze del sufismo). L’Islam può apparire non tanto superiore al cristianesimo, ma quanto un’altra possibile offerta religiosa che si presenta nella realtà in cui si vive. Ci sono anche musulmani che passano al cristianesimo. Dunque, è più prudente osservare come, da un punto di vista sociologico, viviamo in società aperta dal punto di vista delle offerte religiose a fronte di soggetti (come in parte è divenuto l’individuo moderno) che non si accontenta più di nascere in una religione, ma tendono a scegliere di credere»

 

Settima domanda: «Si può affermare che i modelli d’integrazione europei sono stati fallimentari?»

Risposta: «I vari modelli avevano, allo stesso tempo, pregi e difetti. Quello di tipo assimilazionista (che caratterizza le politiche d’integrazione degli immigrati in Francia dalla prima ondata dal Maghreb sino alle successive africane – subsahariane – asiatiche e latino-americane) aveva ed ha il pregio di facilitare l’accesso alla cittadinanza (almeno formale) in base allo jus soli. In tal modo l’esercizio pieno dei diritti civili, sociali e politici si pensava che potesse assicurare il duplice processo: a) di far diventare chi era “straniero” una persona “simile a me”, b) di ridurre di conseguenza il peso delle differenze culturali (soprattutto quelle religiose che, in linea di principio, devono restare ancor oggi “un fatto privato” non rilevante nello spazio pubblico né riconoscibile in ogni modo da parte della République, che storicamente si fonda sulla separazione netta fra politica e religione). Ma è proprio su questo secondo aspetto del processo d’integrazione che il modello assimilazionista ha mostrato i suoi limiti: le differenze religiose sono divenute in alcuni casi (in particolare da parte della minoranza religiosa musulmana, seppur non omogenea, ma anzi sovente conflittuale e divisa al proprio interno) oggetto di lotta per il riconoscimento pubblico, oggetto, paradossalmente per il modello francese, di esercizio dei diritti del cittadino (di fede musulmana, in particolare).

Al polo opposto del modello assimilazionista, troviamo quello così detto comunitarista: le differenze etniche, culturali, religiose, in questo caso, hanno piena cittadinanza. Esse sono spesso trattate come un’ulteriore articolazione che storicamente aveva caratterizzato il rapporto pubblico/privato assieme a quello politica/religione. Un solo esempio per chiarire quanto appena detto. In Belgio, prima che arrivasse la seconda ondata migratoria, proveniente dal Maghreb e dalla Turchia (che andava a rimpiazzare la prima che aveva coinvolto persone di origine europea nell’immediato secondo dopoguerra, come gli italiani, ad esempio), la società era strutturata in modo tale da rispecchiare le differenze culturali e linguistiche (fra fiamminghi e valloni, per intenderci) che costituivano le principali componenti della nazione belga. Il che ha portato a ciò che è chiamata la pillarisation (da pillar, pilastro, colonna). In una stessa città c’è l’ospedale o una università (magari cattolico/a) di area fiamminga (dove il francese non è la lingua preferita sia dal personale sia dai pazienti) e quello (sempre cattolico/a) di area vallone (dove impera invece il francese). E così via. Tante sono le religioni riconosciute, altrettante saranno le strutture pubbliche (marcate e identificate per appartenenza religiosa etno-culturale). Quando con la riforma costituzionale del 2001, il Belgio attribuisce alle singole Regioni la potestà di riconoscere le comunità musulmane locali, in realtà, mette definitivamente in pratica il principio contenuto nella legge dello Stato federale del 1974, in base alla quale si riconosceva il culto islamico. A parte la categoria giuridica usata (non certo appropriata per una religione come l’Islam, ma certamente congrua con il linguaggio politico-giuridico degli ordinamenti del Belgio), tale riconoscimento ha significato, alla lunga, dare la possibilità alle comunità islamiche di accedere a una serie di diritti di cittadinanza di cui già altre confessioni religiose godevano (insegnamento della religione nelle scuole, con insegnanti selezionati dalle comunità ma pagate dallo Stato; accesso ai fondi pubblici per la costruzione di luoghi di culto; possibilità di esenzioni fiscali per attività caritative o simili e così via).

Laddove il riconoscimento delle differenze è stato sistematicamente oggetto di politiche attive è stato il Regno Unito. Qui il comunitarismo è stato inteso come l’unico modo per stabilizzare una società fatta di tante e diverse comunità etno-religiose, che potevano pretendere a mantenere le loro differenze come prerogativa indispensabile per l’integrazione fattiva nella società britannica. Al tempo stesso, facilitando il processo di auto-definizione di tanti individui in base alla loro appartenenza a una comunità etnica, era più facile per il british sentirsi diverso dal resto dell’universo mondo che andava popolando, dalla fine del Commonwealth,  la Nuova (nel senso d’inedita) Inghilterra. In un Paese, poi, abituato ad avere una Chiesa d’Inghilterra (quella Anglicana, nata da una secessione per ragioni di letto regale nel 1534, in principio rimasta cattolica e solo dopo spostatasi verso posizioni vicine al pensiero della Riforma), cioè una chiesa di Stato, il riconoscimento pubblico della religione ha reso più facile il riconoscimento delle altre fedi (sikh, hindu, buddista, musulmana e così via). Il limite, alla lunga, del comunitarismo è emerso con una certa chiarezza dopo gli attentati avvenuti a Londra nel 2005. E’ apparso chiaro che esso, da un lato, costringeva gli immigrati e le loro discendenze a sentirsi parte di una comunità verso cui dovevano dimostrare una certa lealtà (da far convivere con la lealtà agli ordinamenti giuridici vigenti: il casco è obbligatorio per tutti quando si va in moto oppure per qualcuno non lo è, com’è stato nel caso dei sikh i quali per ragioni rituali dicono di non poter indossarlo?); dall’altro, rafforzava la tendenza delle singole comunità a riprodurre sul suolo inglese tante enclaves territoriali (urbane) che somigliavano ai luoghi di origine (tante little Islamabad o Bangalore o Dacca).

Anche laddove le politiche d’integrazione si sono ispirate al principio del migrante temporaneo (che arriva con un contratto, resta “con noi” per il tempo del contratto, torna a casa e non pretende di integrarsi), com’è avvenuto in Germania o in Svizzera, esse, pur essendo coerenti espressioni del principio costituzionale della cittadinanza per jus sanguinis (si è cittadini perché si appartiene a un Folk, al popolo di sangue tedesco con una storia nazionale condivisa), alla lunga si sono rivelate contraddittorie. Le persone immigrate invece di tornarsene a casa, sono rimaste, si sono formate nuove generazioni con il trattino (turco-tedesche, bosniaco-tedesche e così via), che però per troppo tempo sono state considerate gastarbeiter (lavoratori ospiti) cui non si chiedeva di apprendere pienamente il tedesco, scoraggiandole dal desiderio di comprarsi una casa, di far studiare i propri figli sino all’università e così via, frapponendo ostacoli per ciò che chiamiamo stabile inserimento sociale e legittima pretesa alla mobilità sociale ascendente dei nuovi arrivati. Si sono creati così in Germania enclaves territoriali esclusive, una cospicua massa di persone che sino agli inizi degli anni Novanta pensava effettivamente di essere un ospite poco gradito. Quando la Germania ha deciso di cambiare politica (dal 1° gennaio 2000 acquisiscono automaticamente la cittadinanza tedesca non solo i figli di cittadini tedeschi, ma anche i figli di stranieri che nascono in Germania secondo lo ius soli o il Geburtsortsprinzip), introducendo gradualmente norme giuridiche e sociali che facilitassero i processi di accesso alla cittadinanza, non è stato facile de-strutturare, nel giro di un ventennio, ciò che era stato costruito dal 1961 in poi con le politiche del lavoratore ospite (di cui gli italiani immigrati assieme ai greci, agli spagnoli e ai portoghesi avevano fatto per primi le spese). Perciò non è fallito il multiculturalismo in quanto tale, come ebbe a dire la cancelliera Merkel il 16 ottobre 2010 facendo eco al leader tory Cameron, ma è più prosaicamente è fallito il modello del gastarbeiter e il nuovo modello di cittadinanza attiva promosso agli inizi degli anni Novanta deve ancora prendere forma sociale.

Penso che tutti i modelli sin qui ricordati rivelino un problema più grande: la difficoltà palese dell’Unione Europea di dotarsi di una politica comune sia per regolare gli ingressi dei migranti sia per costruire società nelle quali le persone possano sentirsi trattate come eguali mantenendo qualche differenza (quando è scelta e non imposta, ovviamente). Un rebus di difficile soluzione, certo, che tuttavia aiuta a capire perché sinora nei Paesi dell’Unione non ci sia un “abito su misura per tutti” per quanto riguarda le politiche d’integrazione o di coesione sociale (secondo l’ultima formula cara ai governanti dello UK); così come, aiuta a comprendere quanto siano prive di senso le frasi con cui politici di destra, di centro e anche di sinistra in Europa decretano la fine del multiculturalismo, dal momento che questa parola descrive un dato di fatto, ormai irreversibile (a meno che non si pensi a soluzioni finali, dopo la deportazione, il concentramento e la segregazione di milioni di persone che classifichiamo talmente diverse da essere incompatibili “con noi”). La gestione di questo dato di fatto varia, al variare delle tradizioni costituzionali e degli orientamenti politici delle elite al potere, le quale continuano a ragionare secondo lo schema “stato-nazione” di fronte a un fenomeno trans-nazionale.

* . È autore di Sociologia dell’islam, Carocci, Roma, 2005, e di I fondamentalismi, Laterza, Roma-Bari, 2000.