15 agosto 2021 i Talebani rientrano a Kabul dopo quasi 20 anni. Sullo sfondo il ritiro frettoloso dei militari americani, il dramma degli Afgani che non vogliono ritornare a vivere sotto la dittatura degli “studenti del corano”. Ne parliamo con il Generale Giorgio Battisti coautore di Fuga da Kabul – il ritorno dei Talebani in Afghanistan (Paesi Edizioni)

15 agosto 2021, il governo di Kabul si è arreso a quella che era oramai una inarrestabile avanzata delle milizie dei Talebani. Avanzata ripresa inesorabilmente a seguito delle operazioni generali di ritirata delle forze Isaf dal territorio afghano. Kabul cade e il presidente Ghani fugge all’estero. Dopo 20 anni di guerra l’Afghanistan torna in mano ai talebani e Biden viene accusato di una ‘disfatta epocale’.
I talebani si sono ripresi l’Afghanistan prima ancora che l’ultimo soldato della missione internazionale (Isaf) lasciasse il paese. Le immagini dei Talebani a Kabul unite a quelle del presidente Ashraf Ghani che abbandonava il paese rifugiandosi prima in Tagikistan e poi in Uzbekistan e quelle dei afgani che disperatamente cercano di lasciare il paese aggrappandogli aerei in volo, sono le tre immagini che più di altre sintetizzano il disastro afgano. Per comprenderne di più ne parliamo con il Generale Giorgio Battisti che nel 2001 è stato il primo comandante italiano in Afghanistan per quella che fu la prima missione Isaf ed è coautore (con la giornalista Germana Zuffanti) di Fuga da Kabul – il ritorno dei Talebani in Afghanistan. Un libro nel quale Battisti ci racconta vent’anni di presenza militare occidentale in Afghanistan. L’occasione per riflettere su quello che è andato storto, sugli errori fatti e su quello che si sarebbe potuto fare meglio, come quello scellerato accordo di Doha siglato tra l’amministrazione Trump e i talebani nel febbraio 2020 e che ha portato al disastroso ritiro dello scorso agosto gestito dall’amministrazione Biden.
15 agosto 2021 in seguito all’annuncio e al ritiro delle forze NATO dall’Afghanistan, i Talebani riconquistano la capitale Kabul. Una decisione definita da più parti come scellerata. Si aspettava questo epilogo?
“Domenica 15 agosto 2021, Ferragosto, doveva essere – come da tradizione – una giornata serena e spensierata da trascorrere in famiglia e con gli amici più cari. Per molti di noi, militari italiani che siamo stati in Afghanistan in questi ultimi vent’anni, è stato invece un momento d’immensa tristezza e profonda amarezza per le notizie che provenivano da quel Paese. I Talebani erano entrati in Kabul senza incontrare la minima resistenza e avrebbero assunto nuovamente il controllo del Paese. Il mio pensiero si è rivolto ai fratelli afghani, e soprattutto alla parte più debole della società, ovvero alle donne e alle bambine nel timore – sempre più fondato – che ritornassero a vivere in condizioni di estrema emarginazione sociale e culturale. Ciò avrebbe reso vano l’impegno di tanti soldati e civili della Comunità Internazionale che hanno sacrificato la loro vita, tra cui 53 Caduti e oltre 700 feriti e mutilati italiani, per evitare che l’Afghanistan potesse ritornare ai tempi bui del regime talebano. Si è trattato di un “futuro” che assomigliava sempre più a un ritorno alla situazione antecedente l’intervento dell’ottobre 2001: un santuario dell’Islam radicale e terroristico.
Questo timore (direi terrore) per il futuro era molto sentito (e sofferto), soprattutto nelle popolazioni urbane (le più occidentalizzate), circa il comportamento dei Talebani una volta che avrebbero riguadagnato il potere, tenuto conto che nelle aree sotto il loro controllo erano stati ripristinati i rigidi principi nei comportamenti imposti nel periodo del loro breve governo (1996 – 2001).
È un epilogo, purtroppo, della presenza militare occidentale nell’Afghanistan che si è sempre rivelata fallimentare. Lo ha spiegato molto bene William Dalrymple, nel suo libro “Il ritorno di un re” (Adelphi 2015), dove sono messi molto bene in evidenza i parallelismi delle due successive disastrose intromissioni occidentali fra XIX e XX secolo: Centosettant’anni dopo, le stesse rivalità tribali, le stesse battaglie negli stessi luoghi all’ombra di nuove bandiere, nuove ideologie e nuovi burattini. Le stesse città erano presidiate da truppe straniere che parlavano la stessa lingua e subivano attacchi dalle stesse colline circostanti e dagli stessi passi. In entrambi i casi, gli invasori pensavano di venire, cambiare il regime e andarsene in un paio d’anni. In entrambi i casi invece non sono riusciti a evitare di restare invischiati in un conflitto assai più ampio.
Auspico che gli errori commessi in Afghanistan dall’atteggiamento della Comunità Internazionale siano di insegnamento per tutto il mondo occidentale e per la NATO, in particolare, nell’attuale crisi ucraina.
La decisione americana di lasciare l’Afghanistan è stata valutata diversamente: c’è chi la ritiene completamente sbagliata e chi invece ne comprende i motivi strategici e politici. Lei come la valuta?
“La decisione statunitense è stata sicuramente dettata dalla volontà di trovare una exit strategy alla situazione di stallo nella condotta delle operazioni (nessuna delle due parti riusciva a prevalere sull’altra) e per le promesse elettorali del Presidente Donald Trump (bring our soldiers back home) che ha accelerato la riduzione dei propri militari ben prima delle scadenze temporali previste dall’accordo di Doha, assestandosi già a novembre 2020 su di una forza di circa 2.500 uomini. Tale decisione sarebbe stata supportata, stando almeno ai sondaggi pre-elettorali, seppur parziali (campione di 2.000 persone) dal 76% degli Americani rispetto al solo 10% che si sarebbero opposti al ritiro delle truppe[1]. È Apparsa anche la conseguenza del “triage strategico” di Washington con la revisione delle priorità in politica estera e successiva riallocazione delle risorse dove erano ritenute più necessarie (Teatro del Pacifico e dell’Europa Orientale). Una scelta che non è stata dettata dalle manifestazioni antiwar nelle strade o nei campus universitari come ai tempi dei Presidenti Lyndon Johnson e Richard Nixon per il Vietnam (solo il 5% circa degli Americani era coinvolto nel conflitto) o dal numero di perdite; l’addestramento è ben più pericoloso[2]. Secondo uno studio del Congresso americano del luglio 2020[3] solo il 26% (4.577 u.) dei militari statunitensi (inclusi i riservisti mobilitati e la Guardia Nazionale) che hanno perso la vita nel periodo 2006 – 2020 (17.645 u.) sono morti in “operazioni oltre mare” in 25 Paesi (soprattutto in Afghanistan, Iraq) e sul mare; il 74% (13.068 u.) sono morti per cause non riferite a combattimenti (incidenti, malattie, ferite autoinflitte, omicidi, terrorismo, ecc.) in 70 Paesi e sul mare (media di 913 u. per anno); di quest’ultimi, 5.120 sono periti per incidenti in addestramento. Nell’America first di Donald Trump i Talebani erano il “male minore” con cui venire a patti, come è accaduto in Siria con i Turchi: gli interessi nazionali – o elettorali – trascendevano dalla fine dei combattimenti!
Gli alleati locali – Persia, Sud Vietnam, Iraq, Curdi e ora l’Afghanistan – abbandonati dal proprio “protettore”, possono divenire le “vittime” di questo triage se non riescono a affrontare da soli gli avversari: è come se in campo medico un paziente debba cercare di sopravvivere senza le cure.
Un conflitto costato solo agli Stati Uniti quasi 2.500 caduti (oltre a 1.140 della Coalizione e 1.790 contractor) e circa 20.000 feriti e mutilati, e 2 trilioni di dollari che sembra essere stato completamente inutile.
Una logica realistica e bipartisan (anche il Presidente Obama aveva questa visione) che sembrava accettare che non tutte le “guerre americane” potessero terminare con una vittoria, come nella 2a Guerra Mondiale, e riconoscere che altre possono concludersi con “un pareggio”, come in Korea (1950 – 1953), anche se sia in Europa sia in Sud Korea sono ancora presenti consistenti forze americane, o con una exit strategy che formalmente “salvasse le apparenze” agli occhi dell’opinione pubblica nazionale e internazionale, grazie anche a una opportuna narrativa, quale risultato di una proficua intesa negoziale con l’avversario.
Un disimpegno sostenuto anche dall’allora candidato democratico alla presidenza statunitense Joe Biden, il quale in una intervista alla CBS’ Face the Nation del 23 febbraio 2020 affermava che riteneva sufficiente a very small U.S. presence of several thousand people per impedire all’ISIS o al-Qaida di avere un “punto di appoggio” dal quale condurre attacchi contro gli Stati Uniti; non si riteneva, inoltre, responsabile se i Talebani avessero ripreso il controllo dell’Afghanistan dopo il ritiro americano.
Una tipica decisione dettata dalla realpolitik, secondo la quale l’unico obiettivo sensato della missione era quello di contenere (ridurre) a livelli “minimi” la minaccia terroristica.
Ciò richiamava alla memoria il ritiro degli Stati Uniti dal Vietnam, a seguito degli accordi di pace di Parigi del 21 gennaio 1973, che ha determinato due anni dopo la vittoria comunista (aprile 1975). All’epoca Henry Kissinger (Consigliere per la Sicurezza Nazionale), il negoziatore di Washington, aveva preteso un “intervallo decente” prima che il Vietnam del Sud cadesse in mani comuniste[4].
Più recentemente, ricordava il ritiro unilaterale voluto dal Presidente Obama dall’Iraq nel 2011, che ha lasciato il Paese in mano a un governo filo-iraniano e ha creato le premesse per la nascita e l’ascesa dell’ISIS, costringendo gli USA a ritornare nella Regione pochi anni dopo.
In un contesto strategico globale, l’incapacità degli USA (e della NATO) di conseguire una vittoria decisiva in Afghanistan, in 20 anni di combattimenti, ha evidenziato i limiti sia dell’approccio militare occidentale sia della superiorità dei sistemi d’arma più avanzati, neutralizzati dai deserti rocciosi e dalle aspre montagne afghane, e può anche rappresentare, agli occhi degli avversari degli USA nel Medio Oriente (vds. Iran), il segnale che gli Stati Uniti cerchino di evitare conflitti in quella Regione.
Come avvenuto in Siria-Iraq dopo la sconfitta del califfato, il ritiro delle forze statunitensi era considerato un prezzo accettabile, anche nella considerazione che la lotta al terrorismo poteva essere condotta dal cielo con i drones e attraverso l’outsourcing, ricorrendo alle formazioni locali: un espediente sicuramente meno impegnativo e meno costoso.
I termini dell’accordo di Doha confermavano questa tendenza, in quanto avrebbero affidato la missione USA di controterrorismo in Afghanistan ai Talebani, come affermato dallo stesso Presidente Trump: è ora che qualcun altro svolga questo lavoro e questi possono essere i Talebani[5]. Una soluzione già adottata nel 2014 dall’Amministrazione Obama che realizzò una – de facto – alleanza con l’Iran per combattere l’ISIS in Iraq, secondo il vecchio ma sempre valido detto che: il nemico del mio nemico è mio amico.
L’intenzione di ricorrere ad interventi “a distanza” (over the horizon) per monitorare e colpire i terroristi mediante sorveglianza aerea, long-range strikes, drone armati e/o incursioni mirate di Forze Speciali provenienti dalla flotta nell’Oceano Indiano, avrebbe risentito sia del tempo necessario per i movimenti e della indisponibilità di temporanee basi di appoggio terrestri nella regione sia di una possibile riduzione della capacità di intelligence nel Paese[6]. Possibilità di non facile soluzione per il rifiuto del Pakistan, che in passato aveva concesso basi per i droni, di autorizzare gli USA a disporre di punti di appoggio sul proprio territorio[7].
Ciò che ha maggiormente sorpreso gli analisti e gli osservatori internazionali, è stata la velocità di riconquista da parte dei talebani dell’intero paese quasi senza combattere. Come è stato possibile? È sufficiente scaricare la colpa sui militari afgani incapaci di opporre resistenza?
La conquista dell’Afghanistan da parte dei Talebani ha sollevato quesiti sugli sforzi sostenuti dagli Usa e dalla Nato per costruire le capacità militari delle Forze Armate governative.
Dopo 20 anni d’impegno, costati circa 825 miliardi di dollari in spese militari e la perdita di oltre 3.600 soldati americani e della Coalizione (e 1.800 contractor) le Afghan National Defense and Security Forces (ANDSF) sono crollate in poche settimane. Ciò che ha reso ancora più sorprendente questo cedimento, è il fatto che sono state travolte da combattenti armati per lo più con armi leggere, mentre i reparti governativi disponevano di armi ed equipaggiamenti pesanti e delle ultime generazioni.
L’accusa, tuttavia di attribuire la colpa esclusivamente alle forze di sicurezza affermando che mancava loro la volontà di combattere appare ingiusta: circa 66.000 soldati e agenti di polizia sono stati uccisi nella lotta contro i Talebani e le altre formazioni terroristiche: questi non sono numeri delle perdite di un esercito che ha paura di combattere!
Il disfacimento delle ANDSF è dovuto all’incapacità dei livelli più alti delle istituzioni governative. Corruzione, nepotismo e perseguimento di interessi personali hanno pervaso le forze di sicurezza e minato fortemente la volontà combattiva.
Ma anche i Paesi della Coalizione hanno le loro responsabilità per le modalità con cui hanno impostato, diretto e condotto la ricostruzione delle Forze Armate afghane senza tener conto della realtà di quel difficile Paese.
È questa la conseguenza di un approccio etnocentrico, che privilegia i valori della propria cultura per analizzare le altre culture, in particolare le più lontane, e considera i nostri valori come universali.
È necessario imparare, capire e rispettare la storia, la cultura, le tradizioni, la religione e le regole del Paese in cui s’intende intervenire. Non è sufficiente leggere sull’aereo il libro “Il cacciatore di aquiloni” e credere di essere un esperto della regione. In Afghanistan non abbiamo rispettato a sufficienza siffatti aspetti, anche per la presunzione di ritenerci superiori a tutti gli altri.
I Talebani di oggi sono gli stessi di 20 anni fa o qualcosa è cambiato?
“Quando i Talebani sono tornati al potere nell’agosto del 2021 alcuni osservatori ritenevano che il loro approccio al governo si sarebbe rivelato più moderato rispetto a vent’anni prima quando il gruppo era stato al comando dell’Afghanistan. Il Paese era completamente diverso da quello che avevano lasciato nel novembre 2001 e si era trasformato drasticamente con grandi sacrifici e con un aiuto senza precedenti della Comunità Internazionale.
Le azioni dei Talebani, tuttavia, hanno rapidamente spento queste speranze. Il nuovo regime, ristretto e repressivo, a fronte di dichiarazioni di grandi aperture per la società, ha ripristinato i rigidi principi nei comportamenti imposti nel periodo del loro breve governo cancellando i diritti conseguiti e le faticose conquiste democratiche ottenute negli ultimi 20 anni, in particolar modo per quanto riguardava il ruolo sociale delle donne, delle bambine e delle minoranze etniche.
A ciò si aggiunge una costante “caccia”, e successiva eliminazione, al personale civile, militare, della polizia, dei servizi del precedente governo e dei collaboratori dei contingenti stranieri.
Secondo un rapporto di novembre 2021 di Human Rights Watch (HRW), almeno 100 di queste persone, residenti in quattro province, sono state uccise sommariamente o sono scomparse dal 15 agosto al 31 ottobre 2021. HRW notava, inoltre, che questi eventi hanno avuto luogo nonostante l’amnistia annunciata per gli ex funzionari civili e militari del governo e le rassicurazioni dei Talebani che avrebbero ritenuto le loro forze responsabili della violazione dell’ordine di amnistia.”
Lei è stato il primo comandante italiano in Afghanistan per quella che fu la prima missione Isaf[8]. La sua valutazione sull’operato delle forze italiane in questi 20 anni di permanenza
“L’impegno internazionale, come quello italiano, non è stato del tutto superfluo anche se non ha soddisfatto tutte le aspettative, forse troppo ambiziose e non sempre pertinenti, da parte della Comunità Internazionale. In questi vent’anni la società afghana, pur con mille difficoltà, si è sviluppata in tutti i settori, tenendo anche conto delle condizioni del 2001[9]. Cito solo alcuni dati.
Oltre 9 milioni di bambini si recavano alle scuole elementari (40% ragazze – 3,5 milioni); 300.000 studenti frequentavano l’università (100.000 ragazze), nonostante il numero e la frequenza degli attacchi terroristici in tutto il Paese rivolti alle scuole, insegnanti e studenti[10]; gli attacchi e le minacce condizionano tuttavia sempre di più la frequenza scolastica (3,7 milioni di ragazzi non possono andare a scuola e di questi oltre il 60% sono ragazze[11]).
In questi anni sono stati costruiti 4.500 edifici scolastici e formati più di 200.000 insegnanti dei quali oltre il 30% donne. Nel 2001 solo 1 milione di ragazzi (e poche migliaia di ragazze) si recavano a scuola.
L’80% della popolazione possedeva un cellulare; il 66% un televisore e il 18% usa internet, con maggiore sviluppo nella regione centrale di Kabul (26%), nel sud-est (18%). Erano attive 45 stazioni radio, 75 canali televisivi, agenzie di stampa e centinaia di pubblicazioni, inclusi 7 quotidiani. A Kabul erano presenti 16 istituti bancari.
Sono state costruite oltre 33.000 km di strade asfaltate (2.500 km nel 2001), la più importante autostrada del Paese, la cosiddetta Highway 1 o Ring Road, che unisce le grandi città di Mazar-e Sharif, Kabul, Ghazni, Kandahar e Herat è completata al 90%.
Anche il settore della salute pubblica aveva visto un sensibile miglioramento negli ultimi anni. Circa il 90% della popolazione ha accesso all’assistenza sanitaria di base, a fronte del solo 9% nel 2001. La mortalità materna è diminuita del 15% e quella infantile del 35%, grazie anche alle circa 1.700 ostetriche professionali che forniscono assistenza al parto.
Oltre il 61% della popolazione aveva accesso all’acqua potabile.
Un grande risultato era stato soprattutto raggiunto: far conoscere agli Afghani, e ai giovani in particolare (oltre il 50% della popolazione ha meno di trent’anni), altre realtà socio-culturali che potessero offrire, se non modelli di riferimento, esempi e stimoli per lottare per la propria libertà e democrazia.”
Cosa è rimasto dei 20 anni di missioni internazionali?
“La conclusione di una missione internazionale, senza che abbia raggiunto gli obiettivi prefissati, è sempre oggetto di polemiche e critiche in quanto è considerata un inutile spreco di vite umane e di risorse economiche (vds. Op. UNOSOM in Somalia 1992 – 1995) se non un ulteriore problema per la stabilità regionale (vds. l’attacco alla Libia di Gheddafi nel 2011).
Il ritiro dall’Afghanistan nelle condizioni previste dall’accordo di Doha appare una sconfitta politica, e non militare, di tutta la Comunità Internazionale e di ogni Nazione che ha partecipato alla missione. L’esperienza storica insegna che la pacificazione di un Paese o di una regione comporta tempi lunghi (almeno 2-3 generazioni) e misure finalizzate.
Gli USA e le Nazioni europee avevano “dipinto” questa decisione con toni e motivazioni estremamente positivi (“decisione epocale per la NATO” secondo il nostro Ministro del MAECI) ignorando gli sviluppi negativi che si registravano nel Paese.
Da mesi i quadri intermedi delle istituzioni locali (insegnanti, funzionari amministrativi, capi villaggio, media, ecc.) erano sistematicamente eliminati per creare un “vuoto” di interazione tra le strutture statali e la popolazione, secondo il modello insurrezionale previsto dalla Guerra Rivoluzionaria di Mao Zedong (On Guerrilla Warfare), che viene occupato da elementi delle formazioni terroristiche.
Erano aumentati gli attacchi contro le forze di sicurezza mano a mano che le guarnigioni della NATO vengono ritirate dal territorio afghano.
L’attentato a Kabul (8 maggio 2021) che ha provocato la morte di almeno 85 studentesse della minoranza Hazara (Sciiti) confermava in modo più che evidente che il Paese era ben lontano da essere pacificato (il 12 maggio 2020 era avvenuto un altro terribile attentato alla clinica di ostetricia nel quartiere a maggioranza Hazara della Capitale[12], non rivendicato per la crudeltà dell’atto).
Il Press Briefings della Casa Bianca tenutosi il 13 aprile 2021 per illustrare compiutamente le ragioni di questo ritiro repentino senza condizioni (The Background Press Call by a Senior Administration Official on Afghanistan) era un capolavoro di ipocrisia mediatica che avrebbe meritato di essere studiato all’università per la capacità di giustificare come un successo il mancato raggiungimento degli obiettivi dell’impegno internazionale.
Non appare infatti verosimile che futuri attacchi terroristici agli Stati Uniti potessero essere concepiti e/o portati dall’Afghanistan come nel 2001.
Oggi il terrorismo jihadista, rappresentato principalmente dall’ISIS e da al-Qaeda, si basa su di un network internazionale di formazioni affiliate che possono agire e colpire sulla base delle loro indicazioni. I terroristi si trovano già sul continente americano ed hanno una delle loro principali basi nell’area tri-confinaria di Argentina-Paraguay-Brasile, caratterizzata da un’intensa attività di traffici illegali da parte della criminalità organizzata (locale e internazionale) e dalla presenza di cellule “dormienti” di gruppi terroristi islamisti (Hamas, ISIS, Hezbollah, al-Qaida) per l’esistenza di una storica e numerosa comunità musulmana.
Il ripiegamento dei contingenti stranieri senza aver stabilizzato il Paese, in un momento in cui gli insorti erano presenti o controllavano una parte del territorio può apparire come una sconfitta nella Global War On Terror (GWOT), contraddicendo le affermazioni del Presidente George W. Bush dell’11 ottobre 2001 all’avvio dell’Operazione Enduring Freedom: The attack took place on American soil, but it was an attack on the heart and soul of the civilized world. And the world has come together to fight a new and different war, the first, and we hope the only one, of the 21st century. A war against all those who seek to export terror, and a war against those governments that support or shelter them[13].
Si è trattato di un ulteriore duro colpo alla credibilità americana a livello mondiale, già minata con l’abbandono dei Curdi, con l’indebolimento delle sue capacità di deterrenza e della volontà di sostenere i Paesi alleati in difficoltà: nessuna Nazione potrà più fidarsi completamente degli USA (Taiwan avvisata!).
Dato per scontato che la pace si fa con il nemico (e non con l’amico) e che prima o poi si deve tornare a convivere con chi si è fatta la guerra (vds. Stati Uniti con il Vietnam), sarebbe stato più opportuno trattare da una posizione di forza per ottenere migliori condizioni dall’accordo.
L’invio dei contingenti militari avrebbe richiesto, inoltre, un disegno politico ampio e condiviso che non sempre si è verificato per la prevalenza degli interessi e priorità nazionali o di parte.
Nella storia la strategia vincente è sempre stata quella che ha saputo combinare rapporti di forza favorevoli con un’accorta azione politico-diplomatica (la storia dovrebbe essere d’insegnamento).
Come avvenuto recentemente in Iraq, un totale abbandono del Paese può provocare il ritorno, tra alcuni anni se non prima, delle forze multinazionali per prevenire l’affermazione di un nuovo califfato e per contrastare la produzione della droga (il 90% a livello mondiale proviene dall’Afghanistan).
Crede che prima o poi la comunità internazionale e quindi anche l’Italia riconoscerà i Talebani come governo legittimo dell’Afghanistan?
Ritengo difficile, al momento, il riconoscimento da parte della Comunità Internazionale del governo talebano.
Innanzitutto, in quanto tale governo è accusato di gravi violazioni dei diritti, in particolare contro le donne e le minoranze, e di uccisioni per vendetta contro i presunti collaboratori dell’Occidente.
Sono presenti, poi, nella compagine governativa individui considerati “terroristi”, come il Ministro dell’Interno Sirajuddin Haqqani, leader di lunga data della famigerata rete Haqqani, sul quale gli USA hanno posto una taglia di 10 milioni di dollari ed è nella lista dei terroristi delle Nazioni Unite. Il Ministro della Difesa, inoltre, è il Mullah Mohammad Yakoob, figlio del Mullah Omar, guida spirituale dei talebani afghani ed Emiro dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan dal 1996 al 2001.
Alcuni Paesi, tuttavia, hanno avviato rapporti e contatti diplomatici con questo governo come la Cina, la Russia, il Qatar e il Pakistan.
Al fine di alleviare la grave crisi umanitaria in corso sono in atto iniziative da parte dell’ONU, di alcuni Paesi dell’UE, India e degli Stati Uniti volte ad allentare le restrizioni che coinvolgono l’Afghanistan.
Molto dipenderà, comunque, dalla tenuta che avranno i Talebani nella prossima fighting season, che inizierà a breve con il disgelo, nel contenere gli attacchi dell’Islamic State-Khorasan (IS-K), i disordini provocati da formazioni armate di vario genere e dalle incursioni degli insorti anti-talebani del Fronte Nazionale di Resistenza dell’Afghanistan (NRFA), guidati dal figlio di Aḥmad Shāh Masʿūd, noto anche come il “Leone del Panjshir”.
Quale futuro per l’Afghanistan?
La tragedia afghana, e il modo in cui si è conclusa nella generale indifferenza mondiale, è un dramma ben peggiore di quello della caduta di Saigon del 1975, che tra l’altro si inquadrava nel contesto della Guerra Fredda. Allora erano solo gli USA ad aver abbandonato il Vietnam del Sud al suo destino; con l’Afghanistan tutta la Comunità Internazionale è colpevole e responsabile delle conseguenze di questo abbandono: le Nazioni Unite, la NATO, l’Unione Europea e i 51 Paesi della Missione Internazionale, tra cui l’Italia.
L’ingresso delle bandiere bianche con le scritte nere dei Talebani nel Palazzo Presidenziale di Kabul è una data simbolica per i nostri avversari da celebrare due volte: i vent’anni degli attentati alle “due torri” e la sconfitta degli USA sul campo. Un evento che verrà enfatizzato dalla jihad transnazionale per rimarcare la debolezza dell’Occidente incapace di lottare per i propri valori di libertà e democrazia. Una debolezza che rischiamo di pagare pesantemente!
Uno dei più grandi rischi conseguenti al ritiro dei contingenti è la perdita d’interesse per l’Afghanistan da parte della Comunità Internazionale; soprattutto ora che l’attenzione generale è rivolta al conflitto in Ucraina. Recenti informazioni riportano che i Talebani incontrerebbero forti resistenze da parte di varie formazioni armate costituite dalle etnie del Nord (uzbeki e tagiki) e del Centro (hazara).
A ciò, si deve aggiungere il tentativo dell’ISIS di utilizzare il territorio afghano quale base per espandere il terrorismo in tutta la regione avvalendosi dell’alleanza con i gruppi jihadisti presenti.
I Talebani non hanno la forza (militare) per avere il controllo su tutto il territorio, montagnoso, aspro e con limitare vie di comunicazione.
Uno scenario che potrebbe provocare una “guerra civile totale” e destabilizzare l’intera Asia Centrale, e indurre i principali attori regionali (Cina, Pakistan, Iran e India), alcuni dei quali con capacità nucleare, a intervenire direttamente sia in supporto di uno o più dei contendenti sia per tutelare i propri confini.”
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Note
[1] W. Ruger, Why Americans Want a President Who End Endless Wars, The National Interest, 17 August 2020.
[2] D. Lamothe, Marine Corps mourns 9 service members in deadliest incident at sea in years, The Washington Post, 3 August 2020.
[3] Congressional Research Service, Trends in Active-Duty Military Deaths Since 2006, July, 2020.
[4] M. Hastings, Vietnam, Neri Pozza, Vicenza, 2019, p. 679, 722, 725.
[5] BBC News: Afghan conflict: US and Taliban sign deal to end 18-year war, 29 Feb 2020.
[6] L. C. Baldor, Top US general in the Mideast to recommend post-withdrawal plan for Afghanistan, The Associated Press, May 19, 2021.
[7] K. Gannon, Taliban warns departing US military against new bases in region, The Associated Press, May 27, 2021.
[8] International Security Assistance Force
[9]S. Gollob & M. E. O’Hanlon, Afghanistan Index, Brooking, August 2020.
[10] USAID, Education, September 10, 2019.
[11] A. Gul, Millions of Afghan Children Out of School; Ghani Faces Backlash Over Disputed Remarks, Voice of America, 4 October 2020.
[12] M. Mashal and F. Abed, Deadly Attacks Hit Afghan Maternity Clinic and Funeral Ceremony, The New York Times 12 May 2020.
[13] L’attacco ebbe luogo sul suolo americano ma fu un attacco al cuore e all’anima del mondo civilizzato. E il mondo si è unito per combattere una nuova e diversa guerra, la prima, e speriamo l’unica, del 21° secolo. Una guerra contro tutti coloro che cercano di esportare il terrore e una guerra contro quei governi che li sostengono o li proteggono.
Foto copertina: Copertina del libro Fuga da Kabul