La sera del 17 settembre 1961, l’aereo che trasportava il Segretario generale dell’Onu Hammarskjöld, si schiantò nei pressi di Ndola nell’allora Rhodesia del Nord.
Hammarskjöld si trovava in Congo per trovare una soluzione alla crisi del paese.
“I have no doubt Dag Hammarskjöld’s plane was brought down”. È questo il titolo di un interessante articolo[1] pubblicato dal Guardian nel 2011 che riporta le conclusioni di Göran Björkdahl, operatore umanitario svedese per la Sweden’s International Development Cooperation Agency, il quale ha intervistato diversi presunti testimoni oculari che “erano troppo spaventati per farsi avanti nel 1961”, e quindi per dire la loro in merito al tragico incidente aereo che il 18 settembre di sessant’anni fa uccise l’allora Segretario generale delle Nazioni Unite Dag Hammarskjöld. Procediamo con ordine.
Chi era Dag Hammarskjöld?
Dag Hammarskjöld nasce nel 1905 a Jönköping, città della Svezia meridionale. Da parte di padre, dapprima Ministro dell’Istruzione, poi dal 1914 al 1917 Primo ministro svedese, le sue radici sarebbero addirittura ancorate al sedicesimo secolo (lo stesso cognome di famiglia sarebbe nato quando il re concesse uno stemma con un martello (hammare) e uno scudo (sköld) ai progenitori di Dag). Da parte materna, invece, discendeva da studiosi e pastori luterani.
Hammarskjöld passa gran parte della giovinezza a Uppsala, oggi la quarta città della Svezia, sede di un’università molto antica dove intraprende gli studi di legge ed economia politica.
Nel 1936, due anni dopo la laurea, entra nella Banca Nazionale di Svezia, della quale diverrà presidente a partire dal 1941. Negli anni Quaranta inizia a ricoprire diversi incarichi politici e, anche se non si iscriverà mai a nessun partito, nel 1951 viene nominato Ministro senza portafoglio in un governo socialdemocratico. Proprio in quell’anno iniziano i suoi incarichi presso l’ONU fino a quando, il 7 aprile 1953, viene eletto all’unanimità Segretario generale, sostituendo, così, il norvegese Trygve Lie, carica nella quale verrà riconfermato anche nel 1957, allo scadere del primo mandato.
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Allora il mondo era alle prese con cambiamenti epocali: l’imminente fine del colonialismo, la Guerra di Corea, la Guerra Fredda e la polveriera mediorientale erano soltanto alcune delle spinose questioni cui la diplomazia del tempo doveva far fronte.
Hammarskjöld riteneva fondamentale che l’ONU potesse fare affidamento su un gruppo di funzionari stabile interamente dedicato alle attività dell’Organizzazione, e che essi non venissero semplicemente impiegati dalle diverse Nazioni per un periodo di tempo limitato: questo-egli ne era persuaso-avrebbe garantito una maggiore autonomia e capacità di intervento all’ONU stessa, oltre che totale indipendenza di giudizio.
“Spesso si recò personalmente, o inviò suoi diretti rappresentanti, nelle zone in cui nascevano violenze o tensioni. Negoziò di persona il rilascio di prigionieri statunitensi durante la guerra di Corea, inviò per la prima volta nella storia dell’organizzazione forze dell’ONU con funzioni di peacekeeping per impedire che degenerasse la crisi di Suez (1956) e intervenne anche nella crisi ungherese.”[2]
Egli appoggiò con decisione il processo di decolonizzazione, attirando l’opposizione delle grandi potenze occidentali: per alcuni questa fu la sua condanna.[3]
La crisi in Congo del 1960
Il 1960 fu l’anno dell’ascesa dell’Africa sulla scena internazionale.[4] Il processo di decolonizzazione avviato all’incirca in quegli anni fu reso ancor più complesso dal sorgere della Guerra Fredda, così che le trame tra le quali la diplomazia del tempo doveva districarsi risultavano estremamente fitte.
Il 1960 fu anche l’anno nel quale il Congo raggiunse l’indipendenza dalla madrepatria belga. Dopo un solo mese, tuttavia, nel luglio dello stesso anno, Moise Thsombe, leader secessionista congolese, dichiarò indipendente dalla neonata Nazione la regione del Katanga, ponendo presto fine al sogno di un Congo libero, indipendente ed unito. Tale dichiarazione d’indipendenza non fu indolore, suscitando, anzi, le reazioni del Belgio, che presto diede vita ad un intervento armato nella regione, ufficialmente per proteggere i cittadini belgi, in realtà volto a difendere gli ingenti interessi delle proprie compagnie minerarie. La risposta dell’ONU non si fece attendere: venne votata una risoluzione per l’invio di caschi blu nella regione, con l’obiettivo di ristabilire l’ordine. Ciononostante, Thsombe si oppose alla proposta pervenuta dall’Organizzazione di sostituire i propri soldati a quelli belgi; dall’altro lato, poi, il Primo ministro congolese Patrice Lumumba era sostenuto dall’Unione Sovietica, profondamente insoddisfatta dalle modalità con le quali l’Onu stava gestendo la crisi.[5]
“In un celebre discorso davanti all’Assemblea Generale, Khruschev chiese di sostituire la carica di segretario generale allora rivestita da Hammarskjöld con un “triumvirato”, formato da un rappresentante dei paesi occidentali, uno dei paesi sovietici e uno dei paesi di nuova indipendenza. Hammarskjöld rispose con un netto rifiuto, ricevendo gli applausi dell’Assemblea.”[6]
L’Operazione Morthor
“I documenti mostrano come l’ONU arrivò a stilare un piano condiviso con il governo centrale del Paese, l’Operazione Morthor, volto a porre fine con la forza alla secessione del Katanga, insieme alla successiva ira del presidente degli Stati Uniti John Kennedy e del Primo ministro britannico Harold Macmillan, che ritennero di non essere stati consultati. Hammarskjöld inviò una vigorosa risposta e mise in discussione apertamente gli interessi delle potenze occidentali in Congo. (…)”[7]
L’incidente aereo
La sera del 17 settembre, intorno alle 18, Hammarskjöld partì insieme ad altre quindici persone dalla capitale del Congo, Leopoldville (oggi Kinshasa) su un Douglas DC-6 della compagnia svedese Transair, pilotato dal comandante Per Hallonquist e dal copilota Lars Litton: la meta era Ndola, dove avrebbe dovuto incontrare Moise Tshombe per negoziare un cessate il fuoco. Poco dopo l’una di notte del 18 settembre, però, l’aereo si schiantò in una zona ricoperta dalla foresta vicino alla città di Ndola, nell’allora Rhodesia del Nord.
In seguito furono aperte almeno tre inchieste ufficiali: una delle Nazioni Unite, le altre due delle autorità rhodesiane coadiuvate da funzionari britannici. Nessuna di queste ha portato, ad oggi, ad individuare con certezza le cause dell’incidente, senza poter escludere (né provare) un attacco esterno diretto all’abbattimento del velivolo. [8]
Le teorie alternative
Da subito la pista dell’incidente aereo non convinse una buona parte degli addetti ai lavori, pur restando quella maggiormente accreditata, soprattutto se si pensa che, in quel periodo e in quelle zone, i piloti delle Nazioni Unite volavano anche per più di otto ore al giorno con lunghe attese tra un volo e l’altro.[9]
Nonostante ciò, più volte, nel corso degli anni, la responsabilità dell’incidente è stata variamente attribuita ai servizi segreti britannici, all’Unione Sovietica, al Belgio e agli Stati Uniti. Basta eseguire una rapida ricerca in Internet per poter leggere articoli e reportage di ogni parte del mondo che riportano ciascuno una teoria diversa: da quella per la quale l’abbattimento dell’aereo del Segretario generale sarebbe avvenuto per mano di un altro velivolo, passando per quella che vedrebbe coinvolti MI5, CIA e i servizi di intelligence sudafricani, per arrivare a quella secondo la quale il primo ufficiale delle Nazioni Unite a vedere il corpo di Hammarskjöld avrebbe dichiarato che egli riportava un buco sulla fronte successivamente aerografato dalle foto scattate al corpo.
“Anche le lettere private di Hammarskjöld raffigurano un forte leader delle Nazioni Unite (…) con una forte simpatia per le nuove Nazioni emergenti-insieme ad un’avversione per l’arroganza e l’ipocrisia delle grandi potenze (…) È chiaro che nessuna delle grandi potenze voleva alle Nazioni Unite un leader forte, guidato da principi ed impossibile da controllare” continua Björkdahl nel suo articolo.[10]
The Indipendent, inoltre, ha pubblicato il risultato cui perviene un rapporto di 95 pagine delle Nazioni Unite sull’incidente. “Appare plausibile”- viene dichiarato nel rapporto elaborato dall’ex giudice tanzaniano Mohamed Chande Othman- “che un attacco esterno o una minaccia (di un attacco esterno, nda) sia stato la causa dell’incidente: o, dunque, a causa di un attacco diretto oppure (di qualcosa) che abbia causato una momentanea distrazione dei piloti”; e ancora: “la presenza nell’area di personale paramilitare straniero, tra cui piloti e personale d’intelligence, indicano che l’ipotesi di un attacco non possa essere scartata”. L’articolo si conclude così: “è palese la necessità che il lavoro (d’indagine, nda) continui con rinnovata urgenza, con l’obiettivo di stabilire la verità sul tragico evento.”[11] Esortazione doverosa che sentiamo di fare nostra.