Quelli che vengono definiti come crimini di genere sono sempre stati identificati come effetti collaterali dei conflitti armati, dopo una fase dove abbiamo assistito punizioni esemplari nei loro confronti, stiamo vivendo in un’epoca dove le priorità sono drasticamente cambiate, lasciando impunite tali condotte.


Libri consigliati


I gender crimes rappresentano una costante che ha connotato e continua a caratterizzare la quasi totalità dei conflitti armati.  Diversi sono gli utilizzi che vengono fatti di questa arma che rappresenta lo strumento più economico e allo stesso tempo efficace per umiliare, dominare o terrorizzare un’intera popolazione.

Basti pensare a come vennero applicate alla guerra al terrore nella prigione di Abu Graib da parte dei militari statunitensi per sfibrare i detenuti e ottenere informazioni.

In altre situazioni, invece, i gruppi armati utilizzarono le violenze sessuali per sottomettere la popolazione nemica. Difatti, in molti ambienti il corpo della donna rappresenta un simbolo per la comunità intera, andato a ferire quello si trasmette il messaggio di avere il potere nelle proprie mani, umiliando e disumanizzando le vittime stesse.

Le violenze sessuali sono anche adottate per la pulizia etnica o il genocidio, come in Ruanda e Myanmar.

Sul piano normativo si può notare come siano stati lentamente compiuti dei passi avanti rispetto al passato. Infatti tre settori del diritto internazionale (diritto internazionale umanitario, diritto internazionale dei diritti umani e diritto internazionale penale) sono comunemente andati nella stessa direzione riconoscendo le violenze sessuali commesse durante conflitti armati come veri e propri crimini.

Nel Diritto internazionale umanitario espressamente vengono proibiti lo stupro e altre forme di violenze sessuali commesse in connessione ad oltraggio alla dignità personale, abuso sessuale e prostituzione forzata. Si può notare come la presenza della necessità del rispetto alla persona e al suo onore sia un retaggio storico che rimanda ai divieti che sussistevano all’epoca della nascita di questa branca del diritto internazionale. Queste regole devono ritenersi applicate sia nell’ambito dei conflitti nazionali sia in quelli internazionali. In quest’ultimo, in particolare, le violenze sessuali rappresentano quelle che vengono definite come “grave breaches” dal momento che causano gravi sofferenze al corpo e alla salute delle vittime.

Dal punto di vista del diritto internazionale penale invece, grazie all’esperienza dei tribunali penali internazionali, si è riusciti a classificare le violenze sessuali come crimini internazionali identificabili anche all’interno dei crimini contro l’umanità, genocidio o crimini di guerra.

Il diritto internazionale dei diritti umani, invece, vieta tali condotte sia a livello internazionale che a livello regionale. Si ricorda come le Nazioni Unite all’interno della Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne affermò esplicitamente che sarebbe stato punito qualsiasi tipo di atto di violenza di tal genere sia se preparato da parte di uno Stato sia da parte di un privato. Qualsiasi tipo di fallimento a riguardo avrebbe costituito una violazioni degli obblighi internazionali.

Proprio nel tentativo di assistere la giustizia internazionale, nel 2010, venne redatto il Model Strategies and Practical Measures composto da tutta una serie di misure utili a garantire assistenza alle vittime e un equo processo nei casi di violenza sessuale.

Questo modello si focalizza sulla figura della vittima andando ad evidenziare come debba essere loro garantito un trattamento appropriato e rispettoso. Obiettivo primario dovrebbe essere quello di far sì che la giustizia protegga le vittime impedendo in qualsiasi modo che diventino oggetto di un’ulteriore vittimizzazione.

Ovviamente, per garantire un risultato efficace e quanto più possibile rapido la giustizia internazionale dovrebbe cooperare coinvolgendo governi e agenzie o organizzazioni no profit che si trovano localmente. Fondamentale è adottare un approccio quanto più specializzato possibile, costituendo anche unità operative ad hoc e arruolando personale che riesca a monitorare costantemente gli sviluppi e che sia in grado di valutare l’effettività delle strategie adottate.

Sebbene dal punto di vista normativo si possa essere soddisfatti degli obiettivi raggiunti, non altrettanto dal punto di vista pratico. Infatti la strada verso la giustizia non è sempre così dritta come si può immaginare.

In primis, è molto complicato catturare i ribelli o i capi di Stato macchiatisi di tali crimini a causa anche della scarsa collaborazione degli Stati medesimi. Basti pensare al caso del mancato arresto del Presidente del Sudan Omar Bashir.

In secundis, il dialogo stesso con le vittime e con i testimoni può risultare complesso dal momento che temono ripercussioni nei confronti delle loro famiglie. Infatti in moltissimi casi i criminali minacciano le vittime per ottenere il loro silenzio.
Le modalità per poter garantire maggiore sicurezza richiedono molta flessibilità e mezzi. In alcuni posti, ad esempio, gli ospedali fungono da luoghi di prima protezione in casi di estrema necessità. Ma la domanda è: quanto può essere sicuro un ospedale in Siria, ad esempio, oppure in altre zone colpite da guerre in cui già la sicurezza per i pazienti stessi e i medici scarseggia?

In altri casi invece, sono gli stessi legali o membri di associazioni che ospitano nelle proprie abitazioni le vittime. Alcuni anni fa venne elaborato un programma pilota dalle Nazioni Unite sulla equivalenza di genere in Uganda, in cui vennero creati cinque rifugi posizionati vicino a centrali di polizia in grado di garantire non soltanto accoglienza ma anche assistenza medica e legale. Il mantenimento di queste aree divenne di competenza del ministero del genere, lavoro e sviluppo sociale ugandese nel 2015. Informazioni riguardo il loro effettivo funzionamento non sono ancora pervenute.

A rendere ancora più complicata la situazione si pone lo stigma stesso della tradizione che regna sovrana in molti paesi. Difatti nelle società tipicamente patriarcali per le donne è impensabile denunciare le atrocità subite, a maggior ragione se dall’altra parte si trovano magari investigatori di sesso maschile. La stessa visione negativa delle sopravvissute o dei sopravvissuti rappresenta una barriera alla denuncia.

Inoltre le vittime, a causa di precedenti pessimi rapporti con i meccanismi della giustizia, potrebbero provare sentimenti di totale sfiducia nei confronti del sistema, non sentendosi creduti o visti con pregiudizio dagli operatori giudiziali.

Di conseguenza il Procuratore che entra in contatto con le vittime dovrebbe adottare tutte le misure idonee a far sentire sempre più a suo agio il soggetto.

In aggiunta, anche nel momento in cui le vittime si dimostrino pronte a portare i loro carnefici davanti ad una Corte, non sempre è così facile istruire un caso. Infatti, la raccolta delle evidenza può risultare molto ardua dal momento che è necessaria la raccolta di prove quali analisi mediche, test del DNA e molto altro.

Accanto a tutto ciò si pongono molti altri ostacoli quali ad esempio la mancanza di un collegamento tra l’assistenza medica e quella legale, la carenza di coordinamento tra gli investigatori e i procuratori con conseguenti debolezza delle prove e accuse.

Aperto è ad oggi il dialogo circa quale possa essere la soluzione migliore per porre fine ai casi di impunità. Oltre a sistemi puramente legali come quello di diritto internazionale si è spianata la strada anche a modelli definiti di “restorative justice”.  Si contrappongono un modello universalistico del diritto internazionale il cui obiettivo ultimo è quello di fornire opportunità uguali per tutti e di creare stessi standard di applicazione dei diritti umani, con un modello più relativistico in cui la giustizia è relativa e si concentra in pratiche locali connesse con la tradizione.

Ovviamente, l’applicare solo uno o l’altro di questi modelli potrebbe non essere sufficiente per garantire una giustizia totale. Da un lato, applicare un criterio universalistico potrebbe sfociare nella pretesa di sapere quale sia il metodo giusto da usare in qualsiasi situazione, ignorando le caratteristiche che possono distinguere le singole questioni. Dall’altro, una visione puramente nazionalistica sarebbe estremamente limitata dal momento che ogni sistema interno, basato sul principio individualistico, avrebbe molte difficoltà a fronteggiare da solo tutti gli autori di un genocidio o di crimini contro l’umanità.

Forse la soluzione più propizia sarebbe quella di fare conciliare entrambi questi due modelli per attingere al meglio di entrambi. In molte zone per cercare di far fronte a gravi crisi umanitarie conseguenti a terribili guerre, dopo una prima fase svoltasi difronte ai Tribunali Internazionali si ricorse a soluzioni regionali per poter ottenere giustizia e riconciliazione. Famosissimo esempio che venne studiato anche negli anni successivi fu quello Rwandese dove venne applicato il tradizionale sistema dei Gacaca.

L’obiettivo principale del combattere e punire questi crimini, non è solo quello di incarcerare gli autori, quanto quello di proteggere le vittime e far capire al mondo come la giustizia internazionale sia un meccanismo ben attivo e che violenze di tal genere non possono in alcun modo essere tollerate dalla comunità internazionale dal momento che vanno a minare non soltanto il corpo, ma anche lo spirito e la mente della vittima. 

L’impunità non farebbe altro che normalizzare queste violenze andando a privare di potere le norme internazionali. Di certo, nessuna sentenza o legge può sanare le ferite e le sofferenze subite dalle vittime, ma può sempre essere una speranza a cui aggrapparsi.

Un concetto che nell’ultima decina di anni ha avuto sempre più un ruolo rilevante in materia di giustizia per le violenze sessuali è quello di riparazione intesa come ‘the most victim-centered justice mechanism available and the most significant means of making a difference in the lives of victims.[1]

Per la prima volta questa idea emerse nel 2007 durante la Dichiarazione di Nairobi, ma venne sicuramente rafforzata nel 2018 quando si attribuì il premio Nobel al Dr Denis Mukwege e a Nadia Murad. Nello specifico la fondazione gestita dal Dr Mukwege ha lanciato una iniziativa di riparazione internazionale con il fine di garantire assistenza alle vittime non soltanto dal punto di vista psicologico ma anche economico, permettendo loro di ricostruirsi una vita partendo dalle ceneri. Si può dire che ci troviamo a vivere quello che sarebbe il periodo migliore per porre fine alla cultura di impunità che ci trasciniamo da secoli. Infatti, disponiamo sia di mezzi mediatici con i quali rendere note le crudeltà commesse, sia di strumenti giuridici idonei ad operare in questi ambiti. Forse, quello che ostacola il raggiungimento della giustizia è il fatto che nello stesso momento si consumino diversi conflitti, quindi l’impiegare risorse nello stesso momento su più fronti non diventa possibile.

Come avvenuto per il Ruanda ed ex Jugoslavia, i tentativi che verranno posti in essere in questi anni fungeranno da esempio per come prevenire e punire tali crimini negli anni futuri. La Corte Penale internazionale dovrebbe rappresentare la stella polare in materia, però, non dovrebbe essere lasciata sola nella lotta ai crimini di guerra, crimini contro l’umanità e crimini di genocidio. Sarebbe auspicabile un rafforzamento dei meccanismi interni ad ogni singolo paese e, soprattutto, delle organizzazioni internazionali, in modo da operare in sincrono e garantire una giustizia più rapida ed efficace.  Facilitare il dialogo con i membri dei governi, i prestatori di servizi sanitari e con i legali potrebbe aiutare nella raccolta di evidenze e documentazione.

Una soluzione che venne avanzata qualche anno fa per raggiungere più agevolmente la giustizia fu adottare la tecnica del patteggiamento. In molti Stati rappresenta una comune alternativa ai processi standard. Nei casi di patteggiamento l’imputato acconsente a dichiararsi colpevole in cambio di un accordo o a veder ridotta la pena finale, oppure a veder cadere alcuni capi d’accusa. Diventa conveniente soprattutto nei casi in cui si ha un limitato accesso a risorse giudiziali oppure dove i casi prevedano un numero di imputati molto elevato. Due problematiche che si riproducono perfettamente nell’ambito dei crimini internazionali. Ora, questo meccanismo, a rigor di logica potrebbe avere sia effetti positivi che negativi. Se da un lato, come dimostrato da studi sull’operato dell’ICTY e ICTR nei casi di patteggiamento le prime accuse che vengono fatte cadere sono proprio delle di violenza sessuale, per lasciare posto a capi di imputazioni quali omicidio e sterminio.[2] Questo, inevitabilmente, farebbe in modo di lascare senza voce le vittime di violenza sessuale.

Dall’altro lato, però, lo stesso Tribunale per la Bosnia-Erzegovina insieme ad altri stati quali Stati Uniti e Australia hanno delineato dei criteri che potrebbero risultare favorevoli, quali ad esempio la necessità che il procuratore incontri le vittime per poter porre loro delle domande e far capire loro in cosa consista il patteggiamento, l’adeguatezza ed ammissibilità delle prove pertinenti e la ragionevolezza della condanna elaborata dall’accusa[3].

Purtroppo però, nessun tipo di misura sopra elencata potrà mai rivelarsi efficace o decisiva senza una volontà politica di impegnarsi per fornire risorse e strutture in grado di supportare l’accesso delle vittime alla giustizia. Ecco che quindi si prospetta una nuova sfida per il nostro secolo, quella di impegnarsi nel tentativo di garantire giustizia per le vittime di queste atroci violenze, riusciremo a vincere?


Note

[1] Ruth Rubio-Marin ‘Reparations for conflict-related sexual and reproductive violence: A decalogue ‘ (2012) 19(69) William And Mary Journal Of Women And The Law 69 at 73.

[2] Van Schaack, Obstacles on the Road to Gender Justice,” 395; Mischkowski and Mlinarevic, The Trouble with Rape Trials 22

[3] Kim Seelinger, Silerberg, Mejia “The investigation and Prosecution of sexual violence”, Sexual violence and accountability working paper series, maggio 2011


Foto copertina: Immagine web TheNewHumanitarian


[trx_button type=”square” style=”default” size=”large” icon=”icon-file-pdf” align=”center” link=”http://www.opiniojuris.it/wp-content/uploads/2020/08/I-gender-crimes-la-sfida-del-nuovo-secolo-Giulia-Cazzaniga.pdf” popup=”no” top=”inherit” bottom=”inherit” left=”inherit” right=”inherit” animation=”bounceIn”]Scarica Pdf[/trx_button]