I Kalasha (o Kalash), comunità che da secoli vive sulle pendici pakistane dell’Hindu Kush, a cavallo tra Afghanistan e Pakistan, arroccata nelle valli che si aprono nel cuore del “tetto del mondo”. Parlano una lingua sanscrita, il kalashwar, e sono stati definiti in diversi modi nel corso degli anni: “gli ultimi pagani”.


 

Paese a larga maggioranza musulmana ma dotato di un’insospettabile eterogeneità interna, il Pakistan è tuttora abitato da una moltitudine di comunità peculiari e culturalmente autonome. L’eterogeneità è anche frutto della diversificata geografia del Paese, che ha permesso nei secoli a diverse comunità di perpetrare la loro esistenza al riparo dagli sconvolgimenti che a più riprese hanno interessato la Valle dell’Indo.

Questo è il caso della comunità dei Kalasha (o Kalash) che da secoli vive sulle pendici pakistane dell’Hindu Kush, a cavallo tra Afghanistan e Pakistan, arroccata nelle valli che si aprono nel cuore del “tetto del mondo”. La maggior parte di loro (circa 4-5 mila, la comunità etnica più piccola del Paese, molti dei quali vittima di pregiudizi e persecuzioni[1]) sono rimasti seguaci di un culto pagano politeista e sulla base di accurate analisi genetiche possono essere considerati di probabile origine euro-asiatica occidentale con una forte componente europea[2].
Parlano una lingua sanscrita, il kalashwar, e sono stati definiti in diversi modi nel corso degli anni: “gli ultimi pagani”, “i figli di Dioniso”, “l’ultima falange macedone”, “i re pastori”. Secoli fa i Kalasha si suddividevano in molte tribù che abitavano sulle pendici e le vette dell’Hindu Kush sia sul versante afgano che su quello pakistano.

Sul versante afgano la regione fu denominata Kafiristan proprio perché popolata da quelli che i musulmani consideravano infedeli (in arabo “kafir”). Dopo la conversione forzata degli abitanti all’Islam, il Kafiristan divenne l’attuale Nuristan. Sul versante pakistano invece una delle tribù, i Kalasha, rimase fedele al culto pagano ma nel corso del tempo ha dovuto ritrarsi sempre più, abbandonando i territori più bassi ormai islamizzati e rintanandosi in tre valli di montagna (Birir, Rumbur, Bumburet) del distretto di Chitral. Anche a partire dalla deflagrazione dei grandi conflitti che hanno sconvolto l’Afghanistan e investito il Pakistan con profonde ripercussioni, la regione dell’ex Kafiristan è stata particolarmente coinvolta, in quanto la sua natura impervia la rende terra ideale per azioni di guerriglia e la prossimità a  uno dei confini più “caldi” del pianeta ne ha incentivato la valenza strategica.

Gli attuali Kalasha sono gli ultimi eredi di questa popolazione in via d’estinzione. Di loro è stato detto e scritto poco, tra i vari lavori si può trovare un ampio capitolo di Gerard Russell nel libro Regni dimenticati (Adelphi, 2016), oppure  nella pubblicazione “Gli ultimi pagani” dell’antropologo italiano Fosco Maraini (1912-2004) che tuttavia si interessa principalmente ai kafiri islamizzati.

Gerard Russell introduce il popolo dei Kalasha, nel suo saggio, partendo dalla cronaca della battaglia di Wanat del 13 luglio 2008, nel corso della quale le forze statunitensi patirono un duro tributo di sangue (9 morti e 27 feriti) in seguito a un’incursione dei Talebani operanti nel Nuristan. “Eppure, durante la battaglia, a qualche chilometro appena di distanza, un’insegnante di nazionalità greca dormì pacificamente per tutto il tempo. Athanasios Lerounis risiedeva in un villaggio chiamato Bomboret e vestiva come un autoctono, con i fiori infilati nel basso berretto di lana marrone. Pur essendo un estraneo, era stato autorizzato a partecipare alle celebrazioni dei locali per il solstizio: aveva sacrificato capre ai loro numerosi dei e dee, bevuto vino e un forte brandy di produzione artigianale, e danzato tutta la notte – con le donne, in sgargianti costumi giallorossi e copricapi di conchiglie di ciprea, che formavano dei cerchi intorno agli uomini, ondeggiando con un certo contegno al ritmo del canto. Pressappoco nel centro geografico dell’Islam militante, Athanasion viveva tra gli ultimi pagani del Pakistan. Si chiamavano Kalasha”. Anche nel caso descritto dall’autore, le montagne impenetrabili avevano protetto i Kalasha dal rischio del conflitto e difeso le loro valli come un’oasi di tranquillità nella bufera del Grande Medio Oriente[3].

L’origine

L’origine di queste etnie rimane avvolta nel mistero. La leggenda narra che Alessandro Magno nel corso della spedizione in Oriente (IV secolo a.C.) non ebbe il coraggio di penetrare su quei monti popolati da uomini bellicosi e gelosi della loro indipendenza. Per lungo tempo se ne tennero alla larga anche gli islamici e persino le orde di Tamerlano dovettero rinunciare a conquistarne il territorio. Sino a che, nel 1895, l’emiro afgano Kabul Abdur Rahman, con il beneplacito degli inglesi, con cui il Paese era tornato in pace dopo la buriana del “Grande Gioco[4]”, conquistò il Kafiristan, fece strage delle popolazioni autoctone, impose ai superstiti la conversione forzata all’Islam. Ma non poté sconfinare nell’attuale Pakistan, sotto il controllo diretto degli inglesi, cosicché una delle tribù, i Kalasha, che abitava le valli della provincia di Chitral, riuscì a sottrarsi alla strage e all’islamizzazione giungendo sino a noi. Oggi i Kalasha sono assediati dai ricorrenti tentativi di islamizzazione messi in atto dal governo pakistano ma sono minacciati anche dalla modernità, compreso il turismo che negli ultimi anni si va intensificando.

La composizione etnica

Dal punto di vista etnico i Kalasha hanno in prevalenza carnagione rosea, capelli biondi ed occhi chiari. Si considerano con orgoglio discendenti dei soldati di Alessandro Magno. Questa ipotesi ha un fondamento storico nella dinastia greca che, dopo la morte di Alessandro, governò sui territori dell’Afghanistan meridionale e del Pakistan. Le indagini genetiche hanno documentato un profilo indo-europeo ed uno studio del 2014 ha documentato che il loro patrimonio genetico, in un periodo compreso tra il il 990 a.C ed il 206 a.C., si è arricchito di geni estranei forse europei[5].

I Kalasha, per ragioni diverse, hanno sempre esercitato una forte suggestione sulla cultura occidentale, sicuramente per la loro posizione geografica ai confini del mondo. Gli inglesi vi inviarono esploratori e ricercatori allo scopo studiare il territorio, verificare le attitudini guerriere e sondare la disponibilità ad alleanze militari. Uno dei maggiori studiosi fu non a caso George Scott Robertson (1852-1916), un medico funzionario inglese che visse a lungo tra i Kam (una delle tribù kafire), per studiarne i comportamenti. Praticano un’economia di sussistenza limitata alla coltivazione di grano e vite e all’allevamento di ovini e bovini.

I villaggi hanno struttura diversa. La maggior parte sono costituiti da case abbastanza moderne e, in alcune zone, fornite di energia elettrica. Altri villaggi, soprattutto nella valle di Birir, sono strutturati sotto forma di un grande edificio di legno ancorato alla roccia, organizzato su più livelli, dove ogni famiglia dispone praticamente di una sola stanza affacciata su balconi comuni e collegati da scale.

La religione

La religione praticata dai Kalasha è politeista e basata su un sistema di culti complessi. Come scrive Ifthikar Hussain nel suo saggio dedicato alle tribù del confine afghano-pakistano, “i loro rituali e le loro cerimonie sono completamente diversi da quelli degli altri popoli della regione. Quando un uomo della comunità muore, è depositato in una bara di legno, attorno alla quale si svolge una danza cerimoniale con canti rumorosi, mentre nel caso di morte di una donna i Kalasha si limitano a cantare. […] I Kalasha sono adoratori di idoli: alle spalle della divinità suprema, Imra, ci sono in tutto 16 dei di sesso maschile e femminile. […] Il loro eroe principale è Giz, il dio guerriero[6]”. Il cosmo Kalasha si completa con una serie di creature paragonabili a demoni e fate che sono ritenute in grado di influenzare la vita degli individui e l’evoluzione della comunità. Il loro leader religioso, il Batan, presiede a un sistema di culti dal quale restano rigorosamente escluse le donne, che non possono visitare i santuari del popolo Kalasha.

Ma l’aspetto della cultura Kalasha che più suggestiona è la festa rituale del vino (chaumos). Si celebra nel corso del solstizio d’inverno, dura una settimana e segue cerimoniali arcaici (diversi nelle tre valli) nel quale l’immaginario occidentale riconosce i tratti essenziali dei riti dionisiaci della civiltà greco-romana.

D’altronde la mitologia Kalasha narra che a porre le basi della comunità sia stato lo stesso Dioniso, in viaggio verso le Indie in compagnia delle baccanti e degli spiriti dei boschi (in realtà il consumo rituale del vino è comune anche in altre civiltà). Solo in occasione del chaumos, i Kalasha bevono vino sino ad ubriacarsi (durante il resto dell’anno sono astemi) e danno vita ad una festa orgiastica fatta di sacrifici animali, guerre di parole, canti e balli sfrenati (ma il sesso è vietato per l’intera durata della celebrazione).

Nel corso della festa vengono indossati i costumi tradizionali, dai colori sempre sgargianti, e le donne indossano i kupas, copricapi costituiti di lane, argenti e soprattutto conchiglie. A vigilare che i rituali siano aderenti alla tradizione sono preposti gli anziani dei villaggi (dove non esiste una figura assimilabile ad un capo). L’ultimo giorno della festa si procede al sacrificio rituale di decine di caproni.

Il rito è praticato in alta montagna davanti all’altare del “grande dio”, fatto di cumuli di pietra ornati da quattro teste di cavallo scolpite in legno. Ed in questo momento che i giovani possono cadere in uno stato di trance sciamanico caratterizzato da uno stato di coscienza alterato e tremori convulsivi diffusi con scene che evocano le baccanti di Euripide.

La storia dei Kalasha è dunque quella di un popolo che ha saputo resistere alla marea montante di una storia inclemente, dura e, a più riprese, tragica. Nelle terre oggetto delle contese del “Grande Gioco”, crocevia di eserciti e imperi, nel XXI secolo minacciate dal fanatismo e dall’insorgenza terrorista i Kalasha resistono, eredi di una storia millenaria che pare sfumare nella leggenda.

Questo fa di loro un vero e proprio “ponte” tra Oriente e Occidente, l’ultimo retaggio di un’era in cui le due parti dell’Eurasia iniziarono a incontrarsi e scontrarsi. E rende la loro cultura la testimonianza vivente di quanto possa pagare sul lungo periodo l’identificazione di un popolo, per quanto minoritario, con il suo territorio.


Note

[1] Earthquake was Allah’s wrath for Kalash’s community immoral ways, The Express Tribune, 10 novembre 2015
[2] Ibid.
[3] Gerard Russel, Regni dimenticati, Adelphi, Milano, 2016, pag. 279-280

[4] Andrea Muratore, Il libro che aveva “predetto” l’incubo della guerra in Afghanistan, Il Giornale, 11 maggio 2021.
[5]Gerard Russell, op. cit.
[6]Ifthikhar Hussain,  Some major Pukhtoon tribes along the Pak-Afghan border, University of Peshawar, 2000


Foto copertina: Donne Kalash | Foto di Noé Alfaro (CC BY)