All’interno della programmazione del Governo Meloni emerge a fasi alterne la riforma costituzionale in senso presidenziale del Testo del 1948. Una sfida dichiarata dall’attuale Presidente del Consiglio in nome di una maggiore stabilità politica del sistema, che potrebbe però rappresentare un vero rischio per l’equilibrio istituzionale italiano più volte minacciato nel corso della storia repubblicana.
A cura di Gianmarco Castaldi
I rischi di un presidenzialismo italiano
Dato l’attuale quadro europeo, susciterebbe sicuramente scalpore all’interno dell’opinione pubblica, non di meno che sulla stampa estera, una possibile riforma costituzionale della forma di governo italiana, che assorbirebbe ampie conformazioni anatomico-giuridiche dal modello presidenziale “alla francese” – cosiddetto semi-presidenziale. Quello stesso modello fortemente citato dall’attuale Presidente del Consiglio Giorgia Meloni durante il suo discorso d’insediamento dinanzi al Parlamento.
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Nella vulgata attuale, le forme di governo presidenziali e semi-presidenziali fanno gola agli aspiranti ricercatori di stabilità governativa. E in qualche modo a ragione. Tra le caratteristiche principali di tali sistemi emerge con forza l’elezione diretta del Capo dello Stato, che di conseguenza gode di una legittimazione popolare che gli attribuisce ampi spazi di esercizio del potere politico. Come in Francia.
Mauro Volpi, giurista e accademico italiano, traccia un profilo esauriente dell’effetto del voto plebiscitario nel modello francese: “l’elezione popolare esalta l’uso dei poteri del Presidente e in particolare di quelli che, non essendo soggetti a controfirma ministeriale, si configurano come poteri propri del Capo dello Stato […]” . L’elenco è lungo e tra i più significativi vengono citati la nomina del Primo Ministro, il ricorso al referendum legislativo, l’assunzione dei poteri di crisi in caso di grave minaccia alla Repubblica e di interruzione del regolare funzionamento dei poteri costituzionali e lo scioglimento dell’Assemblea Nazionale, la Camera più importante del Parlamento del Paese.
Il semi-presidenzialismo francese come è oggi incarna il punto di arrivo di una formazione costituzionale e giuridica storica che trae origine da determinate ragioni; in primo luogo, tra le motivazioni che spinsero nel 1962 a introdurre in Costituzione l’elezione a suffragio universale del Capo dello Stato, vi fu la volontà di contrapporre al pluralismo politico del Parlamento l’autorità statale del Presidente della Repubblica, garanzia di stabilità e forza delle istituzioni repubblicane. A questo, bisogna aggiungere che una tale conformazione del quadro politico francese giunse in seguito alla disastrosa crisi della IV Repubblica, in cui un multipartitismo estremo e una conseguente frammentazione dell’Assemblea Nazionale avevano contribuito al fallimento del sistema. Ciò affidò la Francia nelle mani del padre dell’attuale Nazione il generale Charles de Gaulle, pronto non solo a garantire una revisione strutturale della Costituzione in nome di una maggiore stabilità politica ma anche a gestire con assoluta autorità le mire indipendentistiche del Fronte Nazionale di Liberazione algerino. In sostanza, alla Francia serviva non un arbitro che gestisse i giocatori in campo, ma un altro giocatore, possibilmente il più forte di tutti.
E veniamo all’Italia. Nella penisola, di giocatori solitari e autoritari, prima dell’approvazione della Costituzione del 1948, ne avevamo già avuti abbastanza. L’uomo solo al comando della Nazione, a differenza di de Gaulle, si tramutò da traghettatore verso un futuro glorioso a timoniere imperterrito ed eterodiretto, che portò gli italiani in una guerra disastrosa e consegnò il Paese al giudizio negativo della storia.
La fine di Mussolini e del regime fascista servì in un certo senso da monito per la generazione di costituenti che andava delineando il quadro costituzionale e politico in cui l’Italia repubblicana avrebbe mosso i suoi passi. La scelta cadde su una forma di governo parlamentare, con un Presidente della Repubblica garante della Costituzione, nei panni di arbitro del gioco politico ed eletto dal Parlamento in seduta comune. Un Capo dello Stato rappresentante dell’unità nazionale privo di potere esecutivo. Inoltre, come sottolinea Francesco Clementi – giurista e professore ordinario di diritto pubblico comparato all’Università di Roma “La Sapienza” – : “il nostro Capo dello Stato […] è sintesi massima, a scrutinio segreto, di un necessario ampio accordo politico tra i partiti presenti in Parlamento. […] La scelta nasce dalle ceneri ancora fumanti del regime fascista, nel timore di una potenziale involuzione autoritaria” .
Il fascismo in Italia, inteso come regime operante, è crollato nel 1945. In molti iniziano a parlare di un possibile cambiamento radicale della Costituzione repubblicana e della forma di governo parlamentare perché ormai incapace di fornire gli strumenti adatti per una governabilità duratura. Il contrappeso a tali dichiarazioni non ha però di certo natura inconsistente. In tal senso, con una riforma presidenziale – o semi-presidenziale alla francese – il Capo dello Stato italiano acquisirebbe un importante vigore politico, imperniato sulla corsa elettorale e sulla gestione del potere, depauperando di fatto le guarentigie istituzionali verso il popolo e verso la Costituzione. A questo proposito, il giurista Gustavo Zagrebelsky, in una intervista di Simonetta Fiori sul quotidiano “La Repubblica”, delinea un quadro rivelatore sui possibili rischi in seguito alla modifica della forma di governo: “Il presidenzialismo proposto da Giorgia Meloni potrebbe tradursi in un regime autoritario sul genere di quello di Orbán, dove il Presidente della Repubblica perde il ruolo di garante della Costituzione […]”. E ancora, in merito ai rapporti con il Parlamento: “sotto il suo potere – o sotto il potere del Partito del Presidente – il Parlamento rischierebbe di rimanere schiacciato, in una condizione di ricatto permanente” .
È utile ricordare come grazie alla Costituzione pluralista e democratica, che garantisce ancora oggi come nel 1948 il patto basilare tra le varie forze politiche paritarie, l’Italia ha debellato oscure derive autoritarie. Per citarne alcune: il “Piano Solo” (1964) del generale Giovanni de Lorenzo e Antonio Segni, allora Presidente della Repubblica, un progetto di emergenza che avrebbe concentrato il potere nelle mani del Capo dello Stato, appoggiato dai militari, nel caso in cui le sinistre avrebbero conquistato la guida del governo; il golpe “interrotto” di Junio Valerio Borghese, ex comandante della X Mas della Repubblica di Salò, che avrebbe garantito il ritorno a uno Stato di polizia sul modello fascista; l’attività sovversiva, massonica e occulta di Licio Gelli, capo della loggia P2, che proprio in una svolta autoritaria aveva riposto la fiducia per la conquista delle istituzioni del Paese.
Un cambiamento della Costituzione e della forma di Governo, non avallato da una certa presa di coscienza di cosa è stata la Prima Repubblica ma sostenuto solo da un richiamo alla stabilità governativa, rischierebbe un risvolto tendenzialmente negativo per due motivi di fondo: il primo ha a che fare con l’assenza di una maturità storica della politica e dello Stato, possibile solo con un’attenta attività di ripulitura di un passato ombroso, che ancora non trova risposte, come per la P2, come per il golpe Borghese e come per il Piano Solo – la lista è ancora lunga. In secondo luogo, con un Presidente della Repubblica incaricato dal voto popolare il ruolo di mediatore imparziale verrebbe meno o comunque fortemente ridimensionato. Questo incarico derivante direttamente dagli articoli della Costituzione ha attribuito al Capo dello Stato il potere di calmare gli animi dell’arena, gestire le crisi parlamentari e governative disinnescando possibili esplosioni del sistema, in piena attività a-politica tipica delle istituzioni neutrali. L’inquilino del Colle parteciperebbe non più come una figura super partes in grado di intervenire con discrezionalità unicamente per l’interesse nazionale ma come principale attore dalle chiare idee politiche e con la forza esecutiva tra le mani.
Foto copertina: Giorgia Meloni