L’opzione invasione era sempre stata sul tavolo, ma come ultima spiaggia. Perché i russi forse volevano soltanto negoziare: è con la diplomazia delle cannoniere che, del resto, le grandi potenze dialogano da sempre. Qualcuno, però, ha voluto che l’evitabile diventasse inevitabile: l’amministrazione Biden. Vi spieghiamo perché.


Il vero stratega è colui che sa vincere senza combattere, magari facendo combattere altri per lui. Lo affermava Sun Tzu, in quel capolavoro senza tempo che è L’arte della guerra, e questa legge è valida oggi come lo era ieri. E sarà valida anche domani. Sarà sempre valida.
In questo caso, il caso dell’Ucraina, gli Stati Uniti avevano un solo modo di vincere: provocare una guerra per esasperazione. Rendere inevitabile l’evitabile. Trasformare l’opzione più remota e trascurabile nella prima e necessaria. Non negoziare mai. Non concedere nulla. Replicare con un rifiuto anche alle richieste più ragionevoli. Sabotare pacieri e pontieri.
Il Cremlino ha sperato nel successo della diplomazia delle cannoniere sino all’ultimo, spalancando le porte a ogni interlocutore ritenuto in grado di strappare qualche concessione alla Casa Bianca – da Olaf Scholz a Emmanuel Macron, passando per britannici e italiani –, ma alla fine è caduto nel tranello di Joe Biden – un veterano della guerra fredda – e dei Richelieu che lo circondano – specialisti di Russia e spazio postsovietico come Antony Blinken e Victoria Nuland.
Ritirare quella forza potenziale, a un certo punto, era divenuto semplicemente impossibile: non si era ottenuto nulla, neanche uno spiraglio di remota negoziazione – promemoria: sul tavolo c’erano una nuova Jalta e la riscrittura del sistema securitario europeo –, e le conseguenze di un dietrofront sarebbero state gravi.
Aggredendo l’Ucraina, però, Vladimir Putin ha fatto il gioco dell’abile Biden, che senza sparare un colpo ottiene una guerra alle porte d’Europa utile agli Stati Uniti per una varietà di ragioni:

  • Il consolidamento della Comunità euroatlantica. Il partito della distensione, guidato dal duo Macron-Scholz, è stato annientato all’alba della dichiarazione di guerra all’Ucraina. Ritorsioni un tempo impensabili sono divenute inevitabili: dallo spegnimento a tempo indefinito del Nord Stream 2 all’applicazione di sanzioni economico-finanziarie in grado di disaccoppiare ulteriormente gli ecosistemi delle due Europe, passando per la prospettiva di un rafforzamento dell’Alleanza Atlantica con la possibile entrata di ossi duri della neutralità, come Svezia e Finlandia, e l’invio di nuove truppe sul suolo europeo.
  • L’assassinio del personaggio. Putin, che negli anni si è costruito la fama di capofila dell’anti-imperialismo, di uomo duro ma diplomatico e di statista attento a non violare la sovranità altrui e a non interferire negli affari interni di stati terzi, viene screditato in mondovisione con l’invasione massiccia e su larga scala di una nazione sovrana. Non è da escludere che presto si arrivi a denunciare l’esistenza di presunti crimini di guerra commessi dalle forze armate russe nei confronti degli ucraini.
  • La spaccatura dello spazio postsovietico. Coartando il capo del Cremlino ad aggredire la sacrificabile Ucraina, che resta un satellite ad uso e consumo del pianeta Stati Uniti, la Casa Bianca confida nell’aumento di sentimenti russofobici nel resto dello spazio postsovietico e in una loro futura strumentalizzazione. L’invasione, del resto, ha emblematizzato il ritorno effettivo e definitivo all’età della sovranità limitata, odora di Budapest 1956 – e così verrà ricordato dagli ucraini, e non solo da loro –, e verrà seguita con elevata probabilità da chiamate alle armi, da prove di lealtà ai capi di stato dello spazio ex sovietico, suscettibili di annoiare ulteriormente dei popoli già inquieti e diffidenti. Gene Sharp insegna: non esiste arma migliore di una società irrequieta da rivolgere contro un regime distante dalla realtà.
  • La divisione della Russia e dei russi. L’opinione pubblica russa non supportava e non supporta una guerra aperta e su larga scala all’Ucraina, per motivi di sensibilità culturale, di legami di sangue e memoria storica, e ha (prevedibilmente) cominciato a inscenare delle dimostrazioni dal primo giorno di ostilità. Più di 1.700 arresti soltanto la sera del 24 febbraio. La presidenza non cadrà certamente per queste proteste, che sono destinate a scemare a breve, ma ne esce indebolita a livello di immagine. Non è da escludere, inoltre, la presenza di malumori all’interno delle stanze dei bottoni, dove molti confidavano di non arrivare ad una guerra.

Nessuno aveva capito il tranello di Biden. Sicuramente non lo hanno capito i russi, che hanno parlato con un muro per mesi, ammassando soldati e armi fino a raggiungere e infine superare il punto di non ritorno. Soltanto una persona aveva intuito che dietro quell’intransigenza potesse celarsi la volontà di provocare una guerra per esasperazione: Emmanuel Macron.
Nessuno più di Macron si era speso per la distensione, parlando con Biden e in particolare con Putin. Nessuno più di Macron aveva lottato contro il partito dell’intransigenza intra-europeo, agendo di concerto con Scholz per prolungare i negoziati e tentare di strappare qualche concessione a Biden. E nessuno oltre Macron aveva avuto l’acume, nonché l’impavidità, di proporre apertamente uno scenario finlandizzazione per l’Ucraina. Tutto inutile: lo scoglio Biden si è rivelato insormontabile e i falchi hanno sostituito i diplomatici.
Far cadere Kiev per stringere la morsa su Bruxelles, tagliando le ali al sogno di autonomia strategica di Parigi e alle ambizioni eurasistiche di Berlino. Capire cosa sarebbe accaduto in caso fosse scoppiata una guerra non era difficile: Biden, del resto, aveva trascorsi i mesi alternando rifiuti ai russi e minacce di rappresaglie finanziarie, tecnologiche ed energetiche. Biden, in sintesi, non aveva mai nascosto quale fosse il suo scopo: uno scopo più antieuropeo che antirusso. Perché le sanzioni di oggi, esattamente come quelle dell’amministrazione Obama a loro tempo, danneggiano più l’Unione Europea che la Federazione russa nella maniera in cui limitano le capacità della prima di conseguire l’autonomia strategica, approfondendone la condizione di satellite nell’orbita americana, e spingono la seconda nelle braccia a Oriente, disaccoppiandola poco a poco dall’Unione Europea.
Quella di Putin rischia di rivelarsi una vittoria tattica, ma una sconfitta strategica. Potrà fare fronte ai rischi che si celano dietro l’orizzonte soltanto evitando una carneficina in Ucraina – dunque concludendo il conflitto quanto prima –, rassicurando i colleghi dello spazio ex sovietico e dando luogo ad un do ut des ricalcante il modello di egemonia americana postbellico: cessioni di sovranità in cambio di benessere e sicurezza. E un mezzo, in tal senso, esiste già: l’Unione Economica Eurasiatica.
Biden, ugualmente, dovrà tenere in considerazione ogni scenario. Perché dare carta bianca ai russi in Ucraina dopo la ritirata dall’Afghanistan avrà un impatto molto forte nell’immaginario collettivo degli americani, dei loro alleati, dei loro rivali e degli indecisi. Qualcuno potrebbe ritenere quell’intransigenza un sintomo di debolezza e tentare dei passi in avanti in teatri-chiave. Lo sguardo di tutti ora è su Taiwan, ma il mondo pullula di periferie in ebollizione e di vulcani pronti a eruttare, dai Balcani all’Africa nera. La partita è aperta: uno a zero per Biden. Ma il secondo tempo, quello in cui si deciderà il fato della transizione multipolare, deve ancora iniziare.


Potrebbe interessarti:


Foto copertina: United States President Joe Biden delivers remarks on Russia and the situation in Ukraine, in the East Room of the White House in Washington, DC, USA, 15 February 2022. EPA/MICHAEL REYNOLDS