Mentre la guerra in Ucraina prosegue, diventa “tesa” la situazione nella regione del Nagorno-Karabakh tra Azerbaijan e Armenia. Il Grande gioco del Caucaso (Passaggio al Bosco edizioni) di Clemente Ultimo, ripercorre la storia del conflitto nel Nagorno Karabakh e la partita geopolitica che Russia, Stati Uniti e Turchia stanno giocando nella regione. Intervista con l’autore

La mattina del 27 settembre 2020 forze armate dell’Azerbaijan e dell’Armenia ricominciarono a scontrarsi lungo quella che viene definita “linea di contatto dell’Artsakh” e cioè la zona di separazione tra le forze armene (ovvero l’esercito di difesa della repubblica di Artsakh) e le forze armate azere nell’ambito del conflitto del Nagorno-Karabakh. La linea è stata creata all’indomani dell’Accordo di Biškek del maggio 1994 che pose fine alla guerra del Nagorno-Karabakh (1988-1994). La guerra si è conclusa 44 giorni dopo il 9 novembre quando i rappresentanti dell’Armenia e dell’Azerbaigian, tramite la mediazione del presidente russo Vladimir Putin, firmarono un cessate il fuoco.
Con Il Grande gioco del Caucaso, Clemente Ultimo ripercorre la storia di un conflitto che affonda le proprie radici nel passato sovietico e che oggi coinvolge non solo i due Stati protagonisti, Azerbaijan e Armenia, ma vede la presenza di altri attori internazionali molto interessati a ciò che accade nel Caucaso: dalla Russia di Putin alla Turchia di Erdoğan ma anche l’Iran e gli Stati Uniti. Un bel libro capace di spiegare al lettore il perché dell’importanza di una regione, il Nagorno Karabakh, sprovvisto di risorse naturali ma strategicamente molto importante.
Intervista con l’autore.
Il titolo richiama la famosa espressione che Rudyard Kipling utilizzò per descrivere la contrapposizione tra Gran Bretagna e Russia in Medio Oriente durante il XIX secolo, ma chi sono gli attori protagonisti nel “Grande gioco del Caucaso”?
“Il richiamo è, ovviamente, voluto perché – con tutte le ovvie differenze – all’indomani della dissoluzione dell’Unione Sovietica nel Caucaso si è sviluppata una competizione tra potenze che nulla ha da invidiare a quella che ha caratterizzato il XIX secolo.
Da un lato la Russia ha cercato di mantenere un’influenza determinante nel Caucaso meridionale diventato indipendente, per ovvi motivi: sicurezza, controllo indiretto delle reti e delle fonti energetiche, ripercussioni che una modifica degli equilibri nella regione può avere all’interno della stessa Federazione. È bene non dimenticare, infatti, che il Caucaso settentrionale è parte integrante dello stato russo e non è certo una delle sue aree più tranquille: il caso Cecenia è lì a dimostrarlo. D’altro canto, il crollo di un assetto durato settant’anni e la nascita di tre nuovi stati nel Caucaso meridionale hanno aperto un campo d’azione a potenze ansiose di penetrare nell’ex spazio sovietico. Ad iniziare, ovviamente, dagli Stati Uniti. Ma non solo: anche Paesi come la Gran Bretagna e la stessa Italia hanno intessuto solidi rapporti, ad esempio, con l’Azerbaigian, produttore ed esportatore di gas e petrolio. C’è poi il ruolo crescente della Turchia, impegnata a ricostruire uno spazio neo-ottomano – o panturco, in una visione probabilmente più corretta – che nei Paesi ex sovietici dell’Asia centrale vede un’area di influenza e penetrazione naturale, oltre che strategica in considerazione della presenza di grandi risorse energetiche.
A questi attori se ne devono aggiungere, poi, almeno altri due che, seppur in posizione più discreta, osservano con attenzione cosa accade nella regione: l’Iran – abitato nelle sue regioni settentrionali da una cospicua minoranza azera – e la Cina, intenta a costruire le sue linee di penetrazione commerciale – e non solo – verso occidente. Ecco, per le sue ricchezze energetiche – le riserve del Caspio in particolare – e per la sua posizione di elemento di congiunzione tra Europa ed Asia, il Caucaso resta uno degli snodi su cui si concentra l’attenzione di potenze mondiali e regionali, in un intreccio di rapporti non sempre lineare.
La recente guerra nel Nagorno-Karabakh (2020) ha parzialmente riacceso i riflettori su un conflitto che era stato “dimenticato” per tanti anni. Può brevemente riannodare i fili e descriverci quali sono le motivazioni che hanno portato allo scontro?
“Le origini del conflitto sono secolari, in quanto quelle terre sono un limes lungo cui per secoli si sono scontrati imperi e civiltà. Per limitarci alla contemporaneità, possiamo individuare le radici del conflitto tra armeni ed azeri nella disinvolta politica delle nazionalità di epoca sovietica, quando l’inclusione di regioni e distretti abitati da gruppi nazionali diversi da quello dominante nella Repubblica federata era utilizzata strumento di controllo. L’inserimento del Nagorno Karabakh a maggioranza armena nella Repubblica Socialista Sovietica dell’Azerbaigian risponde a questa logica ed ha numerosi corrispettivi nel periodo sovietico. Al momento della caotica dissoluzione dell’Urss il nodo si rivela impossibile da sciogliere pacificamente: le deliberazioni del soviet del Nagorno Karabakh per l’unione con l’Armenia – precedenti la fine dell’Urss – restano lettera morta, a Mosca si preferisce non dare corpo a queste rivendicazioni nel tentativo di non turbare ulteriormente il traballante equilibrio interno.
Al momento dell’indipendenza di Armenia, Georgia ed Azerbaigian il conflitto diventa, di fatto, inevitabile. Del resto già negli ultimi anni di vita dell’Urss violenze e scontri sanguinosi avvelenano i rapporti tra armeni ed azeri. Con l’inevitabile corollario di reciproche accuse.”
Quanto è stato determinante il supporto militare e strategico turco all’Azerbaijan per poter vincere la guerra?
“È stato fondamentale. Soprattutto perché ha fornito all’esercito ed all’aviazione di Baku una moderna dottrina d’impiego delle forze. Fino ad allora, infatti, la grande superiorità azera in uomini, mezzi e risorse si era sempre infranta contro il migliore addestramento e la più forte motivazione delle truppe armene. Che, per inciso, nel corso dell’ultima guerra hanno pagato caro il mancato aggiornamento della dottrina d’impiego.
Più che la fornitura di armi – ad iniziare dai celebri droni d’attacco Bayraktar TB 2 – è stato questo il contributo determinante di Ankara. Del resto durante la guerra molti “consiglieri” turchi erano sul campo insieme alle forze azere.
E quale è stato il ruolo della Russia nella vicenda?
Mosca è impegnata in un difficile esercizio di equilibrismo: il Cremlino non può perdere né l’Armenia, né l’Azerbaigian. A quest’ultimo lo uniscono solidi rapporti economici e commerciali e, soprattutto, Mosca sa bene che una rottura con Baku lascerebbe campo libero agli Stati Uniti ed ai Paesi occidentali, ipotesi da scongiurare a tutti i costi. Con l’Armenia c’è un rapporto storico, una vicinanza profonda che rafforza un legame politico e strategico importante per la Russia. In territorio armeno, inoltre, la Russia ha basi militari cui certo non intende rinunciare. Ecco, dunque, che Mosca cerca una difficile mediazione tra le parti. Prova ne è che si deve alla diplomazia russa il raggiungimento del cessate il fuoco nel novembre 2020 e russi sono i militari impegnati nella missione di peacekeeping in Nagorno Karabakh.”
La politica “neo-ottomana” di Erdoğan lungo quali direttrici si articola?
“La Turchia di Erdoğan, in una sostanziale continuità di visione geopolitica con la Repubblica nata dopo la Grande Guerra, punta a superare i soffocanti confini della penisola anatolica. E lo fa riscoprendo – come detto – i legami con i Paesi turcofoni dell’Asia centrale e, soprattutto, proiettandosi verso il Mediterraneo centrale.
La posizione a favore della soluzione dei due stati a Cipro – dunque con il riconoscimento della repubblica turca del nord -, gli accordi per la delimitazione della Zee con la Libia, il sostegno fornito al governo di Tripoli, sono tutti elementi che concorrono a rafforzare la posizione turca nel Mediterraneo. E che in Italia si sottovalutano colpevolmente, ma questa è altra storia. Come se non bastasse Ankara si proietta oltre il mare di mezzo: nel Corno d’Africa – nelle ex colonie italiane in particolare – la Turchia lavora con investimenti nelle infrastrutture strategiche come porti ed aeroporti e rafforza la sua presenza militare, anche con missioni di addestramento delle forze armate locali.
Insomma, quella di Erdoğan è una visione strategica di ampio respiro, portata avanti con spregiudicatezza: la Turchia, ad esempio, è membro della Nato, ma si guarda bene dall’applicare le sanzioni alla Russia, con cui gestisce dossier delicati come quelli siriano, libico, caucasico.”
L’Italia (ma anche l’Europa) sembra essere completamente assente in questa partita. Scelta strategica per mantenere una sostanziale equidistanza e salvaguardare i rapporti con i due paesi coinvolti o una manifesta incapacità di dire la nostra sui dossier importanti?
“Un po’ di tutte e due le cose. A dispetto dell’antico rapporto con il mondo armeno, l’Italia ha solidi legami economico-commerciali con l’Azerbaigian: dai suoi giacimenti del Caspio arriva il gas – la famosa Tap altro non è che un gasdotto che parte da quella regione -, mentre a Baku l’industria militare tricolore vende aerei ed armamenti. Con tutta probabilità questi interessi – legittimi, per carità – hanno contribuito ad aumentare la tradizionale “distrazione” italiana verso la politica estera. Del resto se Roma perde spazio in Paesi tradizionalmente vicini – dalla Libia alla Somalia – come si può pensare che focalizzi il suo interesse sul lontano e quasi sconosciuto Nagorno Karabakh?
Quanto all’Unione Europea che dire, ancora una volta non riesce ad andare oltre generiche prese di posizione in favore di una soluzione diplomatica della questione. L’apporto concreto, però, è di fatto nullo.
Una volta di più è evidente che quando sono in gioco interessi strategici – nel campo energetico, in questo caso – ogni Paese gioca la sua propria partita, con buona pace dello spirito comunitario.
Può darci un quadro geopolitico e geostrategico del Caucaso all’interno dell’attuale scenario di guerra in Ucraina?
“Si potrebbe quasi dire che il Caucaso è stato lo scenario che ha fatto da modello alla crisi ucraina. Se si guarda a quanto accaduto in Georgia nel periodo compreso tra la “rivoluzione delle rose” e l’intervento russo del 2008 è difficile non cogliere degli elementi – quelli fondamentali – che si ritrovano puntualmente nelle vicende odierne. Del resto sarebbe impossibile altrimenti: le esigenze geopolitiche di un Paese e le linee d’azione che da esse scaturiscono non cambiano nel breve periodo. Soprattutto se questo Paese, come la Russia, si percepisce potenza globale. Gli effetti della crisi ucraina sono potenzialmente devastanti per l’equilibrio del Caucaso e lo dimostra il comportamento azero di questi ultimi giorni: interruzione delle forniture di gas all’Artsakh (l’unica condotta passa in territorio oggi controllato da Baku), occupazione di un villaggio oltre la linea di contatto in violazione del cessate il fuoco. Occupazione che ha portato ad una vera e propria battaglia con gli armeni. L’impressione è che il presidente azero Aliyev voglia cogliere l’opportunità offerta dalla guerra in Ucraina per provare a chiudere la partita definitivamente, perché – come ha più volte sottolineato – l’unico obiettivo dell’Azerbaigian è la riconquista integrale del Nagorno Karabakh. Quanto uno scenario simile preoccupi i Paesi più attenti alla vicenda, lo conferma anche l’esito dell’incontro tra Macron ed Erdoğan: il presidente francese e quello turco hanno ribadito l’impegno ad evitare la destabilizzazione del Caucaso. Che, evidentemente, in questo momento non gioverebbe neanche alla Turchia. Oltre che, naturalmente, alla Russia. Il problema, però, resta: cosa fare del Nagorno Karabakh? È veramente possibile – dopo trent’anni di guerra – immaginare l’inserimento della regione armena all’interno dell’Azerbaigian, salvo contemplare la possibilità di un trasferimento più o meno coatto della popolazione in Armenia? Se all’inizio della crisi il modello Alto Adige/Südtirol poteva essere un riferimento interessante (magari adeguatamente sostenuto dalla diplomazia italiana), forse oggi siamo fuori tempo massimo per una soluzione di questo tipo. È evidente che il lavoro del Gruppo di Minsk in oltre trent’anni abbia prodotto il proverbiale topolino. Forse è arrivato il momento di prendere in considerazione altre soluzioni, cui del resto si è già fatto ricorso: ogni riferimento al caso Kossovo è voluto. Soprattutto in un momento in cui anche un’eventuale divisione consensuale della Bosnia non è più un tabù per la diplomazia europea (vedasi il non paper sloveno).
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Foto copertina: Copertina libro Il grande gioco del Caucaso