“In perfetto Stato” di Diego Giannone è un testo in grado di affrontare l’enorme complessità del moderno contesto socio-economico globale in maniera chiara e brillante grazie ad una profonda analisi di determinati fattori che hanno inciso direttamente sulla natura e sul ruolo dell’autorità statale.
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Negli ultimi decenni lo Stato ha attraverso una fase di autentica trasformazione dalla quale è uscito con funzioni e obiettivi molto diversi rispetto al passato. Questo fenomeno lo ha portato ad essere al tempo stesso soggetto e oggetto di un processo in continuo divenire e di adattamento a nuovi principi mutuati dal settore privato quali l’efficienza, l’innovazione e la logica della competizione. Una dinamica che per la sua pervasività incide su ogni aspetto della vita interna allo Stato, dalla sua governance fino ai rapporti tra e con i singoli cittadini, senza escludere la dimensione sovranazionale.
In altre parole, con un costante processo “trans-scalare” questi principi tipici della costruzione neoliberale si diffondono ad ogni livello fino a venirne assorbiti, giustificando scelte politiche ed economiche che riscrivono le coordinate della coesistenza sociale e promuovendo un’idea di libertà saldamente legata alla dimensione economica.
Un ruolo fondamentale in questa trasformazione è ricoperto dalla valutazione delle azioni statali, che (in)direttamente ne condizionano l’operato.
L’autore mostra come attraverso queste dinamiche lo Stato tenda a neoliberalizzarsi in un mondo dominato dagli indicatori globali e dal loro enorme peso politico, economico e mediatico. Questi, sfruttando un’apparente e distaccata neutralità tecnica, contribuiscono a ridefinire in maniera “politica” lo spazio e le condizioni in cui gli Stati si muovono. Secondo il Prof. Giannone quindi, per essere in perfetto stato occorre che gli stessi, loro malgrado, si adattino a politiche e programmi miranti all’ideale appunto di perfetto Stato, in un’ottica puramente neoliberale.
Professore, sin dalle prime pagine del testo si prova a dimostrare come, attraverso determinati passaggi politici ed economici, si sia affermata, da circa quattro decenni, una “ragione del mondo neoliberale”. In questo processo, un elemento fondamentale è lo Stato, al tempo stesso oggetto e strumento della trasformazione neoliberale. Può spiegare cosa intende per “Stato neoliberale” e qual è la tesi di fondo del volume? E perché in questa trasformazione gli strumenti di valutazione assumono un ruolo decisivo?
L’idea di fondo del testo è provare a spiegare le ragioni del successo di una specifica formazione statale, lo Stato neoliberale, individuando negli strumenti e nei dispositivi di misurazione delle performance statali uno dei meccanismi chiave di legittimazione di tale successo. Partiamo da una premessa: nella sua forma pura, lo Stato neoliberale non esiste. Esso è un idealtipo, le cui caratteristiche principali è però importante ricostruire per comprendere verso quale modello si muovono (o sono spinti a muoversi) gli Stati realmente esistenti, almeno a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. Sgombrando il campo anzitutto da un equivoco: che lo Stato immaginato dai neoliberali sia uno Stato debole, non interventista, con funzioni residuali. Si tratta invece di uno Stato forte, ma limitato, con un ruolo fondamentale nella creazione, protezione e promozione dei mercati. Forte indica sia che esso mantiene importanti prerogative (si pensi al comparto della sicurezza), ma anche che in esso deve delinearsi una trasformazione istituzionale che tenda a favorire gli esecutivi a discapito delle assemblee legislative, e i leader a discapito degli organi collegiali. Esso è invece limitato nelle sue funzioni sociali e nella implementazione di alcune politiche economiche: le prime, tipiche del welfare state, devono essere ridotte al minimo, attraverso privatizzazioni su ampia scala e riduzione della spesa sociale, le seconde (si pensi alla politica monetaria, ma anche alla definizione della politica di bilancio) devono passare a organi terzi, come la BCE, e dunque separate da qualsiasi vincolo di legittimità democratica.
Il compito dello Stato non è, come riteneva Keynes, quello di assicurare un equilibrio tra domanda e offerta, ma quello di assicurare il funzionamento dei meccanismi della competizione. Esso deve garantire un ordine della competizione e la diffusione del modello dell’impresa a tutti gli ambiti sociali e organizzativi. Alla solidarietà e alla giustizia distributiva dello Stato del welfare, lo Stato neoliberale tende a sostituire la concorrenza e la giustizia di mercato.
Le quali non sono però il prodotto di un ordine spontaneo, un dato di natura, ma vanno artificialmente create, sono il prodotto di una storia e di una costruzione politica. Questa costruzione politica passa anche attraverso l’utilizzo di strumenti di misurazione delle performance statali che ne attestano il “corretto funzionamento”.
Si tratta, come scrivo nel libro, di forme depoliticizzate di trasformazione dello Stato, perché mascherano dietro l’apparente scientificità del processo di valutazione e la neutralità tecnica degli indicatori vere e proprie “agende politiche”.
La neoliberalizzazione dello Stato, vale a dire il processo attraverso cui i vari Paesi confluiscono, seppure in maniera disomogenea, verso una configurazione statale basata sull’assunto della centralità del modello dell’impresa e della logica della competizione, è un fenomeno altamente politico, mascherato dalla neutralità tecnica degli indicatori.
Ora, naturalmente, si aprirà un importante dibattito sulla tenuta di questo modello di fronte alla crisi che stiamo attraversando. Le politiche messe in campo dai vari governi potrebbero far pensare a una inversione di rotta, a una frattura e a una possibile ricomposizione verso una formazione statale nuova. Sarei molto cauto su questo. Prima di arrivare a ottimistiche conclusioni circa una crisi irreversibile del neoliberalismo, sarà il caso di aspettare per capire come verrà gestita, nell’ordinario, la crisi, quali risposte in termini di policies verranno implementate al di là di questa fase emergenziale, verso che tipo di configurazione inter-istituzionale verranno indirizzate le nostre democrazie, già martoriate da un trentennio di neoliberalizzazione. Quel che è accaduto con la crisi del 2008 è ancora sotto gli occhi di tutti: una crisi del settore privato, bancaria e finanziaria, è stata trasformata in una crisi del debito sovrano, facendo accollare agli Stati, e dunque alla cittadinanza tutta, il costo della crisi attraverso politiche di austerity che hanno prodotto tagli alla spesa sociale, compressione di molti diritti, incremento della disoccupazione, impoverimento di ampi strati della popolazione. Insomma, il neoliberalismo come progetto di classe da quella crisi è uscito addirittura rafforzato. La crisi è un momento importante non solo per immaginare scenari alternativi, ma anche per cominciare a praticarli, per “rendere realizzabile – per riprendere le parole di Mark Fisher – ciò che fino a ieri appariva impossibile”, per mettere in atto una radicale rimessa in discussione del capitalismo.
Per spiegare il successo del neoliberalismo che ha portato lo Stato dall’essere soggetto valutatore a soggetto valutato, avvicinandolo al perfetto Stato neoliberale, si fanno interagire Gramsci e Foucault. Due prospettive diverse ma che integrate servono a spiegare come un pensiero ideologico egemonico possa legarsi alla governamentalità, cioè a una nuova modalità di governo a distanza delle persone fondata sul principio di competizione diffuso in ogni ambito sociale. Alla luce di queste considerazioni, quanto negli ultimi quattro decenni è cambiato il modo in cui l’uomo vede se stesso e il proprio simile?
Per scrivere questo libro e indagare le trasformazioni dello Stato nel corso degli ultimi quattro decenni, mi sono posto sulle spalle di due giganti: Antonio Gramsci e Michel Foucault. Due autori che, da prospettive diverse e sulla base di una diversa concezione del potere, ho provato pragmaticamente a far interagire e dialogare. Ne è venuto fuori che la trasformazione neoliberale dello Stato può essere meglio intesa e interpretata se la consideriamo da una duplice prospettiva: essa è sia un progetto di classe, messo in atto dalle élite economiche globali a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, sia un processo di progressiva estensione e diffusione di una nuova razionalità politica, quella neoliberale appunto. Per spiegare questo passaggio, nel libro parlo di potere di classe e potere di classificazione e mi soffermo sulla funzione svolta dalla valutazione per promuovere e legittimare “scientificamente” questa trasformazione. Gli indicatori e gli indici globali che si utilizzano per valutare lo Stato (pensiamo, solo a titolo di esempio, al ruolo delle agenzie di rating, che attraverso i loro giudizi certificano i livelli di affidabilità dei singoli Stati, ma esistono oltre duecento iniziative globali volte a misurare ogni aspetto delle performance statali) non sono semplici fotografie della realtà. Al di là della apparente scientificità di un indice o una classifica, essi non sono neutri, ma politicamente determinati e carichi di valore. Prendiamo ad esempio, l’Indice di Competitività degli Stati. La mia domanda è: perché si misura la competitività e non la solidarietà degli Stati? Come la si misura? Cosa rende uno Stato più competitivo? Se si analizzano gli indicatori di cui è composto quell’indice si scopre che uno Stato è più competitivo quando favorisce la propensione al rischio dei suoi cittadini, quando garantisce alle imprese la libertà di licenziare, quando riduce il carico fiscale sulle imprese, ecc. Questo quadro è politicamente determinato perché parte una specifica concezione della società, dell’economia, dei rapporti di forza tra le classi sociali. Gli indicatori descrivono e prescrivono: indicano quali sono gli stati virtuosi e quali i viziosi, quali i meritevoli e quali le “pecore nere”. Attraverso la classifica marchiano, come uno stigma, i soggetti valutati, incitandolo a migliorare, ad essere in perfetto Stato. Perfetto, beninteso, secondo le prescrizioni dell’indicatore. Qui entra in gioco Gramsci. Applicare la prospettiva gramsciana al problema degli indicatori significa ricondurre il predominio di alcuni temi rispetto ad altri (perché si misura la competitività degli Stati e non la solidarietà, perché libertà economica più dell’eguaglianza sociale?), la diffusione e il successo di alcuni strumenti di misurazione e la selezione di specifici indicatori atti a quantificare tali temi, ai rapporti di forza esistenti tra le classi in un dato contesto storico-politico. Una classe che, da dominante (o dominata), voglia farsi egemonica deve saper operare non solo sul terreno delle condizioni economico-materiali, ma su quello ideologico e culturale di una riforma intellettuale e morale, che includa una trasformazione nei modi di pensare e nei metodi di conoscenza. E cosa sono gli strumenti di misurazione se non i metodi che consentono, in forma semplificata e carica di valore, di conoscere la realtà e di orientarsi verso di essa? Se in un dato momento storico i rapporti di forza sono favorevoli a una certa classe, essa sarà in grado di imporre determinati temi e fornirà anche le coordinate valoriali con cui quei temi dovranno essere inquadrati, pensati, misurati. Rispondendo a questa precisa domanda, nasceranno strumenti di misurazione atti a rendere quantificabili (e quindi, in un’ottica neopositivistica, meglio conoscibili) quei temi e, tra questi strumenti, emergeranno quelli in grado di incorporare meglio i valori del gruppo dominante. Sfruttando l’apparente oggettività e apoliticità del processo di misurazione, i temi e i valori del gruppo dominante potranno così diffondersi a tutta la società, diventeranno “senso comune”, sfuggiranno a ogni tentativo di contestualizzazione storico-politica. In breve, si naturalizzeranno.
Lungi dall’essere un processo ideologicamente neutro, lo sviluppo di pratiche di valutazione è un fenomeno politicamente guidato, favorito e promosso da specifici portatori di interesse che, sulla base di un insieme potente di argomentazioni, hanno enfatizzato i benefici dell’affermazione di una nuova modalità di conoscenza. In questo contesto, la selezione degli indicatori risponde, gramscianamente, all’affermazione egemonica dei valori della classe dominante e la diffusione e il successo di specifici indici di misurazione sono anch’essi il frutto di questo rapporto di classe. Il potere degli indici è, invece, foucaultianamente, governamentale: essi predispongono delle alternative di azione per i soggetti valutati, facendo apparire alcune di esse come preferibili ad altre. In tal modo essi, pur preservando la formale libertà dei soggetti valutati (che è anzi premessa indispensabile della stessa valutazione), di fatto conducono a distanza i comportamenti spingendoli alla conformità col modello desiderato.
L’UE viene presentata come modello di macchina per la neoliberalizzazione trans-scalare. Quest’ultimo concetto risulta molto interessante perché consente di comprendere la profondità con la quale la “nuova ragione del mondo” penetra in ogni livello della società, dalle politiche di Bruxelles sino all’esistenza del singolo individuo, passando per lo Stato membro di appartenenza. Tuttavia sono proprio i vertici europei che negli ultimi anni vengono aspramente contestati dai movimenti sovranisti, con l’accusa di mettere al primo posto i bilanci e non i bisogni reali dei cittadini. Per ridurre questo gap è ipotizzabile un cambio di rotta di questa macchina trans-scalare, o la direzione intrapresa è irreversibile?
Vorrei citare, per provare a rispondere alla sua domanda, le parole di Etienne Balibar, che in una recente intervista ha detto in maniera molto netta: “O l’Europa si reinventa come un progetto di solidarietà materiale tra i popoli oppure si squalifica e esplode, cosa che avrà conseguenze drammatiche, poiché nessun paese può farcela da solo, nemmeno i più «prosperi»”. È così. Non vedo spazi di manovra su questo: o si realizza una radicale inversione di rotta, oppure il progetto europeo imploderà sotto la spinta di un miscuglio micidiale fatto di sovranismo, populismo e tecnocrazia neoliberale.
Io credo che nessun processo sia irreversibile, ma sono anche convinto che un radicale processo di cambiamento dell’Unione Europea possa realizzarsi solo partendo da una modificazione delle condizioni materiali e della struttura dei rapporti sociali interni ai vari Stati e tra i vari Stati. Nessuna decisione politica calata dall’alto potrà invertire la rotta, perché vi sono condizioni strutturali (legate alla stipula dei trattati, alle asimmetrie di potere che si sono generate tra i vari Stati, alle difficoltà tecniche di modificare il percorso intrapreso, dove spesso le decisioni più importanti devono essere assunte all’unanimità) che rendono impraticabile tale soluzione.
L’Unione Europea nata a Maastricht si è rivelata un progetto politico di classe. Vorrei ricordare, a questo proposito, quel che annotò nel suo diario Guido Carli, firmatario del Trattato per il nostro Paese, a commento di tale importante passaggio: “L’Unione europea implica la concezione dello ‘Stato minimo’, l’abbandono dell’economia mista, l’abbandono della programmazione economica, la ridefinizione delle modalità di composizione della spesa, una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari e aumenti quelle dei governi, l’autonomia impositiva per gli enti locali, il ripudio del principio della gratuità diffusa (con la conseguente riforma della sanità e del sistema previdenziale), l’abolizione della scala mobile, la drastica riduzione delle aree di privilegio, la mobilità dei fattori produttivi, la riduzione della presenza dello Stato nel sistema del credito e dell’industria, l’abbandono di comportamenti inflazionistici […]. In una parola: un nuovo patto tra Stato e cittadini, a favore di quest’ultimi”. Ecco, su queste ultime parole, sfido chiunque a dire che questo patto abbia comportato più vantaggi che oneri per i cittadini. Ma, a parte questo, dal brano emerge con chiarezza quale progetto politico avessero in mente le classi dirigenti dell’epoca: è quella “UE come macchina per la neoliberalizzazione” di cui parlo nel libro e di cui, molto meglio di me, parla Wolfgang Streeck in un volume di qualche anno fa. L’Unione è un regime di governance sovraordinato che, attraverso modalità depoliticizzate (gli esperti di Bruxelles, il ruolo di istituzioni non-maggioritarie, come la BCE, la funzione legale e disciplinare dei trattati), disciplina gli Stati all’ “ordine della competizione”. Questo “ordine della competizione”, che è un concetto tipico dell’ordoliberalismo tedesco, deve essere diffuso e promosso a tutti i livelli istituzionali e territoriali: su questo la Commissione vigila attentamente attraverso l’utilizzo di specifici strumenti di misurazione, come ad esempio il Regional Competitiveness Index che analizzo nel libro. Come vuole che Stati messi in competizione tra di loro siano poi in grado di fare della solidarietà la norma sovrana? Anche di fronte a una crisi esogena e simmetrica come quella legata alla pandemia, alla fine si è agito in ordine sparso senza la forza né la volontà comune di mettere in atto quelle “misure eccezionali per tempi eccezionali” che perfino il Fondo Monetario Internazionale ha proposto di implementare. Io credo che, se non si vuol lasciare ai populisti e ai nazionalisti di destra il monopolio della critica all’Ue, con il rischio di ritrovarci di qui a qualche anno dieci governi Orbán sparsi per il continente, si deve avere il coraggio e l’onestà intellettuale, soprattutto in certi ambienti della sinistra, di riconoscere che l’Unione, così come è oggi, non funziona. Riformarla, rottamarla, cambiarla radicalmente? Sono formule che vanno riempite di contenuti, di progetti politici radicati in una determinata concezione della società. Non ci sono, ovviamente, facili ricette. Sono convinto, però, che l’inversione di rotta non possa, né debba, condurci a un nuovo statocentrismo. Il problema è europeo, la soluzione deve essere europea. Lo Stato, al più, dovrà essere un mezzo, non l’obiettivo da raggiungere, che deve essere quello di una Unione solidale, per la cui realizzazione, ripeto, bisogna assumere come terreno di lotta i rapporti di forza tra classi dentro e tra gli Stati.
Nel testo è ripresa la “teoria del sovraccarico” del 1975, che col senno di poi fu quasi profetica. La democrazia occidentale è affannata dal peso dei diritti che deve garantire (istruzione, salute, pensioni, assistenza ecc.) e molti paesi sono vittime di perenne instabilità politica. Nel frattempo, cresce il fascino di modelli come quelli russo e cinese che in cambio delle garanzie fondamentali (che contraddistinguono l’ordine mondiale liberale) offrono un’oggettiva supremazia militare o economica. Ispirarsi anche solo in parte a questi modelli di governance potrebbe rendere più solida la democrazia occidentale? O il rischio è aprire le porte (si veda il caso Orbán) a nuove potenziali forme di dittatura?
Il Rapporto alla Commissione Trilaterale, pubblicato nel 1975, credo costituisca un vero e proprio spartiacque politico e culturale dal momento che contribuì a ridefinire le modalità con cui la politica e l’opinione pubblica guardavano allo Stato, alla funzione pubblica, alla democrazia, all’autorità. A differenza di altre interpretazioni della crisi degli anni Settanta il report ebbe una diffusione e un impatto enorme nei circuiti politico-mediatici dell’epoca. In breve, la tesi degli estensori del Rapporto – Michel Crozier, Samuel P. Huntington e Joji Watanuki – era che le cause della crisi della democrazia e dello Stato fossero da ricondurre ai movimenti di lotta e di emancipazione degli anni Sessanta (le lotte operaie, i movimenti studenteschi e, negli Stati Uniti, il movimento per i diritti civili degli afroamericani), che avrebbero prodotto una ingovernabilità delle democrazie occidentali. Le ragioni di questa ingovernabilità erano da ricercare nella combinazione di due fenomeni, entrambi riconducibili a quei movimenti: un incremento delle domande del corpo sociale a cui il governo non riusciva a far fronte – il sovraccarico a cui lei faceva riferimento nella sua domanda – e la radicale rimessa in discussione del concetto stesso di autorità (politica, militare, religiosa, scolastica, patriarcale), che si traduceva in un rifiuto di legittimità per l’autorità politica. La spinta alla partecipazione, e dunque a una concezione più inclusiva della democrazia, si traduceva, secondo gli autori, in una “minaccia di entropia” per i regimi democratici, che invece, per riprendere a funzionare, avrebbero necessitato di una maggiore “dose di apatia” da parte dei cittadini e di un “maggior grado di moderazione”. Le indicazioni fornite dal Rapporto per uscire dalla crisi sono, a mio avviso, ancora più inquietanti se le rapportiamo a quanto sarebbe poi avvenuto a partire dai primi anni Ottanta nella trasformazione dello Stato e della democrazia. Ricordo le tre più importanti.
1) Il problema del sovraccarico poteva essere fronteggiato soltanto limitando le pretese di tutti i gruppi sociali. Occorreva, quindi, ridurre le aspettative di tutti i cittadini, trattati artificiosamente come un corpo omogeneo (“siamo tutti sulla stessa barca”, le ricorda qualcosa?) che produce le stesse richieste (di salute, di istruzione, di lavoro) e, soprattutto, necessita delle stesse prestazioni da parte dello Stato. Eppure, sembra evidente che, nel momento in cui lo Stato non si fa più carico di queste aspettative, le conseguenze non si distribuiscono affatto in maniera omogenea sul corpo sociale. Lo vediamo bene oggi, quando una sanità pubblica devastata da decenni di tagli e di privatizzazioni si trova ad affrontare una crisi senza precedenti che non ci vede affatto (come spesso ci sentiamo ripetere) “tutti sulla stessa barca”: perché la crisi sanitaria, economica, psicologica e sociale colpisce anzitutto i più deboli, i più poveri, gli emarginati, i “senza diritto”. Nel momento in cui abbiamo consentito che, benché rispondessero a diritti costituzionalmente garantiti, la salute, l’istruzione e il lavoro divenissero variabili dipendenti dalle necessità del ciclo economico (la ragione per cui si fa fatica a reperire le mascherine è semplicemente legata al fatto che non solo abbiamo rinunciato a quello che i francesi chiamano l’État-Providence, il cui compito è anche di prevedere simili situazioni di necessità, ma che abbiamo poi relegato la loro produzione al mercato, il quale, in assenza di domanda, naturalmente non produce un bene che prevede di non vendere), abbiamo spalancato le porte a una concezione della democrazia perlomeno “ristretta”, in cui i diritti sono divenuti prestazioni, privilegi o merce.
2) La questione dell’autorità. La rilegittimazione dell’autorità, la cui messa in discussione era stata un lascito importante del ’68, costituisce il secondo importante tassello della proposta di questi teorici. Per sgombrare il campo dall’equivoco di un ipotetico smantellamento dello Stato, essi ribadiscono che l’obiettivo è “riportare l’ago della bilancia sul versante dell’autorità”: vi è la necessità di uno Stato forte, che sia in grado di decidere in maniera efficace. Quello che doveva essere smantellato era lo Stato sociale, nella sua dimensione solidaristica e redistributiva, non lo Stato in quanto tale. E una dimostrazione lampante la si ebbe alcuni anni più tardi, quando Ronald Reagan, dopo aver annunciato nel suo discorso di insediamento del 20 gennaio 1981 che “nella crisi che viviamo, lo Stato non è la soluzione ai problemi, lo Stato è il problema”, ha poi incrementato nel corso dei suoi mandati il budget federale per la Difesa del 36%.
3) La questione della democrazia è strettamente associata a quella dell’autorità. Rafforzare l’autorità dello Stato non significa affatto, per questi studiosi, rafforzarne le caratteristiche democratiche. Anzi, il rivolgimento teorico più importante è la relativizzazione della pretesa portata universalistica della democrazia. “La democrazia – scrivono nel Rapporto – non è che un modo di costituzione dell’autorità, e non è detto che possa essere applicato universalmente. In molte situazioni, le esigenze di competenza [expertise nel testo originario], di anzianità, di esperienza e di particolari capacità possono avere la precedenza sulle esigenze di democrazia in quanto modo di costituzione dell’autorità”. Al ridimensionamento della democrazia quale metodo di legittimazione dei decisori si affianca la legittimazione della tecnocrazia, del governo di coloro che sono legittimati a decidere sulla base di un principio di competenza e non di un mandato popolare.
Come vede, i più importanti elementi di crisi delle democrazie liberali sono già tutti presenti a partire dagli anni Settanta. E l’ascesa sul piano globale di potenze nuove che rimandano esplicitamente al mittente l’ideale liberaldemocratico (vedi l’intervista di Vladimir Putin al Financial Times della scorsa estate) non fa che complicare un quadro di per sé già molto complesso. Dovessi risponderle in una formula, direi che quello russo e quello cinese non possono, a mio avviso, essere considerati come “modelli alternativi” a cui ispirarsi, anzitutto perché parliamo di regimi non democratici. In un regime autoritario o totalitario le decisioni non vanno condivise, né spiegate o concordate: non devono essere il frutto della discussione pubblica. Il mito efficientista di questi regimi nasce anche da questo accentramento verticistico del momento decisionale, che garantisce in genere una capacità di risposta più rapida ed efficace alle crisi o alle richieste proveniente dal mondo economico. I tempi della democrazia sono diversi: la democrazia necessita di procedure, di discussione pubblica, di regole condivise, di corpi intermedi in grado di incanalare il conflitto e alimentare la rappresentanza. Le democrazie sono in affanno anche perché stentano a trovare un equilibrio tra questi loro fattori costitutivi e le pressioni esterne che chiedono invece risposte efficaci e immediate. La accresciuta centralità dei leader e degli organi monocratici (vedi la centralità del Presidente del Consiglio nella fase attuale o l’aumento del ricorso alla decretazione d’urgenza registratosi a partire dagli anni Novanta), oltre a non essere una caratteristica specifica della crisi che attraversiamo, dal momento che affonda le radici in processi di più lungo periodo legati alla mediatizzazione e alla presidenzializzazione della politica, può e deve essere letta anche come un tentativo, molto spesso scomposto, della politica democratica stessa di rispondere efficacemente alle pressioni che le arrivano dall’economia, dai nuovi media, dal popolo e, perché no, dalla competizione internazionale con regimi non democratici. I tempi della democrazia e quelli dell’economia si dissociano; le nuove tecnologie accorciano le distanze spazio-temporali e accelerano i processi; il popolo, insoddisfatto, chiede risposte immediate; i regimi autoritari, nel confronto, sembra essere più in grado di darle. Alla democrazia mediata, strutturata sui corpi intermedi, come i partiti e le organizzazioni sindacali, si sostituisce una democrazia immediata (nei tempi) e disintermediata (nel funzionamento), nella quale i guadagni (presunti) in efficienza vengono scambiati con perdite (certe) di democraticità. Di questo occorre essere consapevoli.
Sin dall’inizio dell’attuale emergenza dovuta al coronavirus il pubblico ha imparato a familiarizzare con statistiche quotidiane, curve dei contagi, classifiche dei paesi più colpiti, casistiche sui decessi e continui paragoni tra diversi sistemi sanitari, anche tra singole regioni italiane. Queste dinamiche possono contribuire in qualche modo a diffondere ancora di più la logica del metric power anche ai livelli più “bassi” del processo trans-scalare menzionato?
Soprattutto, spero che chiunque oggi sia consapevole che neanche le statistiche cosiddette ufficiali sono esenti da criticità e quindi portatrici di una presunta “verità scientifica” oggettiva e affidabile.
I dati diffusi quotidianamente dal bollettino della Protezione Civile ne sono la conferma, perché danno una rappresentazione molto parziale, a volte perfino distorta, della reale diffusione del contagio. E il fatto che non si sia fatto praticamente nulla per provare a ridurre questa distorsione non è imputabile solo a difficoltà tecniche. È naturalmente una scelta anche politica quella di effettuare i tamponi solo in presenza di determinate condizioni. Ma questa scelta ha poi ripercussioni sul conteggio dei contagiati “ufficiali”, innescando reazioni a catena sul piano politico, sociale, psicologico.
Oggi i numeri e le statistiche sui contagi sono al centro della battaglia politica. Non si sa quanti siano effettivamente i contagiati né quanti siano i deceduti da COVID-19. Aumentare il numero di tamponi significa far aumentare anche il numero dei contagiati “ufficiali”: per queste ragioni alcuni Paesi, ad esempio il Belgio, hanno strategicamente scelto di non sottoporre a tampone i malati in isolamento domiciliare che non presentino sintomi gravi. La cosa è avvenuta pure in Italia, anche se qui, soprattutto in Lombardia, la motivazione è stata collegata al sovraccarico cui è stato sottoposto il sistema sanitario.
Poi vi è l’anomalia tedesca: se volessimo fermarci ai dati ufficiali (con un tasso di letalità ufficiale che è, ad oggi, 3 o 4 volte più basso rispetto a quello di Italia, Francia e Regno Unito) dovremmo dedurne che i tedeschi, oltre a un sistema sanitario efficiente sul territorio e un numero elevato di terapie intensive, siano dotati di un sistema immunitario particolarmente resistente al virus. Evidentemente non è così. Il fatto è che la Germania non ha una metodologia chiara per conteggiare i casi. Secondo alcuni il dato è distorto dal fatto che la decisione finale sulle cause del decesso viene lasciata al medico curante, secondo altri dal fatto che in Germania si tende a distinguere tra morti per coronavirus e morti con coronavirus. Questo spiegherebbe almeno in parte l’anomalia del dato tedesco, ma non risolve il fatto che il problema è anche geopolitico, perché investe i rapporti tra i vari Paesi, e investe ancora una volta l’Unione Europea, che non è stata in grado di imporre una procedura standardizzata neanche sul conteggio dei morti. Anche su questo ci sarebbe molto da dire, ma magari ne potremo riparlare tra qualche mese, quando, usciti dalla fase emergenziale, capiremo se e come questi dati verranno utilizzati in chiave politica nella ridefinizione dei rapporti di potere tra gli Stati.
Diego Giannone lavora presso il Dipartimento di Scienze Politiche “Jean Monnet” dell’Università della Campania “L. Vanvitelli”, dove insegna Scienza e filosofia politica e Governance e democrazia. La sua attività di ricerca verte principalmente sulle relazioni tra neoliberalismo, crisi della democrazia e trasformazione dello Stato. Ha pubblicato diversi articoli e saggi, tra cui la monografia: La democrazia neoliberista. Concetto, misure, trasformazioni (2010).
Foto copertina: copertina libro
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