Prospettive e azzardi dell’’ex capo politico del M5S trasformatosi da grillino in professionista della politica.
«I partiti sono incrostazioni della democrazia. Bisogna dare spazio ai cittadini. Alle liste civiche. Ai movimenti. Viviamo in partitocrazia, non in democrazia» così sentenziava Beppe Grillo, futuro fondatore del Movimento 5 Stelle, dal palco del primo V-Day svoltosi a Bologna l’8 settembre del 2007.
A colpire, rileggendo 15 anni dopo questa frase, è l’ascesa così rapida di un soggetto politico che dai meetup ai primi successi elettorali con Pizzarotti eletto sindaco di Parma nel 2012, ha raggiunto il governo del Paese nel 2018, per poi altrettanto repentinamente imboccare un lento e, a quanto pare, inesorabile declino. Una parabola, quella del movimento fondato dal comico genovese e da Gianroberto Casaleggio, che ha vissuto il suo momento dirompente con l’addio di Luigi Di Maio, che qualche settimana fa ha deciso di lasciare la casa in cui ha mosso i suoi prima passi in politica e dalla quale, è riuscito ad arrivare ai livelli più alti di governo ricoprendo nel Governo Conte I anche il ruolo informale di Vice del Presidente del Consiglio.
La scissione “dimaiana” è forse l’avvenimento più delicato dopo la morte del fondatore e l’addio di Grillo alla gestione della creatura che avrebbe dovuto camminare con le proprie gambe, rifondando la politica e l’Italia.
Infatti, la fuoriuscita del capo politico ha senz’altro posto alcuni interrogativi sull’anima del movimento che, del fenomeno populista, ricorrente nella storia politica italiana, è stato senza alcun dubbio l’ultima rappresentazione in ordine di tempo. Di Maio l’ha descritta come una scelta sofferta ma necessaria per superare odio, populismi, sovranismi, personalismi, superficialità. In questo senso è impossibile non cogliere un ripensamento, peraltro condivisibile, su tutto ciò che invece ha ispirato il M5S nella stagione “barricadera” in cui le istituzioni dovevano essere aperte come scatolette di tonno e i banchi del governo venivano occupati dai nuovi sanculotti sbarcati in Parlamento. Una torsione di 360° con cui il Ministro degli Esteri ha inteso smarcarsi dal passato e compiere una scelta votata alla realpolitik ed alla responsabilità. Rispetto a queste considerazioni, è altrettanto indubitabile che nella sua precedente esperienza di uomo di lotta, Di Maio abbia contribuito ad infliggere dei colpi mortali al sistema della rappresentanza, sfruttando il pessimo stato di salute che caratterizza i partiti politici da oltre un decennio, segnati da una crisi epocale dell’antico legame con gli tra elettori e della progressiva perdita di rilevanza delle appartenenze politico-sociali, che avevano caratterizzato la sostanziale stabilità e oltreché la polarizzazione dell’elettorato italiano nel secondo dopoguerra. Insieme per il Futuro, la sigla creata dopo l’abbandono del M5S rappresenta perfettamente l’evoluzione (?) di un sistema in cui non si creano più partiti politici, oramai deprivati del necessario consenso popolare, ma gruppi parlamentari, più snelli e soprattutto più funzionali alle nuove dinamiche del potere. Da questa prospettiva, infatti, l’operazione di Lugi Di Maio, appare per il momento più come un moto di Palazzo, un esperimento tentato da alcuni parlamentari per sfuggire alle logiche restrittive sulla linea politica e sul numero dei mandati, che il M5S non garantiva sufficientemente. Che il leader della neonata formazione non abbia fatto delle valutazioni sull’appuntamento elettorale del 2023 appare improbabile e la necessità di garantire la continuità del proprio percorso politico e di coloro che hanno scelto la strada dell’addio al M5S, appare altrettanto evidente. La scissione, al di là della retorica, sembrerebbe infatti obbedire più a ragioni contingenti, legate ad ambizioni dei singoli ed il sostegno al governo in cambio di futuri dividendi politici. Resta però più di un dubbio sulle effettive capacità, stante l’attuale legge elettorale e la riduzione del numero degli eletti, di garantire la rappresentanza a Insieme per il Futuro nel prossimo parlamento. I mesi che ci separano dalle elezioni politiche del 2023 saranno fondamentali per Di Maio ed il suo gruppo, soprattutto per riuscire a comprendere quali eventuali alleanze stipulare per non fare la fine ingloriosa di altri come Mario Monti nel 2013 oppure Angelino Alfano nel 2018. Solo allora riusciremo a verificare se nel novero dei progetti mal riusciti di ricostruzione del cosiddetto “centro” politico si potrà ricomprendere anche quello di Di Maio. Già oggi però, alla luce della scissione pentastellata, è possibile constatare come non esistono forze espressioni di correnti e tradizioni culturali radicate nella storia e nella società, né tantomeno partiti organizzati sul territorio quanto piuttosto dei comitati elettorali personali perlopiù incapaci di dare un orizzonte al paese oltre che a loro stessi. Tentare di riesumare la Democrazia Cristiana 4.0, non sembra molto originale sia per le caratteristiche degli uomini (e delle donne) che la vorrebbero richiamare in vita, sia per la scarsa confidenza con i riti di una politica che non esiste più e di cui la “balena bianca” fu probabilmente la massima espressione. Un partito con un correntismo a volte esasperato che purtuttavia riuscì a resistere ai moti interni perché maggiormente attrezzata per la visione di lungo periodo. Certo è altrettanto innegabile che il Ministro lungi dall’essere uno sprovveduto si è faticosamente costruito una visione del mondo, tentando di accreditarsi in quegli ingranaggi del potere che oggigiorno si muovono sempre meno nelle aule parlamentari. Infatti, come è stato opportunamente colto «in democrazia il consenso è necessario ma solo fino a un certo punto. Quello che conta è la capacità di un politico di analizzare la scacchiera dei partiti, anticipare le dinamiche interne del proprio schieramento e posizionarsi all’interno dell’apparato istituzionale per diventare un elemento insostituibile della Macchina. Luigi Di Maio ha probabilmente imparato questa sottilissima “arte” durante l’esperienza giallo-verde perché non sempre governare un Paese significa occupare davvero il potere “reale»[1]. E da quanto affermato da Di Maio nel corso della dolorosa conferenza stampa in cui dava il suo addio al M5S è emerso proprio quanto sia importante fare tesoro dell’esperienza nelle istituzioni poiché in questo modo è stato possibile comprendere quanto fossero sbagliate alcune esperienze del passato. Ora si vedrà se in questa nuova avventura Di Maio riuscirà a capitalizzare la volontà di istituzionalizzare parte del movimento grillino e le relazioni maturate in una legislatura di governo. È la legge ferrea dell’oligarchia oppure, più semplicemente, la dimostrazione che uno non vale l’altro.
Note
[1] CAPUTO S., Farnesina: la roccaforte di Luigi Di Maio, in Dissipatio, 25/05/2021, https://bit.ly/3bB8YC8
Foto copertina: Luigi di Maio