La componente araba della società israeliana è il grande assente nel dibattito nazionale ed internazionale sulla futura fase post-conflittuale nello Stato ebraico. Una voce silente già in occasione delle proteste dilagate dall’inizio di quest’anno in Israele contro la riforma della giustizia sostenuta dal premier Benjamin Netanyahu, durante le quali il mancato riferimento alle politiche sioniste di annessione dei territori occupati ha alimentato la disillusione araba verso le istituzioni e inasprito le già radicate disuguaglianze con la maggioranza ebraica.


A cura di Valentina Chabert*

Gli arabi israeliani nello Stato ebraico

La presenza di una minoranza araba all’interno dei confini di Israele si intreccia con le dinamiche familiari di quei nuclei che, all’indomani della proclamazione della nascita dello Stato ebraico, non hanno abbandonato le proprie case, con la speranza di raggiungere, un giorno, una posizione all’interno della società e della politica israeliana quasi comparabile a quella della maggioranza ebraica.[1]
Benché la componente araba rappresenti oggi il 21% della popolazione israeliana e registri una continua crescita demografica, non si può certo affermare che le speranze delle famiglie palestinesi rimaste in Israele si siano tradotte nella realtà di una perfetta integrazione, sebbene gli arabi israeliani appartengano in ogni caso ad un contesto sociale certamente migliore di quello dei palestinesi ammassati nella striscia di Gaza, nei territori occupati della Cisgiordania o nei campi profughi al di là del confine con la Giordania. Sin dai primi istanti di convivenza le autorità israeliane hanno perseguito una politica di integrazione senza assimilazione,[2] estendendo agli arabi la possibilità di ottenere gli stessi diritti civili degli ebrei e incorporando una rappresentanza arabo-israeliana nelle istituzioni pubbliche e politiche.
Gli arabi hanno così subito una israelizzazione forzata, conformandosi ai tratti linguistici e culturali della componente ebraica nonostante siano obbligati a frequentare scuole separate, vivere in quartieri a sé stanti e spesso sovraffollati all’interno delle grandi città, ed evitare matrimoni con i concittadini di fede religiosa distinta.[3]
Una segregazione non formalmente istituzionalizzata sino al 2018, anno dell’approvazione della legge fondamentale sulla nazione la quale confermò il dominio del ceppo ebraico sulla minoranza araba, cristallizzando così una superiorità già consolidata sul piano sostanziale. Salvaguardare l’elemento maggioritario divenne per lo stato di Israele assolutamente prioritario, pena un possibile rafforzamento dei legami degli arabi israeliani residenti sul proprio territorio con i palestinesi di Gaza e Cisgiordania e la conseguente concentrazione delle proprie forze su un’eventuale ribellione interna della componente subordinata, che avrebbe distratto lo Stato dal perseguimento dei propri obiettivi su scala internazionale.[4]
Da allora, specularmente alle preoccupazioni di Israele, gli arabi israeliani si sono trovati ad impostare la propria convivenza con i concittadini ebrei secondo due tendenze opposte: da un lato, l’aspirazione a divenire parte integrante dello stato, tentando di consolidare la propria rappresentanza politica nella Knesset e assumendo ruoli via via più significativi nel tessuto economico della nazione; dall’altro, il crescente sviluppo di un sentimento di vicinanza al popolo palestinese, che implica tuttavia una pericolosa danza in equilibrio tra la preservazione della propria identità nazionale e il mantenimento dei diritti derivanti dall’appartenenza alla società israeliana.

Le proteste per la riforma della giustizia

Oltre 600.000 persone sono scese in piazza nei primi mesi di quest’anno a seguito dell’avvio dell’iter per l’approvazione della riforma della giustizia, attraverso cui il governo ultra-nazionalista di estrema destra guidato da Netanyahu mirava a ridimensionare il potere dell’apparato giudiziario e ridefinire gli equilibri di potere tra gli organi dello Stato.[5]
Nel mezzo di una delle crisi costituzionali più serie per Israele, a spiccare è stata la marginalità e la conseguente difficoltà di posizionamento della componente arabo-israeliana nelle proteste, il cui mancato coinvolgimento è da ricondurre al senso di sfiducia al limite dell’indifferenza verso le dinamiche istituzionali dello Stato, ed in particolare all’impossibilità di sostenere un movimento di piazza contrario all’erosione di una democrazia che non coinvolge tutti i cittadini del paese ma, al contrario, tende a perpetuare un regime di disuguaglianza a danno della minoranza araba. Una posizione critica non tanto nei confronti delle proteste, bensì verso l’assenza di una voce in grado di connettere la crisi attuale con le politiche di occupazione, gli insediamenti illegali e la violenza estrema contro i cittadini palestinesi della Cisgiordania, di Gerusalemme e della striscia di Gaza, veri interessati dall’eventualità dell’approvazione di una riforma dell’apparato giudiziario.[6]
A tal proposito, un più stretto controllo governativo sull’attività della Corte Suprema avrebbe esacerbato due tendenze opposte ed ugualmente presenti tanto sul territorio di Israele, quanto nelle aree occupate. Da un lato, la Corte si è caratterizzata come attore chiave nella legittimazione delle politiche di occupazione dei territori palestinesi, giustificando espropri e confische di beni in favore della componente ebraica della società.
Dall’altro lato, a prescindere dalla percentuale dei casi risolti a beneficio dei palestinesi, la stessa Corte appare ancora l’ultima istanza a cui gli arabi delle aree B e C della Cisgiordania possono fare appello contro le confische illegali di terre e gli abusi dell’esercito di Israele. Benché il legame con le politiche di occupazione illegale del governo di ultra destra di Netanyahu non sia emerso tra le cause principali delle proteste, non è tuttavia possibile ignorare il fatto che queste ultime abbiano preceduto una delle peggiori fasi di escalation di violenza nei confronti dei palestinesi dal 2005: durante i primi undici mesi del 2022,[7] le autorità israeliane si sono rese responsabili della demolizione di 851 edifici palestinesi e dello sfollamento di quasi 1000 cittadini per via della mancanza di concessioni e permessi di costruzione, che tuttavia risultano quasi impossibili da ottenere per i palestinesi.[8] Una situazione di tensione che continua a salire incessantemente e che è giunta al punto di rottura nelle scorse settimane con gli attacchi di Hamas, che indubbiamente hanno contribuito ad alimentare ulteriormente il profondo divario tra gli ebrei israeliani e i cittadini arabi che nutrono forti simpatie verso la questione palestinese e che spesso nelle aree occupate hanno parte delle proprie famiglie.
Allo stesso tempo, anche il mese di maggio 2021 è stato teatro di violentissimi scontri che hanno conosciuto, a differenza delle proteste di quest’anno, uno spiccato protagonismo della componente arabo-israeliana, sul cui sfondo si è prodotta un’escalation bellica con Hamas, che dalla striscia di Gaza ha lanciato attacchi missilistici e bombardamenti senza precedenti sui centri abitati di Israele.
Ad accendere la miccia delle tensioni lo sfratto di cittadini arabi nel quartiere Sheikh Jarrah a Gerusalemme Est, a cui coincise la fine del ramadan e la giornata dell’unificazione di Gerusalemme, avvenuta a seguito della guerra dei sei giorni del 1967. In quell’occasione, nemmeno la dura risposta delle autorità israeliane ha scoraggiato migliaia di arabi a scendere in piazza ad Acri, Haifa, Rahat e in tutte le città miste, in cui per oltre dieci giorni si sono verificati scontri e atti di vandalismo contro i cittadini ebrei. Ad aver alimentato le violenze interne è stata una forte radicalizzazione delle frange estreme della società israeliana e soprattutto dei giovani arabi, che hanno così permesso ad Hamas di inserirsi nelle provocazioni e collegare lo scontro interno alla causa palestinese. Allo stesso tempo, alla rabbia dei giovani arabi verso il governo si è aggiunta l’evidente insoddisfazione per l’operato dei parlamentari arabi, che sin dallo scoppio delle proteste hanno fatto appello alla moderazione adottando un approccio pacifico percepito invece come una rinuncia alle rivendicazioni della minoranza araba.

Leggi anche:

Un futuro di incertezze

Nel corso degli anni, non sono mancate occasioni di scontro all’interno della minoranza arabo-israeliana tra la tendenza a divenire parte dello Stato ebraico attraverso un consolidamento del proprio ruolo politico e la vicinanza al popolo palestinese. In modo particolare, tali sentimenti si sono acuiti a seguito dell’inasprirsi degli scontri armati tra Israele e i palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, e non da ultimo del conflitto che dal 7 ottobre sta dilaniando il Paese.  In questo contesto, la maggior parte degli arabi israeliani non si è sottratta dal sostenere in modo pacifico i fratelli palestinesi senza però porsi in aperto contrasto con le istituzioni israeliane e la maggioranza ebraica, ottenendo tuttavia il risultato contrario di alienazione da quella stessa componente maggioritaria che, in virtù di una condizione di superiorità socioeconomica di fatto, è sempre pronta a far sfiatare violentemente quella che è la pentola a pressione delle tensioni etnico-religiose intrinseche alla società israeliana.
Accanto ai progetti di annessione definitiva dei territori occupati della destra sionista, ulteriore elemento di tensione nelle relazioni arabo-ebraiche è la questione abitativa. Di fatto, persistono forti limitazioni in capo alle autorità municipali dei villaggi e delle città arabe in merito ai permessi di ampliamento e costruzione di abitazioni, che non si confanno all’incessante aumento della popolazione araba e alla tendenza tradizionalista a mantenere unito il nucleo familiare estendendo i nuclei abitativi.[9]
Da qui la tendenza a costruire illegalmente, ad incappare così in dispute giudiziarie e a trasferirsi nelle cosiddette città miste, in cui ad una potenziale coabitazione pacifica spesso si sostituisce un rafforzamento della percezione degli arabi israeliani come minaccia da parte della destra ebraica. Questione a cui nemmeno i partiti arabi sono stati in grado di porre rimedio attraverso un coinvolgimento più attivo a livello politico, che tuttavia è risultato ancor più fallimentare, fino all’elezione dell’attuale governo ultra-nazionalista di Netanyahu in cui solo la Lista Araba Unita di Mansour Abbas e il partito Hadash-Ta’al hanno ottenuto abbastanza voti per entrare alla Knesset (con cinque seggi ciascuno su un totale di 120). Un risultato che conferma la tendenza che negli ultimi due decenni ha visto diminuire drasticamente l’affluenza araba alle urne a seguito di intense campagne di boicottaggio, motivate dalla scarsa fiducia degli elettori nei confronti dei propri partiti ritenuti non in grado di avere una reale influenza sulla politica israeliana.
Non a caso, i partiti di stampo arabo-israeliano non sono mai riusciti ad ottenere più di 15 seggi alla Knesset, e nessuna risposta concreta è giunta in contrasto alla criminalità dilagante e alla mancanza di permessi di costruzione nelle città israeliane a maggioranza araba – a cui si aggiunge una spiccata frammentazione degli stessi partiti arabi, incapaci di presentarsi come fronte unito alle tornate elettorali. Ne sono un chiaro esempio le elezioni anticipate del novembre 2019, che hanno innescato una scissione della Lista Comune che nel marzo 2015 aveva riunito un’ampia alleanza di quattro partiti arabi e congiunti arabo-ebraici.
La situazione è cambiata solo nel 2021, quando la Lista Araba Unita UAL (nota anche come Ra’am) si è unita a un mix ideologicamente diversificato di partiti che hanno spodestato Netanyahu e consentito a Naftali Bennet di formare un governo dietro la promessa di affrontare l’escalation di violenze nei quartieri a maggioranza araba.[10]

Rimarginare una frattura etnico-sociale?

Sebbene nelle proteste di quest’anno la maggior parte della popolazione araba adulta si sia tenuta lontana dagli scontri con la controparte ebraica e in queste settimane nel mezzo di uno sforzo bellico verso l’esterno gli arabi israeliani si siano limitati a sporadiche manifestazioni nei confronti delle azioni dell’IDF, furono gli eventi del maggio 2021 ad aver avuto un grave impatto sulle relazioni arabo-ebraiche in Israele, con l’acuirsi di una frattura tra i due gruppi le cui motivazioni di base risiedono ancora una volta nella radicata differenziazione delle condizioni di vita degli arabi israeliani all’interno della società.[11] Una discriminazione che non è mancata di emergere anche nelle proteste di quest’anno, ma che in maniera opposta agli eventi del maggio 2021 si è resa responsabile di un allontanamento disinteressato degli arabi israeliani verso la deriva anti-democratica a cui si accinge il proprio Stato, inteso ormai come un’istituzione che, in fondo, non li coinvolgerà mai direttamente. Una convinzione che difficilmente potrà modificarsi dopo la risposta di Israele alle azioni terroristiche di Hamas del 7 ottobre scorso e la volontà dell’IDF di penetrare nella striscia di Gaza, con il conseguente rischio di portare l’Iran e il Libano nel conflitto ed estendere dunque il teatro bellico a livello regionale. In ogni caso, nell’eventualità di un conflitto regionale o meno, saranno gli arabi israeliani in cerca di un’identità nello Stato ebraico a ritrovarsi ancora più alienati in un territorio e in un tessuto sociale di cui difficilmente potranno considerarsi parte integrante.


Note 

[1] Valentina Chabert, Gli arabi israeliani non credono (più) nello Stato, Domino, n. 4/2023, p. 38.
[2] «Arab minority rights», The Association for Civil Rights in Israel, 2018.
[3] N. Haddad Haj-Yahya, M. Khalaily, A. Rudnitzky, B. Fargeon, Statistical Report on Arab Society in Israel 2021, The Israel Democracy Institute, 2022.
[4] D. Fabbri, Ora Israele deve reinventare l’Impero, Limes, 2021.
[5] Israelis continue protests over judicial overhaul plans, AlJazeera, 2023.
[6] Six Arabs Explain Why They Aren’t – or Are – Joining the Israeli Protests Against the Judicial Coup, Haaretz, Marzo 2023.
[7] United Nations Human Rights Office Of The High Commissioner, Israel: UN experts condemn record year of Israeli violence in the occupied West Bank, Press Release, Dicembre 2022.
[8] Human Rigths Watch, World Report 2023: Israel and Palestine, 2023.
[9] M. Elran, Costruiamo città arabe per calmare l’odio nelle città miste, Limes, 2021.
[10] K. Sawaed, The Arab minority in Israel and the Knesset Elections, The Washington Institute for Near East Policy, aprile 2019.
[11] D. Buttu, The myth of coexistence in Israel, The New York Times, 2021.


Foto copertina: Studenti arabi israeliani nel campus di Givat Ram presso l’Università Ebraica (Foto: Alamy)

*Le dichiarazioni e le opinioni espresse negli articoli di questo Sito sono quelle dell’autore e non (necessariamente) quelle della Redazione