20(2)1 -Vent’anni dopo i tragici fatti del G8 di Genova


G8 Genova. L’Italia intera fu scossa da alcuni accadimenti destinati a segnare per sempre la storia del nostro Paese. Dialogo con Emanuele Russo, presidente di Amnesty International Italia, che ha da subito parlato di “una violazione dei diritti umani di dimensioni mai viste nella recente storia europea”.


 

Genova- Luglio 2001

Si svolgeva in quei giorni, nella cornice della città di Genova, la riunione del G8, accompagnata da manifestazioni dei movimenti No-global, sulla scia delle proteste verificatesi nel 1999 a Seattle, durante l’incontro dell’Organizzazione nazionale del commercio, caratterizzate da violenti scontri con le forze dell’ordine ed incidenti[1].

Anche due anni dopo, in Italia, le proteste culminarono in guerriglie con le forze dell’ordine, e in un clima di generale di tensione ed allarmismo che precedeva e che avrebbe poi accompagnato lo svolgimento dell’evento[2]. Fu il governo Amato II a scegliere la città ligure come sede del G8, scelta fortemente criticata dal governo Berlusconi, insediatosi il successivo 11 giugno[3], indice di una tensione che animava anche l’ambiente politico.
Sono tre gli eventi per i quali la narrazione di quei drammatici giorni deve necessariamente passare.

La morte di Carlo Giuliani

Innanzitutto, la morte di Carlo Giuliani. È il 20 luglio, e le pacifiche proteste di inizio giornata lasciano presto spazio ad aperti scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. Nel primo pomeriggio, la compagnia Echo delle CCIR, Compagnie di contenimento e intervento risolutivo create appositamente per l’evento, seguita da due Land Rover Defender dell’Arma, si accostava lentamente al fianco di un gruppo di manifestanti-che, secondo alcune ricostruzioni, non mostravano alcun segno di ostilità-i quali reagiscono all’avvicinamento con un lancio di sassi in direzione dei carabinieri: per interrompere il contatto, questi indietreggiarono precipitosamente. Nella foga della ritirata, uno dei Defender, con tre giovani militari a bordo, Filippo Cavataio, Mario Placanica e Dario Raffone, resta isolato, e presto viene accerchiato e attaccato da un gruppo di manifestanti “con sassi e assi di legno, sfondando i finestrini e cercando di lanciare oggetti contro gli occupanti”.

Placanica, che successivamente raccontò di essere stato preso dal panico in quegli attimi, estrasse la sua pistola ed esplose due colpi: uno colpì Giuliani, che nel frattempo aveva raccolto un estintore da terra e lo teneva sollevato sulla testa in procinto di scagliarlo contro la camionetta, l’altro avrebbe colpito le mura di una chiesa vicina. Il mezzo dei carabinieri, poi, passerà due volte sul corpo di Giuliani: in retromarcia, e in direzione contraria per ripartire. Quando i soccorsi arrivarono, Giuliani era già morto.[4]

La scuola Diaz

L’altro evento cruciale riguarda i fatti accaduti presso le scuole Diaz e Pascoli, sede del Media center del Genoa social forum[5], successivamente adibite anche a dormitorio. La sera del 21 luglio, circa 300 poliziotti circondano la scuola e vi entrano per un blitz, iniziando una perquisizione senza mandato: alla fine dell’operazione vengono arrestate tutte le 93 persone che erano dentro la scuola Diaz-Pertini, di cui soltanto sette non hanno riportato lesioni.[6]

La Caserma di Bolzaneto

L’ultima vicenda cardine fu quella della caserma di Bolzaneto, utilizzata per l’identificazione dei fermati di quei giorni: dalle inchieste è emerso che in quel luogo si perpetrarono abusi e vessazioni, vicenda sulla quale si è espressa nel 2013 anche la V sezione penale della Corte di Cassazione, qualificando il trattamento dei fermati “contrario alla legge” e “gravemente lesivo della dignità delle persone”. [7]

L’intervista

A vent’anni dall’accaduto, abbiamo incontrato Emanuele Russo, presidente di Amnesty International Italia, che ha da subito parlato, in merito ai fatti di Genova, di “una violazione dei diritti umani di dimensioni mai viste nella recente storia europea.”[8]

È noto che, già prima dei fatti del G8, diversi furono i dissensi che serpeggiavano tra l’opinione pubblica (e non solo) in merito alla scelta della città di Genova quale sede dell’evento. Quanto questa scelta ha influito sui fatti poi accaduti?

A questo proposito rispondo per quello che disse Amnesty allora: come Amnesty non ci esprimemmo mai criticando la città o la scelta di un posto piuttosto che un altro. In realtà, quello che ci sembra più importante sottolineare, come facemmo allora, era il clima che si respirava in quei giorni e in quei mesi. Pensiamo sia importante ricordare le manifestazioni che si svolsero il 30 marzo del 2001, tra l’altro con un governo diverso dal successivo governo Berlusconi, in cui la repressione delle proteste fu già per noi preoccupante e ci diede l’allarme di quello che sarebbe potuto accadere al G8, ovunque questo fosse stato organizzato. Per Amnesty quindi il problema non fu la città, ma le modalità che all’epoca si decisero, prima di Genova, per contrastare le manifestazioni. La volontà di reprimere le manifestazioni ha creato il problema, non la città che è stata scelta

La morte di Carlo Giuliani, la perquisizione presso le scuole Diaz e Pascoli, i fatti della caserma di Bolzaneto sono le vicende cardine di quei giorni. Quali aspetti restano ancora poco chiari?

Se vogliamo ragionare in termini di fatti poco chiari, l’unico aspetto poco chiaro è proprio la morte di Carlo perché non c’è stato un processo, mentre, di per sé, quello che è successo alla Diaz e a Bolzaneto è molto chiaro. Il punto è che all’epoca, non avendo l’Italia una legge sulla tortura, il processo è stato fatto con l’apparato legislativo al momento esistente. All’epoca noi chiedemmo una commissione d’inchiesta indipendente, richiesta che non fu accettata, mentre se ne fece una parlamentare, con una relazione di maggioranze e una di minoranza, ma il risultato fu pressoché nullo. Io non ragionerei dell’esistenza di aspetti poco chiari (anche se la morte di Carlo è un aspetto di gravità assoluta di cui non sappiamo nulla); per il resto, il problema massimo è che l’Italia non era preparata dal punto di vista legislativo e come Paese ad affrontare un evento di quel genere.

La Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per tali accadimenti, qualificando gli atti compiuti dalle forze dell’ordine a Bolzaneto “atti di tortura”: lo ritiene un epilogo soddisfacente?

Se vogliamo giudicare quello che è successo vedendo quelli che sono stati i risultati, ora l’Italia ha una legge sulla tortura. È una legge perfetta? No. È migliorabile? Si, però ce l’ha. Quindi da questo punto di vista non possiamo dire che quel tipo di pressione non sia stata soddisfacente o non abbia portato ad alcun risultato. Possiamo quindi dirci moderatamente soddisfatti. È chiaro che una soddisfazione completa ci sarebbe stata se i due grandi vuoti nel nostro apparato legislativo evidenziati dal G8 di Genova fossero stati colmati: uno è stato colmato in forma accettabile, quello relativo al reato tortura; l’altro, relativo ai codici identificativi per le forze dell’ordine, non ancora. Dunque completamente soddisfatti no, ma ci si è mossi.

Più volte, appunto, avete richiesto l’introduzione nel nostro ordinamento di misure per l’identificazione degli agenti impegnati in operazioni di ordine pubblico. Il codice identificativo è già presente in numerosi ordinamenti dell’Unione Europea. Come mai l’Italia fatica a stare al passo dell’Europa?

Su questo tema, in realtà, noi stiamo continuando a mantenere aperti i canali di confronto e dialogo con le massime autorità nazionali: ho incontrato personalmente il nuovo Capo della Polizia pochi mesi fa, subito dopo la nomina. È un po’ difficile riuscire a capire quale sia il blocco, nel senso che il dialogo sembra esserci; da parte delle autorità, della polizia ci viene detto che molti passi sono stati fatti: sicuramente sono stati fatti ma non si riesce a sciogliere realmente il nodo del perché una modalità di identificazione, che viene utilizzata senza particolari problemi in Paesi a noi vicini e che condividono con noi lo stesso ordinamento democratico, sia considerata inaccettabile in Italia. Da alcuni dialoghi è emerso che questo tipo di strumento sarebbe poco utile ora, dato il livello di tecnologia di ripresa che consente sia al pubblico che al privato di riprendere qualsiasi evento in qualsiasi momento, che non c’era vent’anni fa. Noi crediamo, però, che sia una argomentazione parziale, perché, se così fosse, non esisterebbero da nessuna parte i codici identificativi.
Se ci sono è perché questo sistema, al contrario di ciò che viene sostenuto, garantisce il buon nome e la buona reputazione di un apparato pubblico che ha migliaia di persone che svolgono con onestà il proprio lavoro. Il codice identificativo, infatti, serve proprio al contrario di quello che a volte ci viene detto: non per gettare fango su tutti ma al contrario, essendo codici individuali, dal momento che noi siamo convinti che il problema sia di un sistema che funziona con alcune persone che violano la legge, per assicurare queste persone alla giustizia. Dovrebbe esistere nell’interesse di tutti, verrebbe da dire.

Come spiegava, però, negli ultimi anni è stata accolta almeno una delle richieste mosse da Amnesty International: l’introduzione nel nostro ordinamento del reato di tortura. Credete sia un rimedio idoneo ad evitare che quanto accaduto possa ripetersi in futuro?

Normalmente le leggi vengono create quando ai problemi non si riesce a dare una soluzione previa. Questa legge ha permesso di creare una fattispecie e identificare il colpevole. In sé questo tipo di atto è fondamentale ma non contribuisce a risolvere alla radice il problema. Questi fatti accadranno finché esisteranno persone che si comporteranno in modo contrario ai principi democratici e costituzionali, e questa non è una legge che cambia questo tipo di comportamento: per questo serve un percorso lungo di collaborazione. Noi, come Amnesty, collaboriamo da tempo con l’OSCAD sulla formazione in tema di diritti umani, ritenendo che il miglioramento del nostro Paese passi necessariamente attraverso un percorso di confronto condiviso. Non è quindi qualcosa che può essere portato avanti soltanto attraverso manifestazioni ad esempio, che restano fondamentali ma che servono a portare un miglioramento duraturo solo se il dialogo rimane. Come movimento riteniamo che questo tipo di processo sia imprescindibile, e non ci illudiamo certo che il fatto di avere una legge risolva il problema: la legge è in vigore da qualche anno, eppure i fatti accaduti di recente nelle nostre carceri dimostrano che non è bastato solo quello.

Emanuele Russo Presidente di Amnesty international Italia

Lo scorso ottobre, il Ministro dell’Interno Luciana La Morgese e il capo della Polizia Franco Gabrielli hanno promosso alla carica di vicequestori Pietro Troiani e Salvatore Gava, che furono condannati a 3 anni e 8 mesi oltre a 5 anni di interdizione dai pubblici uffici (Troiani aveva introdotto due bombe molotov all’interno della scuola Diaz e Gava ne aveva falsamente attestato il rinvenimento per giustificare le violenze seguite all’irruzione delle forze dell’ordine nell’edificio). Amnesty si è detta sconcertata per le promozioni[9]

Alle nostre dichiarazioni è stato risposto che si trattava di un meccanismo automatico. Noi abbiamo preso atto dell’esistenza di questo meccanismo automatico, ma ci permettiamo di dire che probabilmente bisogna cambiare l’automatismo, nel senso che non si può pensare che persone condannate per fatti così gravi, poi automaticamente possano giungere a qualsiasi livello di responsabilità. Esistono dei fatti che non impediscono ad una persona di tornare ad avere un lavoro anche rilevante, ma dovrebbe essere interdetta da certe responsabilità. Forse il problema sta proprio nell’automatismo e non nel nostro sconcerto.

Perché, a distanza di vent’anni dalle vicende, credete sia ancora importare parlare di tutto questo?

Se vogliamo parlare di quelli che sono i lasciti del G8 di Genova, questi sono due, come dicevo: l’Italia non aveva la legge sulla tortura e non esistevano codici identificativi individuali per le forze dell’ordine. Uno dei due lasciti è stato risolto, per quanto la legge sia barocca e limitata, ma ha comunque già portato a due condanne, il che vuol dire che in qualche modo riesce ad avere un’efficacia. L’altro non è stato colmato, e quantomeno per questo è importante continuare a parlarne.

D’altra parte, sappiamo che per i fatti di Genova continuiamo ad avere delle persone che sono in carcere per condanne legate a devastazione e saccheggio, mentre non abbiamo poliziotti in carcere per quello che è successo in quei giorni. Quindi se dovessimo dedurre la gravità di un reto sulla base delle persone che sono in carcere e di quelle che non lo sono, dobbiamo dedurre che in Italia è più grave sfasciare una vetrina rispetto a picchiare o spaccare la testa delle persone. Quantomeno per questo ragionamento, forse, è importante continuare a parlare del G8 anche a vent’anni di distanza; verrebbe da dire, dati gli ultimi fatti di cronaca, ancora di più, visto che dimostrano che dal 2001 un cambiamento culturale non è ancora avvenuto.
Ecco, finché non avverrà, varrà ancora la pena parlarne.


Note

[1]Per approfondire: https://www.ilpost.it/2019/11/30/battaglia-seattle-1999/
[2]https://www.repubblica.it/online/politica/gottosei/blindata/blindata.html
[3]https://www.repubblica.it/online/politica/berluge/berluge/berluge.html
[4] https://www.ilpost.it/2016/07/20/omicidio-giuliani/
[5] rete di movimenti e associazioni di contestazione no-global
[6] https://www.internazionale.it/notizie/2015/04/07/scuola-diaz-g8-genova
[7]https://www.agi.it/cronaca/bolzaneto_tre_giorni_di_abusi_che_per_strasburgo_furono_tortura-2295657/news/2017-10-28/
[8] https://www.amnesty.it/g8-genova-17-anni-ferita-aperta/
[9] https://www.amnesty.it/sconcerto-per-la-promozione-di-funzionari-di-polizia-condannati-per-i-fatti-di-genova-2001/


Foto copertina: I fatti della scuola Diaz. 21 luglio 2001

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