Con la sentenza J.L. contro Italia pubblicata lo scorso 27 maggio, la Corte Europea dei Diritti dell’uomo ha attirato l’attenzione dei media di tutto il mondo accusando lo Stato Italiano di essere promotore di una cultura misogina e sessista.
La vicenda
La vicenda coinvolge una ventiduenne che, nell’ormai lontano 2008, denuncia di essere stata vittima di stupro nei pressi della Fortezza da Basso, Firenze. In seguito alla denuncia vennero arrestati sette ragazzi tra i 20 e i 25 anni.
Sei dei sette ragazzi furono condannati in primo grado a quattro anni e sei mesi di reclusione con l’accusa di violenza sessuale aggravata per aver abusato delle condizioni di inferiorità fisiche e psichiche della vittima causate dall’alcol.
Nel marzo del 2015, in secondo grado, gli imputati furono tutti assolti dalla Corte d’Appello di Firenze con formula piena, perché il fatto non sussisteva.
Nelle motivazioni si legge che il Collegio ha trovato il racconto riportato dalla ragazza non credibile e contraddittorio spingendosi fino ad effettuare valutazioni non soltanto sulla persona, bensì anche sulle abitudini sessuali della vittima.
La stessa viene definita come “soggetto femminile fragile, ma al tempo stesso creativo, disinibito, capace di gestire la propria (bi)sessualità …”[1]
La ragazza, quindi, secondo i giudicanti, non si sarebbe trovata in una condizione di inferiorità psichica tale da non potersi opporre all’iniziativa del gruppo. L’episodio viene quindi rapidamente identificato come un’incresciosa vicenda “non encomiabile per nessuno, ma neppure tale da identificarsi in un fatto penalmente rilevante”.
Corte Europea dei diritti dell’uomo
Ovviamente, una decisione di tal genere non poteva lasciare l’opinione pubblica indifferente. Diverse associazioni femministe insorsero organizzando marce e manifestazioni in solidarietà alla ragazza e l’esito del processo giunse fino in Parlamento, dove rimase lettera morta.
Ecco che, a distanza di anni la questione viene portata davanti alla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Se da un lato la Corte riconosce la completezza del quadro legislativo italiano e l’efficienza delle indagini svolte dagli inquirenti, dall’altro non può esimersi dal biasimare le argomentazioni della Corte d’Appello nella pronuncia.
La sentenza del 2015, infatti, sarebbe intrisa di stereotipi che avrebbero ostacolato una tutela corretta ed adeguata dei diritti e degli interessi della ragazza.
I giudici hanno ritenuto inappropriato e ingiustificato i riferimenti effettuati alla vita privata della vittima e al suo orientamento sessuale e, allo stesso tempo, deplorevoli e irrilevanti i tentativi dei giudici di stigmatizzare la fragilità della vittima.
Nello specifico, si ritiene che la conclusione della sentenza abbia violato l’art. 8 della CEDU che prevede il rispetto alla vita privata e familiare. Nelle motivazioni depositate si legge che libertà stessa dei giudici di esprimersi liberamente per formulare le proprie decisioni trova il limite, infatti, nell’obbligo di tutelare le vittime e la loro immagine.
Disciplina della ottimizzazione secondaria
Non rappresenta una novità il desiderio di tutelare le vittime di violenza da quello che è meglio noto come fenomeno del victim blaming, o vittimizzazione secondaria.
E’ importante evidenziare, infatti, come esistano, ad oggi, diversi documenti che riconoscono in capo alle autorità l’obbligo di tutelare le vittime di violenza.
Già la Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne del 1979 (CEDAW), riconosce il diritto delle vittime di esser trattate con dignità e rispetto, e soprattutto, di aver pieno accesso a strumenti di tutela legale tramite i quali difendersi dalle violenze subite.[2]
L’obiettivo di tali strumenti è quello di prevenire la vittimizzazione secondaria, fenomeno che si verifica nel momento in cui, a seguito di un episodio di violenza, le autorità che dovrebbero proteggere la vittima, la rendono nuovamente oggetto di violenze diverse.
All’interno del nostro ordinamento, ad oggi non esiste una disciplina normativa volta a combattere il fenomeno del victim blaming.
Conclusioni
Oltre al riconoscimento in capo alla vittima di un risarcimento per danni morali per un ammontare di circa 12 mila euro, la Corte ha caldamente invitato le autorità italiane ad astenersi dal promuovere, anche solo implicitamente, stereotipi di genere che potrebbero portare ad un incremento di episodi di victim blaming.
Sono, infatti, proprio gli stessi procedimenti e le sanzioni penali a rappresentare degli agenti reattori nella lotta alla discriminazione di genere.
Negli ultimi anni si è assistito ad un esponenziale aumento di casi di violenza di genere che ha portato, come conseguenza diretta, ad un incremento del fenomeno di vittimizzazione secondaria. Sempre più spesso si tende a colpevolizzare le vittime seguendo quella che viene definita come la “teoria del mondo giusto”, secondo cui le persone agiscono sulla base della convinzione che ognuno ottiene quello che si merita e si merita ciò che ottiene.
Purtroppo, nel nostro paese, si sa, i pregiudizi sono duri a morire e, nel 2021 è ancora influenzato da una mentalità intrisa di pregiudizi sessisti e che non possono che riconfermare l’arretratezza culturale del sistema giudiziario italiano.
Affinché le vittime di tali reati possano sentirsi più ascoltate e tutelate sarebbe opportuno partire proprio dalla progressiva miglioria del sistema giudiziario puntando all’ adozione di best practices giudiziarie.
Sarebbe fondamentale, infatti, impegnarsi in un investimento nella formazione degli operatori di giustizia affinché possano prevenire tali episodi di vittimizzazione secondaria garantendo un processo equo e non un processo alla donna.
Note
[1] Corte EDU, J.L. c. Italia
[2] Convenzione dell’organizzazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, 1979
Foto copertina:A file photograph showing a general view of the Court of Human Rights in Strasbourg, France, 13 March 2013. EPA/PATRICK SEEGER