Recensione dell’ultimo libro di Roberto Chiarini, Storia dell’antipolitica dall’Unità a oggi. Perché gli italiani considerano i politici una casta.
A cura di Luca Mencacci
Agli inizi del 2018, Arthur Weststeijn, uno storico olandese, professore all’Università di Utrecht, specializzato in storia contemporanea dell’Italia, diede alle stampe, insieme al suo collega Pepijn Corduwener, una breve monografia dal titolo piuttosto curioso, Esperimento Italia. Come il più bel Paese d’Europa ha inventato la moderna politica.
La tesi di fondo pretendeva di esaltare il ruolo del nostro Paese quale sorta di laboratorio anticipatore di tendenze politiche che successivamente si sarebbero affermate anche nel resto d’Europa. A detta degli autori, e con buona pace di Alexis de Toqueville che nel 1831 si era recato negli Stati Uniti d’America per rinvenire «l’immagine della democrazia stessa, con le sue inclinazioni, il suo carattere, i suoi pregiudizi e le sue passioni, allo scopo di apprendere che cosa dobbiamo temere o sperare nel suo sviluppo», basterebbe invece rileggersi alcune esemplari pagine di storia italiana per comprendere gli sviluppi futuri delle società democratiche europee.
Benito Mussolini ha del resto inaugurato la stagione delle dittature undici anni prima di Adolf Hitler e diciassette prima di Francisco Franco. Silvio Berlusconi ha introdotto il populismo mediatico oltre venti anni prima di Donald Trump ed Emmanuel Macron. Beppe Grillo con il Movimento 5 stelle e la piattaforma Rousseau, hanno aperto la strada a quell’agora virtuale che sembra sedurre tutti i critici della democrazia rappresentativa. Senza voler approfondire altre amenità, il testo conservava tuttavia un certo suo interesse per la motivazione sottesa alle conclusioni espresse dagli autori.
La ragione di una tale estro della politica italiana sarebbe, infatti, da rinvenirsi nella particolare relazione che intercorrerebbe tra i cittadini e la propria classe dirigente. Relazione complessa e persino ambigua, la quale, alimentandosi di diffidenza e di sospetto reciproco, finirebbe con il favorire l’emersione di soluzioni quanto meno originali nei ricorrenti periodi di crisi che attraversano periodicamente la storia democratica dell’Occidente.
Che tra i cittadini italiani e i propri rappresentanti ci sia una sorta di cortocircuito emozionale, lo testimonia, fin dagli albori dell’Unità d’Italia, il paradossale successo di un libello dal titolo molto significativo, I moribondi del Palazzo Carignano scritto dal giornalista e deputato Ferdinando Petruccelli della Gattina. Pubblicato nel 1862, ad appena un anno dalla prima riunione del neoeletto parlamento del Regno d’Italia, il testo conteneva una serie di ritratti di parlamentari che, a detta dell’autore, potevano «essere eliminati dalle novelle assemblee d’Italia, senza il minimo inconveniente, anzi, forse, con una incontestabile utilità».
Non si trattava tanto di una valutazione di matrice etica, i neoeletti del resto in appena un anno di legislatura non avrebbero potuto ancora macchiarsi di tutte quelle nefandezze amministrative e finanziarie che avrebbero caratterizzato gli anni a venire. Dagli scandali per la costruzione e l’esercizio di linee ferroviarie nell’Italia centrale e meridionale o per la concessione della manifattura dei tabacchi per arrivare al più famigerato, quello della Banca Romana, a rileggere le cronache di quegli anni, non una delle peculiari malattie, che la politologia ascrive alla classe politica parlamentare, sarebbe stata evitata.
Non il clientelismo, che, affidato alle insospettabili capacità manageriali di certi ministri, restituiva nelle parole di Petruccelli «all’Europa il singolare spettacolo di un Parlamento senza opposizione» e alla cittadinanza del neonato Regno d’Italia il triste spettacolo di una insospettabile degenerazione. Né certo il trasformismo, a lungo considerato uno dei più tipici vizi della politica italiana, tanto da imporre l’uso del termine nella letteratura specialistica internazionale. Neppure ovviamente l’assemblearismo che consegna di fatto ad un gruppo di eletti, eterogenei per formazione e vocazione, ma tutti accomunati da innegabili doti di equilibrismo politico, l’ago della bilancia della guida della assemblea e quindi della nazione. Quanto piuttosto la dimostrazione di una sensazione di sostanziale estraneità che separava gli eletti dai propri elettori, appena conclusasi la tornata elettorale.
Tutte le qualità che avevano indotto i cittadini ad attribuire il loro voto, improvvisamente sparivano ed altrettanto repentinamente emergevano le ostentazioni dei privilegi. «E perché dunque una brava persona, stimabile e stimata, oggi, pel solo fatto di appartenere al Parlamento, non si salva dall’antipatia istintiva del pubblico? È un privilegiato» si trovava a rispondere con un certo rammarico il deputato lombardo Francesco Ambrosoli. Salviamo il Parlamento! è il significativo titolo del breve libello che si trova dover scrivere sul finire del secolo per difendere l’istituzione dagli anacronistici appelli di Sidney Sonnino e soprattutto dalle considerazioni sociologiche di Scipio Sighele, le cui conclusioni sarebbero peraltro diventate persino profetiche visto lo sterile andamento del dibattito intorno alla recente riforma costituzionale.
Nell’immaginario collettivo, l’egoismo e la superbia diventano il tratto caratterizzante degli eletti e la stragrande maggioranza dei cittadini, sin dal giorno dopo le elezioni, si affrettano a prendere le distanze da coloro ai quali hanno accordato, con enfasi e convinzione, la propria preferenza. Sentimenti e predisposizioni d’animo che peraltro sembrano contraccambiati altrettanto intensamente dagli stessi rappresentanti, tanto dai più autorevoli, quanto dai più screditati. «Gli italiani sono sempre gli altri. In negativo. Anzi, con un forte accento spregiativo» affermò poi il presidente Francesco Cossiga in un caustico pamphlet, Italiani sono sempre gli altri. Controstoria d’Italia da Cavour a Berlusconi. «Gli italiani erano gli altri per Cavour, che parlava francese e pensava come un liberale inglese; per re Vittorio Emanuele che preferiva essere il II del Piemonte piuttosto che il I dell’Italia; per Benito Mussolini che li voleva rifare da capo a fondo; per Palmiro Togliatti appena arrivato da Mosca perché veniva da più lontano, quasi da un’altra patria; per Alcide De Gasperi, che si considerava un trentino prestato all’Italia; per il sardo comunista Enrico Berlinguer, che li vedeva perennemente afflitti dalla questione morale».
Nella attenta ricostruzione che ne fa lo storico Roberto Chiarini, con la pubblicazione per i tipi di Rubbettino di Storia dell’antipolitica dall’Unità a oggi. Perché gli italiani considerano i politici una casta, questo sentimento di lontananza ed estraneità sembra così caratterizzare sin dalle origini della nazione, la complessa relazione dell’abitante della nostra penisola con il potere politico e impregna di distacco e disincanto l’humus che alimenta il terreno sempre fertile dell’antipolitica. «Dal disincanto del dopo Unità all’antiparlamentarismo di fine Ottocento, dall’“opposizione” all’ordine liberale dei cattolici alla contestazione dei socialisti al “governo della borghesia”, dal rifiuto della democrazia liberale d’inizio novecento al fascismo, per chiudere con la critica della “Repubblica dei partiti” culminata in quest’ultimo ventennio nel populismo antipolitico», il testo ripercorre in chiave storica le manifestazioni di un sentimento così profondamente radicato, che oscilla sospeso «tra il rigetto della politica e la sua rinegoziazione, tra il nichilismo e l’utopia», e che pone nell’agorà domande sempre senza risposta, ma spesso con troppi interlocutori. Il rigetto della politica si confonde con l’ambizione della sua riforma. L’antipolitica, per l’ambiguità del suo statuto e la vaghezza del suo stesso orizzonte semantico, appare come pharmakon, veleno e medicina della democrazia. Per i suoi promotori sarebbe il medicamento capace di guarire il morbo che infetta la democrazia. Per i suoi detrattori la tossina che ne minaccia la sopravvivenza.
Nell’impresa, probabilmente impossibile, di conciliare il principio della sovranità popolare con l’esercizio della delega da parte degli eletti «per i primi sarebbe terapeutica, per i secondi tossica», per troppi un comodo alibi per tralasciare la cura del proprio corpo sociale.
Foto copertina: Libro