Dialogo con Filippo Santelli autore di ‘La Cina non è una sola’ (Mondadori, 2021). Santelli racconta in prima persona la dimensione multiforme di un paese “in bilico tra evoluzione ed involuzione”, la cui ascesa rappresenta una delle più grandi sfide epocali per le democrazie occidentali.
Un virus originatosi in una metropoli fino a poco fa sconosciuta a molti, la sfida senza precedenti al primato statunitense, le proteste ad Hong Kong, la Via della Seta e la questione Uigura: mai come ora la Cina è la protagonista di tensioni e previsioni antitetiche che da un lato presagiscono un’imminente egemonia globale del Dragone e dall’altro ne prevedono un tracollo improvviso. Divenuta la seconda economia globale nell’arco di una generazione e mezza, la Cina non è tuttavia un’entità monolitica, bensì presenta al suo interno numerose complessità e tensioni sociali, culturali ed economiche che è necessario considerare per poter comprendere l’attore geopolitico chiave di quest’epoca: a tal proposito, Filippo Santelli[1] in ‘La Cina non è una sola’ (Mondadori, 2021) racconta in prima persona la dimensione multiforme di un paese “in bilico tra evoluzione ed involuzione”, la cui ascesa rappresenta una delle più grandi sfide epocali per le democrazie occidentali. Una Cina divisa fra il grande sogno di potenza, benessere e “ringiovanimento nazionale” ed il reale sbilanciamento della curva demografica che registra un preoccupante invecchiamento della popolazione; una Cina in forte crescita che cerca di allentare la propria dipendenza dai combustibili fossili, al cui interno persistono tuttavia profonde disuguaglianze in termini di opportunità; una Cina bramosa di vedere riconosciuta la propria grandezza a livello internazionale, che dopo aver inizialmente nascosto importanti informazioni riguardanti la circolazione del nuovo coronavirus è stata in grado di contenerne la diffusione e rilanciare la propria economia ben più rapidamente di Europa e Stati Uniti. Una Cina dalle mille sfaccettature, la cui leadership appare tuttavia più solida che mai.
Viralità
In qualità di corrispondente dalla Cina per il quotidiano “La Repubblica” fino al gennaio 2021, Filippo Santelli si è trovato nella circostanza di poter documentare l’esperienza cinese dal cuore del focolaio del nuovo coronavirus, dalla sua scoperta alle prime comunicazioni ufficiali. A tal proposito, il capitolo “viralità” offre una straordinaria rappresentazione delle prime reazioni interne della popolazione cinese alle prese con la necessità di dover intercettare informazioni essenziali fuori dai canali ufficiali del regime, impegnato in forme di censura al fine di mantenere il cosiddetto “weiwen”, ossia ordine e stabilità nel paese. Similmente, Santelli fornisce un’analisi dei principali errori commessi dalle autorità durante i primi mesi dai primi contagi, che hanno portato le potenze di tutto il mondo a voler attribuire alla Cina una qualche forma di responsabilità nella diffusione globale del virus. Infine, con grande precisione viene dato spazio alla narrazione del cambiamento di rotta del Partito-Stato, che attraverso una totale mobilitazione sia dall’alto che dal basso e una struttura di sorveglianza senza precedenti ha avuto successo nel contenimento del virus tanto da sciogliere il lockdown nella città di Wuhan, l’epicentro del contagio, nell’aprile 2020, mentre gran parte dei paesi europei stavano affrontando il momento più drammatico della pandemia.
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Figli Unici
Il viaggio alla scoperta della complessa realità multiforme della Cina passa attraverso l’analisi degli attuali trend demografici del paese: di fatto, a partire dagli ultimi anni il Dragone è stato chiamato ad affrontare il problema del costante declino della natalità, che in una prospettiva più ampia potrebbe significare per il popolo cinese “wei fu xian lao”, “diventare vecchi prima di diventare ricchi”: di fatto, la Cina non è ancora un paese pienamente sviluppato, e allo stesso modo i livelli di reddito non eguagliano quelli dei paesi cosiddetti “avanzati”. Nonostante ciò, essa già presenta alcune delle dinamiche ben note a paesi occidentali come l’Italia, con le conseguenti implicazioni per la stabilità economica e il sistema del welfare dello Stato. Tali dinamiche tuttavia non possono essere attribuite solamente agli effetti della politica del figlio unico lanciata da Deng Xiaoping nel 1980, bensì a fattori più strutturati come la cristallizzazione dell’archetipo di famiglia cinese composta da madre, padre e figlio unico, e – ben più importante – la percezione che le opportunità di successo si stiano via via restringendo.
Hong Kong
Tra le questioni per cui la Cina è sotto osservazione negativa da parte del resto del mondo, Hong Kong ricopre sicuramente un posto di primo piano. Dopo aver passato diversi mesi nella città intrisa di ragazzi barricati in strade ed università, intenti a protestare in favore della democrazia, Santelli descrive a più riprese come la Cina stia portando Hong Kong verso una progressiva sinizzazione, che passa attraverso la repressione delle proteste, il silenziamento dell’opposizione e, più recentemente, una nuova legge sulla sicurezza nazionale. Da un punto di vista eurocentrico, Hong Kong rappresenta l’emblema delle aspettative occidentali di una Cina democratica e liberale: in particolare, il trasferimento di Hong Kong alla Cina fu accompagnato dalla convinzione che il Dragone sarebbe cambiato a immagine e somiglianza di Hong Kong, e che l’apertura ad un’economia di mercato avrebbe inesorabilmente portato la Cina su una direzione convergente con quella delle democrazie liberali occidentali. Nonostante ciò, complice un forte declino della rilevanza economica di Hong Kong nella globalità della Cina, la città appare destinata ad una graduale assimilazione.
Verde e nero
Così si intitola uno dei capitoli centrali del libro, dedicato alla svolta ambientale cinese. Primo paese per emissioni al mondo, inaspettatamente lo scorso settembre il presidente Xi Jinping ha promesso in seno alle Nazioni Unite di toccare il picco delle emissioni entro il 2030 e raggiungere la neutralità carbonica nel 2060. Un obiettivo ambizioso, se si pensa che il rispetto degli Accordi di Parigi per contenere la temperatura del pianeta entro i 2° dipende in larga misura dalle azioni della Cina. La svolta verso il green appare però prioritaria per il Partito, in quanto i cittadini cinesi appaiono via via più consapevoli delle conseguenze negative del proprio modello di sviluppo: ne è un chiaro esempio il famoso “Airpocalypse” di Pechino nel 2013, che ha segnato in maniera traumatica la popolazione, impossibilitata ad uscire per i livelli di polveri sottili nell’atmosfera. In tale contesto, il Regime autoritario necessita di preservare la propria legittimità, che inevitabilmente passa anche attraverso la propria abilità di garantire ai cinesi di preservare e ripulire il paese. Ci si interroga però in che misura il Partito-Stato riuscirà a mantenere le proprie promesse, soprattutto considerando il fatto che negli ultimi 30 anni ricchezza, posti di lavoro e sviluppo sono stati creati sulla base di un modello industriale estremamente inquinante. Sarà possibile conciliare la necessità di un cambio di rotta verso un modello più sostenibile con la somma priorità del partito di mantenere la stabilità, alla luce dei possibili disordini creati dalla perdita di posti di lavoro legati alle vecchie industrie pesanti?
Abbiamo avuto il piacere di incontrare Filippo Santelli e, alla luce della sua recente esperienza come corrispondente da Pechino per il quotidiano “La Repubblica”, gli abbiamo posto alcune domande riguardanti alcuni tra i punti a nostro avviso più rilevanti del racconto.
In una Cina in corsa per la modernità e il pieno sviluppo, le disparità al suo interno si acuiscono sempre maggiormente. Tra i vari aspetti, negli ultimi anni le discriminazioni basate sul genere sono emerse in maniera più pressante: di fatto, la Cina si colloca piuttosto in basso nei più recenti report del World Economic Forum che misurano il gender gap globale. Alla luce di ciò, è possibile individuare una qualche “tensione” con le precedenti battaglie del partito comunista a favore della parità di genere, culminate nel discorso di Mao del 1968 in cui sostenne che “le donne reggono metà del cielo” ?
“Sotto Mao il Partito comunista ha promosso un’idea di parità di genere derivata dalla dottrina marxista, secondo cui la donna doveva essere lavoratrice (o all’occorrenza anche combattente) al pari dell’uomo. Era un concetto di parità che negava la differenza femminile, ma che permise comunque alle donne cinesi di fare dei passi avanti sul piano dei diritti rispetto alla precedente società imperiale, per esempio ottenendo il diritto al divorzio. Con il superamento del maoismo e l’inizio dell’era delle riforme si sono combinati due fattori: da un lato sono riemersi i valori confuciani – mai davvero superati – che vedono la donna in una posizione subordinata (al padre, al marito, al figlio); dall’altro una economia di mercato sregolata ha penalizzato le donne sul luogo di lavoro. Il risultato sono degli oggettivi passi indietro nella parità di genere: negli ultimi anni anche le donne hanno beneficiato dello straordinario balzo in avanti dell’economia cinese, ma ne hanno beneficiato in misura molto inferiore agli uomini. Oggi in Cina le donne sono gravemente sottorappresentate in tutti i luoghi di potere, scarsamente difese dalle violenze e dagli abusi, penalizzate da un sistema sociale che non le tutela e le costringe a scegliere tra lavoro e maternità. Così sempre più donne – con l’aumento del livello di istruzione e delle relative aspirazioni di carriera – scelgono di ritardare la maternità o addirittura non fare figli.”
Il senso di “urgenza” e “velocità” che permea ogni campo d’azione della società cinese si riflette soprattutto nel campo dell’innovazione; in particolare, la forza innovativa cinese ha risieduto prevalentemente nell’imitazione, esecuzione e commercializzazione di tecnologie esistenti nei settori più diversi, dal fotovoltaico al peer-to-peer lending. In tale contesto, quale ruolo ricopre il Partito-Stato nelle frequenti accelerazioni e rallentamenti all’interno delle dinamiche dell’innovazione cinese? Quanto è importante la mano dello Stato nell’indirizzare e supportare l’innovazione privata, anche a fronte di una ormai consolidata competizione con gli USA?
“Il Partito-Stato ha sempre giocato un ruolo di primo piano nelle varie ondate di innovazione vissute dalla Cina. In alcuni casi realizzando direttamente le innovazioni, pensiamo per esempio alla rete ferroviaria alta velocità, tutta finanziata da spesa pubblica e costruita da aziende di Stato. In altri casi attraverso gli incentivi alla ricerca e allo sviluppo – pensiamo al 5G di Huawei. In generale, all’interno del capitalismo di Stato cinese, è il Partito a scegliere quali tecnologie sono prioritarie, garantendo alle relative industrie una serie di ricchissimi incentivi, diretti o indiretti, monetari e regolatori: l’ultima è quella dei microchip, visti come la chiave della sfida tecnologica con gli Usa. Negli ultimi mesi il Partito ha rivendicato in maniera ancora più decisa il suo primato assoluto sull’industria tecnologica, colpendo con una serie di interventi regolatori, dall’antitrust alla privacy, alcuni colossi digitali che in passato erano cresciuti nell’assenza di regole, a cominciare dalle aziende di Jack Ma, lo Steve Jobs cinese. L’obiettivo della leadership è mostrare che la stabilità sociale e politica vengono prima dell’innovazione e della sua filosofia del rischio. Questa stretta ha lanciato un messaggio agli imprenditori cinesi: prima di tutto devono essere dei patrioti. Ma non è chiaro quale potrebbe essere l’effetto di lungo periodo sul sistema cinese dell’innovazione, che potrebbe essere anche soffocato da un eccessivo controllo da parte della politica”
In seguito alle riforme ed aperture di Deng Xiaoping, la Cina ha fatto esperienza di una rapida transizione dal comunismo al consumismo, passando da una condizione iniziale di puro soddisfacimento dei bisogni primari a dettare le sorte di alcune delle principali industrie globali grazie ai propri consumi. Com’è stato vissuto tale cambiamento, e in quale misura consumi accelerati hanno assunto una forte dimensione sociale per il popolo cinese come mezzo di distinzione e riconoscimento?
“Improvvisamente, a un popolo a cui era stata vietata ogni forma di distinzione, in quando borghese, è stato detto che arricchirsi era glorioso ed è stata data libertà di consumare. Così nel contesto di una società gerarchica, e all’improvviso diventata iper competitiva, il consumo si è imposto come un elemento centrale del capitale sociale dei cittadini: cosa compro definisce il mio status all’interno della gerarchia. La vita cinese è piena di questi indicatori di valore: la marca di sigarette che acquisto, il modello di auto che guido, il liquore che offro a cena, ovviamente i vestiti che indosso. La Cina è il Paese al mondo in cui più persone sono d’accordo con l’affermazione: “Misuro il mio successo dalle cose che possiedo”. Per i più giovani i riferimenti stanno cambiando, non inseguono più necessariamente (o solo) le grandi marche, puntano sempre più alle esperienze, come i viaggi. Ma la fortissima dimensione sociale del consumo come indicatore di status vale anche per loro: ogni esperienza nasce per essere postata e condivisa sui social.”
Dopo il “secolo dell’umiliazione” in cui la Cina è stata conquistata dalle potenze imperialiste occidentali, com’è possibile definire l’attuale era in cui la Cina persegue una politica estera e una diplomazia via via più affilata alla continua ricerca di un riconoscimento a livello internazionale, e di riportare “l’impero al centro”?
“La si potrebbe definire “l’era dell’assertività”. La Cina non ha più intenzione di nascondere la propria forza (come aveva raccomandato in precedenza Deng Xiaoping), ma anzi rivendica il proprio ruolo di potenza – quello che secondo la sua visione della storia le spetta di diritto – e i propri interessi, a parole e azioni (manovre militari). Questa rivendicazione di status, questa volontà di vederselo riconosciuto dalla comunità internazionale, è ovviamente una esigenza universale, ma ha delle caratteristiche tipicamente cinesi, perché nella cultura cinese la “faccia”, la reputazione, è fondamentale. La grande narrazione di ringiovanimento nazionale portata avanti dal Partito comunista serve a cementare il consenso interno della leadership, ma perché la narrazione sia credibile è fondamentale che la potenza cinese sia riconosciuta dal resto del mondo. Nell’inseguire questo riconoscimento c’è anche una componente di ansia, “l’era dell’ansia”. Molte delle pose più aggressive che la Cina adotta a livello internazionale vanno quindi lette nella loro funzione di propaganda interna – non mostrarsi deboli agli occhi dei cittadini – ma il risultato di questa “assertività necessaria” è quello di rendere sempre più diffidente, o addirittura ostile, il resto del mondo. La reputazione della Cina non è mai stata così negativa.”
Note
[1] Classe 1984, Filippo Santelli è vicecaporedattore dell’Economia e giornalista per il quotidiano “La Repubblica”. Dal 2018 al gennaio 2021 è stato corrispondente da Pechino, da cui ha raccontato in prima persona le proteste pro-democrazia di Hong Kong e la nuova pandemia di coronavirus raggiungendo Wuhan tra i primi giornalisti internazionali.
Foto copertina: copertina libro