Alcune riflessioni alla luce della pronuncia Cass., Sez. V, sent. 6 ottobre 2020 (dep. 18 gennaio 2021), n. 1943, Pres. Sabeone, Est. Francolini.
La Corte di Cassazione, nella sentenza 1943 del dì 6 ottobre 2020[1], ha ritenuto configurabile il tentativo del delitto di atti persecutori.
L’applicazione del combinato disposto degli artt. 56 e 612 bis c.p. origina, nella vicenda concreta sottoposta alla Suprema Corte, dalla circostanza che la vittima dello stalking, in ragione della propria particolare tempra e del proprio carattere forte, non sarebbe stata lesa dai comportamenti del reo i quali, tuttavia, si sarebbero dimostrati idonei e diretti in modo inequivoco a far verificare l’evento descritto dalla norma incriminatrice.
L’impianto motivazionale della decisione poggia sulla asserita natura del delitto di atti persecutori quale reato abituale di danno. Ciò non rappresenta una novità in seno alla V. sez. della Corte che, già in più di un precedente, era giunta alle medesime conclusioni.
Il delitto di cui all’art. 612 bis c.p. è ricostruito quale reato abituale di danno «integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice, nonché dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla verificazione dell’evento, il quale deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso […]».
Affinché la fattispecie in parola possa ritenersi consumata è necessario che si verifichi l’evento lesivo descritto dalla norma incriminatrice, ossia il cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero il fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona legata al destinatario della condotta da una relazione affettiva ovvero, ancora, il costringere la persona offesa ad alterare le proprie abitudini di vita.
Peraltro, gli Ermellini, in maniera coerente con i propri precedenti approdi[2], ribadiscono che ai fini della punibilità del delitto di atti persecutori ciò che rileva è la reiterazione della condotta. I singoli atti, che di per sé potrebbero dar luogo ad autonome voci di reato (da qui la definizione di reato abituale improprio), si cementano nell’intento persecutorio dello stalker; la loro reiterazione fa sorgere un’autonoma unitaria offensività.
A causa del ripetersi delle condotte lesive la persona offesa accumula progressivamente quel disagio che poi sfocia in uno stato di “prostrazione psicologica” sussumibile in almeno una delle forme descritte dalla norma incriminatrice.
Ancor più chiaramente, la natura di reato di evento dannoso del delitto di cui all’art. 612 bis c.p. è stata ribadita in una recente pronuncia[3] il cui oggetto verteva sul momento consumativo del delitto volto ad individuare la competenza per territorio.
Si è chiarito, dunque, che il delitto di cui all’art. 612 bis c.p. può dirsi integrato dalla reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell’evento, quale risultato della condotta persecutoria nel suo complesso.
Fondamentale secondo la Corte, «non è la datazione dei singoli atti, quanto la loro identificabilità quali segmenti di una condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione dell’evento».
Orbene, nella richiamata sentenza i Giudici di Legittimità statuiscono che «la competenza per territorio si determina in relazione al luogo in cui il comportamento stesso diviene riconoscibile e qualificabile come persecutorio ed in cui, quindi, il disagio accumulato dalla persona offesa degenera in uno stato di prostrazione psicologica, in grado di manifestarsi in una delle forme descritte dall’art. 612 bis c.p.»
Appare evidente, dunque, che l’orientamento che vede il delitto di atti persecutori quale reato abituale di danno è più che consolidato in seno alla V sezione penale della Corte di Cassazione; muovendo da tale premessa sistematica si dipanano i successivi ragionamenti volti ad ammettere la punibilità del reato in esame anche nella forma tentata.
Il delitto di stalking, dunque, si connota per il legame che stringe i singoli comportamenti dello stalker, i quali rilevano come unica condotta persecutoria causalmente orientata alla produzione di uno degli eventi tipici descritti dalla norma. Tali eventi possono essere tanto dannosi (l’alterazione delle proprie abitudini di vita e il perdurante stato di ansia o di paura) quanto pericolosi (il fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona legata da relazione affettiva).
Alla luce di tale premessa, conclude sul punto la Corte, è logicamente e giuridicamente ammissibile che alla commissione della condotta – e, più precisamente, alla commissione di atti idonei volti in modo inequivoco a produrre uno degli eventi descritti dalla norma incriminatrice – possa non conseguire la realizzazione dell’evento tipico contemplato dalla norma. In tale evenienza, la condotta persecutoria sarà punibile nella forma tentata.
Così affermata la configurabilità del tentativo di atti persecutori, la Corte procede a smentire anche un’ulteriore argomentazione, avanzata dalla difesa dell’imputato, la quale precisava che, nel caso di specie, doveva versarsi in ipotesi di reato impossibile ai sensi dell’art. 49 comma 2 c.p.
Si è evidenziato che la destinataria della condotta, in virtù del suo “carattere forte” non aveva percepito la lesività dei comportamenti persecutori e che, conseguentemente, non si erano verificati gli eventi lesivi descritti dalla norma incriminatrice. Ancora, in punto di fatto, è stato osservato che la persona offesa non aveva neanche percepito materialmente alcuni comportamenti del reo (il riferimento è ad alcune telefonate notturne che, se percepite, ma così non fu, avrebbero potuto ingenerare nella destinataria delle stesse un sentimento di paura e di precarietà). Su queste basi, secondo tale impostazione, ricorrerebbe un’ipotesi di reato impossibile.
La Corte ritiene infondata tale prospettazione difensiva.
Ai sensi dell’art. 49 comma 2 c.p., infatti, è esclusa la punibilità quando è impossibile l’evento dannoso o pericoloso a causa dell’inidoneità dell’azione o dell’inesistenza dell’oggetto di essa.
Stando all’orientamento giurisprudenziale dominante, invero, entrambi gli elementi appena citati devono intendersi in una accezione assoluta, nel senso che, per quanto concerne l’inidoneità dell’azione, la condotta dell’agente deve essere priva di astratta determinabilità causale alla produzione dell’evento a causa della inadeguatezza dello strumento utilizzato, in modo che l’evento non si verifichi non per cause esterne ed esogene alla condotta del soggetto, ma proprio a causa dell’inadeguatezza e della “acausalità” della stessa; in punto di inesistenza dell’oggetto, essa pure deve essere intesa in termini assoluti, nel senso che deve mancare l’astratta possibilità di arrecare offesa al bene giuridico tutelato.
È chiaro, dunque, che, sulla base di tali premesse, la Corte smentisca la configurabilità, nel caso di specie, del reato impossibile. La circostanza che il carattere forte della vittima e la mancata percezione di alcune condotte materiali perpetrate dallo stalker (nei termini sopra descritti) hanno giustamente indotto il Giudice di prime cure a ritenere non consumato il delitto di cui all’art. 612 bis c.p. ma ugualmente punibile nella forma tentata dal momento che, astrattamente, la condotta del reo era idonea e diretta in modo non equivoco a commettere delitto in discorso.
La pronuncia in esame si segnala per chiarezza e coerenza dell’iter argomentativo. È evidente, infatti, che, muovendo dall’attribuzione al reato di stalking della natura di reato di danno, possa agevolmente giungersi ad affermarne la punibilità nella forma tentata, tutte quelle volte in cui, per cause non dipendenti dalla volontà del soggetto agente, l’evento dannoso descritto dalla norma incriminatrice non si verifichi.
I profili di criticità, dunque, non risiedono tanto nella coerenza della pronuncia in sé, quanto in alcuni aspetti che si pongono a monte d’ogni riflessione sul punto e che sono destinati ad insinuare il dubbio nell’interprete in ordine alla natura e alla stessa essenza del reato di cui all’art. 612 bis c.p. Tali profili, invero strettamente collegati, possono essere ridotti ad almeno due punti: a) la determinatezza della fattispecie incriminatrice in esame; b) l’effettiva riconducibilità della stessa nell’alveo dei reati di danno.
L’art. 612 bis c.p. è stato introdotto con il d.l. n.11 del 2009, convertito in l. 23/04/2009, n. 38 (art 7).
La norma si incasella, dunque, in quella tendenza, invero assai fastidiosa, del diritto penale dell’emergenza che implica l’introduzione di norme penali attraverso lo strumento del decreto legge. Peraltro, il reato in esame è stato altresì oggetto di inasprimento sanzionatorio ad opera della l. 69 del 2019 (c.d. Codice Rosso).
Questi ultimi due dati sopra riportati sono eloquenti di due specifici (ma collegati) modi d’essere della legislazione penale moderna: da un lato si introducono norme penali incriminatrici “emergenziali” con lo scopo sì di punire condotte che destano particolare allarme sociale, ma che, in realtà, sono già punite da altre norme incriminatrici “più generali”[4] – con il rischio che la nuova incriminazione, più che realmente apprestare una forma di tutela a beni giuridicamente rilevanti finisca per diventare espressione di quel simbolismo penale e giudiziario poco compatibile con i principi generali del diritto penale; dall’altro si aggravano le pene, senza considerare che più deterrente di una pena grave è una pena effettiva e certa.
Con riguardo il primo aspetto, in realtà, essendo la potestà punitiva di esclusiva competenza del Legislatore, non vi sarebbero troppi problemi – eccettuando la probabile frustrazione del principio di extrema ratio del diritto penale – ad “accettare” la punibilità delle condotte “persecutorie” quali autonomo titolo di reato, se quantomeno questo non ponesse seri dubbi di determinatezza all’interprete.
Il Legislatore italiano del 2009, infatti, probabilmente non sembra esser riuscito a rendere il fattispecie di cui agli atti persecutori coerente con il principio di determinatezza: la descrizione della condotta incriminata dall’art. 612 bis presenta diverse “zone di indeterminatezza”[5], complice anche, occorre evidenziare, la fluidità del fenomeno sociale (prima ancora che giuridico).
La norma, infatti, sembra manchevole di precisi elementi tipizzanti[6], basti pensare alle difficoltà di individuare con sufficiente precisione il perdurante e grave stato di ansia o di paura, rispetto ai quali è possibile chiedersi a quali parametri temporali e valoriali riferire la perduranza e la gravità.
Si tratta, invero, di espressioni indeterminate che sfuggono al controllo di determinatezza.
Ciononostante, si deve segnalare che la Corte costituzionale[7], investita della questione, l’ha rigettata, fornendo delle puntualizzazioni “tassativizzanti”, statuendo, tra l’altro, che devono ritenersi escluse dall’area di tipicità della norma «tutte le ansie di scarso momento, sia in ordine alla loro durata, sia in ordine alla loro incidenza sul soggetto passivo, nonché timori immaginari o del tutto fantasiosi della vittima».
Il secondo profilo problematico potrebbe essere ravvisato nella natura del delitto di atti persecutori quale reato di danno.
Il dubbio deriva dalla formulazione della norma incriminatrice che, testualmente, punisce chi minaccia o molesta taluno “in modo da” cagionare uno degli eventi contemplati dalla disposizione stessa e che si sono in precedenza evidenziati.
Orbene, non è chiaro, almeno stando alla formulazione letterale della norma, se, con la locuzione «in modo da», il Legislatore abbia voluto intendere la necessità che tra la condotta minacciosa o molesta e l’evento vi sia un vero e proprio nesso di causalità e dunque ritenere che quel «in modo da cagionare» sia letto, in realtà, quale “cagionando”.
L’opzione interpretativa del reato di atti persecutori quale reato di danno è sostenuta anche tenendo conto della severità del trattamento sanzionatorio, che appare maggiormente compatibile se riferito ad effettive lesioni del bene giuridico tutelato piuttosto che alla sola esposizione a pericolo dello stesso.
Del resto, anche in un’ottica garantistica, qualificare il delitto di stalking quale reato di evento consente di non provocare l’arretramento del penalmente rilevante, tipico dei reati di pericolo che, unitamente al descritto deficit di determinatezza della fattispecie, renderebbe ancora più problematica la norma incriminatrice nel suo complesso[8].
La suesposta riflessione, tuttavia, mira a “correggere” le conseguenze negative che si genererebbero se si volesse interpretare la disposizione in modo conforme al suo tenore letterale.
Non c’è dubbio, infatti, che «in modo da cagionare» sembrerebbe evocare la necessità che la condotta del reo sia idonea a far verificare gli eventi lesivi descritti dalla norma anche se poi, nel caso concreto, essi non si verificano.
La sola messa in pericolo concreta del bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice potrebbe, dunque, rilevare penalmente.
Così ragionando, tuttavia, si porrebbe il problema, da un lato, di essere innanzi ad un reato di pericolo concreto, che, dunque, anticipa la soglia del penalmente rilevante allo stadio della messa in pericolo del bene protetto: anticipazione del penalmente rilevante che, tuttavia, poggia le basi su una condotta probabilmente non sufficientemente determinata e sul pericolo di produzione di eventi anch’essi evanescenti a livello di descrizione tipica; dall’altro, si porrebbe, altresì, il problema di ritenere ammissibile la compatibilità del tentativo con la fattispecie così inquadrata, col rischio di dare la stura ad un inammissibile “tentativo di tentativo di atti persecutori”. Secondo l’opinione preferibile[9], infatti, il delitto tentato non è configurabile nei reati di pericolo concreto, che diventerebbero “reati di pericolo di pericolo”.
Conclusivamente, l’impianto motivazionale della sentenza in commento deve essere apprezzato per coerenza e per il tecnicismo delle argomentazioni.
Se lo stalking è reato di danno, non si può negare ch’esso sia punibile nella forma tentata.
Allo stesso tempo, tuttavia, non si può negare che anticipare allo stadio del tentativo la rilevanza penale di condotte che nella norma incriminatrice risultano descritte in modo troppo fluido ed evanescente, rischia di allargare in modo indiscriminato il potenziale applicativo della fattispecie, col pericolo di inflizioni di condanne penali per condotte che, forse, non lo meriterebbero[10].
D’altro canto, ritenere possibile – ed anzi, forse, preferibile da un punto di vista tecnico – qualificare il delitto di stalking come reato di pericolo, creerebbe in concreto maggiori problemi in punto di estensione della punibilità: sia per la naturale ontologica essenza dei reati di pericolo di implicare arretramenti della punibilità, sia in quanto a tale arretramento s’unirebbe la comunque indeterminatezza della fattispecie.
Note
[1] Corte Cass., Sez. V, sent. 6 ottobre 2020 (dep. 18 gennaio 2021), n. 1943, Pres. Sabeone, Est. Francolini;
[2] Su tutti: Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 21 maggio 2020, n.15651.
[3]Corte di Cassazione, sez. V penale – sentenza 4 giugno 2020 n. 16977
[4] Nel caso dello stalking si pensi alle molestie, all’ingiuria, alla violenza privata, alle lesioni etc.
[5] G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, Parte Speciale, Vol. II, tomo I, i delitti contro la persona, Bologna, 2013, p. 226.
[6] R. Garofoli, Compendio di Diritto Penale, Parte Speciale, 2019 – 2020, p. 593.
[7] Corte costituzionale, 11 giugno 2014, n. 172.
[8] G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, Parte Speciale, cit., p. 228.
[9] C.Fiore – S. Fiore, Diritto Penale, Milano, 2020, p. 542.
[10] M. T. Filindeu, La Cassazione sulla configurabilità del tentativo di atti persecutori, in Sistema Penale, 2 marzo 2021, par. 9.
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