La Costituzione giapponese incarna i processi di ibridazione giuridica di civil law e common law. La rinuncia alla guerra ai sensi dell’art. 9, su un complicato sfondo storico, prevede un’interessante comparazione con il testo costituzionale italiano.


Cenni storici: nuovi processi di ibridazione giuridica

L’evoluzione storica del diritto giapponese è segnata dall’ influenza del diritto cinese, nonché dalle tendenze del Confucianesimo e del Taoismo.
I primi processi di ibridazione hanno avuto inizio nel 1853 con la presa di consapevolezza da parte dell’Imperatore Meiji dell’astrazione e dell’arretratezza del diritto locale. Nel 1853 l’apparizione, nella baia di Tokyo, della squadra navale americana guidata dal Commodoro Matthew Perry diede l’innesco a una serie di eventi che portarono all’apertura del Paese, alla stipulazione dei Trattati ineguali con le potenze occidentali e, nel 1868, al crollo dello shogunato dei Tokugawa e alla restaurazione del potere imperiale.[1]

Bandiera del Giappone

In questa fase il Giappone scelse di ispirarsi ai sistemi di civil law in quanto la common law mal si adattava alla creazione di un sistema giuridico nuovo per via della tradizione giuridica preesistente.
Col passare del tempo il Giappone ha provveduto ad una trasmigrazione di modelli della tradizione sia francese che germanica sino ad un cambiamento epocale.
La sconfitta del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale è stato un evento di rilievo nel processo di riforma dal punto di vista del diritto, in particolare di quello costituzionale.
La Dichiarazione di Potsdam del 26 luglio 1945, emessa dai capi di Stato americano, britannico, e cinese, prevedeva alcune specifiche caratteristiche nella resa incondizionata del Giappone. “In particolare, il decimo punto della Dichiarazione imponeva al Paese di rimuovere tutti gli ostacoli alla reviviscenza e rafforzamento delle tendenze democratiche del popolo giapponese. La libertà di parola, di religione e di pensiero, nonché il rispetto dei fondamentali diritti umani, saranno stabilite”.[2]
Per l’attuazione di tali principi è stato necessario agire in primis sulla Costituzione: l’entrata in vigore del testo costituzionale del 1947 ha simboleggiato l’influenza determinante del sistema di common law americano, senza mai abbandonare la tradizione codicistica europeo-occidentale.

La questione dell’art.9: la rinuncia alla Guerra

Pacifismo, rispetto dei diritti umani ed uguaglianza sono stati i punti salienti di tale processo di conversione democratica. Inoltre la Costituzione Giapponese è in vigore dal 1947 ed è una delle più longeve al mondo, perché invariata per più di sessant’anni. L’articolo 9 della Costituzione nipponica recita: “Aspirando sinceramente ad una pace internazionale fondata sulla giustizia e sull’ordine, il popolo giapponese rinunzia per sempre alla guerra, quale diritto sovrano della Nazione, ed alla minaccia o all’uso della forza quale mezzo per risolvere le controversie internazionali. Per conseguire, l’obbiettivo proclamato nel comma precedente, non saranno mantenute forze di terra, del mare e dell’aria, e nemmeno altri mezzi bellici. Il diritto di belligeranza dello Stato non sarà riconosciuto.”[3] Gli spunti di riflessione in merito all’articolo 9 sono molteplici, non solo dal punto di vista giuridico, bensì anche sociopolitico e filosofico.
Il testo dell’articolo 9, ancora oggi in vigore nel dettato costituzionale nipponico, appare un unicum nella storia costituzionale generalmente considerata, trattandosi non di una mera dichiarazione di intenti, ma piuttosto di una norma vincolante e immediatamente esecutiva nell’ambito della politica nazionale.[4]
La storia dell’articolo 9 affonda le sue radici nella cultura della colpa giapponese per gli orrori della guerra.
L’articolo 9, al contrario delle altre previsioni costituzionali che avevano mostrato MacArthur come un riformatore lungimirante, intento a creare una pace durevole, sembra invece una norma penalizzante per una Nazione sovrana, oltre che ambigua da un punto divista giuridico.[5]
In sintesi con l’articolo 9 della Costituzione Giapponese, lo Stato rinuncia formalmente al diritto sovrano di belligeranza e mira a una pace internazionale basata sulla giustizia e sull’ordine. L’articolo afferma inoltre che, per raggiungere questi obiettivi, le forze armate con potenziale bellico non saranno mantenute. 
Nella bozza costituzionale l’intento originario del Comando Supremo delle potenze alleate era quello di impedire che il Giappone non solo ingaggiasse una guerra offensiva, ma anche quello di proibire alla nazione occupata di possedere qualsiasi tipo di armamento o forza in grado di provvedere all’autodifesa stessa. Tuttavia, al momento della discussione nella Dieta, l’allora primo ministro Hitoshi Ashida, del Partito Democratico giapponese, introdusse un emendamento, approvato dal Parlamento, che permise in seguito di interpretare l’articolo 9 in maniera più flessibile. Tale emendamento, trascritto nella Costituzione al paragrafo due, recita “in order to accomplish the aim of the precending paragraph” riferendosi alla missione di contribuire alla creazione di una pace internazionale basata su giustizia e ordine, missione della quale il Giappone si sentiva investito per espiare le atrocità commesse in tempo di guerra.[6]
L’articolo 9 ha causato molti dibattiti sia nella società giapponese che nella comunità internazionale.
Evento rilevante nel quadro giuridico giapponese e delle relazioni internazionali, è stato lo scoppio della Guerra di Corea quando la 24esima divisione di fanteria americana fu ritirata dal Giappone e mandata a combattere in prima linea in Corea, lasciando il Giappone senza alcuna protezione armata. MacArthur ordinò la creazione di una riserva di polizia nazionale di 75.000 persone per mantenere l’ordine in Giappone e respingere ogni possibile invasione dall’esterno.
Shigeru Yoshida, durante il suo primo mandato di primo ministro (1946-47) adottò l’interpretazione secondo la quale al Giappone era vietato sia il diritto di autodifesa che la guerra offensiva, non dando rilevanza quindi all’emendamento proposto dal suo predecessore. Eppure, durante il suo secondo mandato (1948-54) egli cambiò completamente idea, cercando di dotare il paese di forze di autodifesa nazionali e di accelerare la stipulazione di un trattato sulla sicurezza con gli Stati Uniti.[7]
La posizione di Yoshida cambiò quando, grazie al Japan-US Security Treaty[8], il primo ministro stesso assunse il controllo delle forze armate giapponesi, rinominate NSF, National Security Forces. Investito di nuove responsabilità, egli sottolineò come “il potenziale di guerra possa essere distinto dal ‘potenziale difensivo’ e che le NSF non sono incostituzionali in quanto non hanno la capacità di condurre un warfare moderno”.[9]

Sviluppi recenti dalla guerra del Golfo alla guerra in Ucraina: problemi interpretativi

Nel corso degli anni della Guerra Fredda e dopo la sua conclusione però, lo Stato asiatico è riuscito a ritagliarsi un proprio ruolo nel mondo grazie proprio al suo pacifismo utilizzando le proprie risorse per la crescita economica e commerciale piuttosto che dell’esercito; utilizzando quindi metodi alternativi a quelli delle Superpotenze prima e delle Nazioni più potenti poi il Giappone è infine diventato la seconda potenza economica mondiale negli anni ’90.
La Guerra del Golfo che durò ben otto anni fino al 1988, condusse il Giappone ad apprendere tre lezioni[10]:

  • L’era post-Guerra fredda non era esente da conflitti armati;
  • Il Giappone era impreparato a ricoprire una posizione di leadership negli affari internazionali;
  • Una nazione non può raggiungere una statura internazionale esclusivamente con mezzi economici.

Difatti il Giappone prese parte alla guerra del Golfo solo tramite contributi finanziari.
Tre giorni dopo l’invasione del Kuwait avvenuta il 2 agosto 1990, il Giappone proclamò che avrebbe onorato l’embargo nei confronti dell’Iraq. Il 30 agosto, venne strappato un assegno di un miliardo di dollari, mentre la comunità internazionale mostrava di essere compatta e unita nella risposta all’invasione, con il Consiglio di Sicurezza che autorizzò l’uso della forza se l’Iraq non avesse ritirato le sue truppe entro quarantacinque giorni.[11] Quando il Giappone annunciò a settembre che avrebbe versato al fondo per la coalizione altri 3 miliardi di dollari, il Ministro del Tesoro americano, Nicholas Brady, criticò aspramente la decisione, definendo il supporto “troppo misero e troppo tardivo”.[12]
Il Giappone si ritrovò limitato dall’articolo 9 della Costituzione e, anche trovando una scorciatoia interpretativa, il 78% della popolazione giapponese era contraria all’invio di truppe all’estero.
Una nuova sfida invase l’interpretazione giuridica giapponese separata da un lato dall’articolo 9 e dall’altro dai nuovi standard internazionali, tra i quali l’articolo 2, paragrafo 4, della Carta delle Nazioni Unite (autodifesa).
Oltre il danno, anche la beffa. A guerra finita, il governo Kuwaitiano rifiutò di inserire il Giappone nella lista dei paesi che ringraziò per averlo aiutato nel processo di liberazione. Gli anni a seguire hanno visto il dibattito acuirsi in merito ad una riforma dell’articolo 9. Nel 2006 il Gabinetto Koizumi fece una proposta di revisione ma l’emendamento non passò, dal momento in cui il supporto stesso per una riforma costituzionale non si traduce direttamente in voti per una particolare proposta, specialmente in un sistema multipartitico come quello giapponese.
Nonostante il grande supporto dell’opinione pubblica, il Partito Liberal Democratico necessitava del supporto del Partito Democratico giapponese per la revisione costituzionale, iter stabilito dall’art.96 della Costituzione: “L’iniziativa per gli emendamenti da apportare alla presente Costituzione spetta alla Dieta, mediante il voto concorde dei due terzi dei membri di ciascuna Camera. Tali emendamenti saranno poi sottoposti al popolo per la ratifica, che richiederà il voto favorevole della maggioranza di tutti i voti espressi a quel fine, in un referendum apposito ovvero in occasione di elezioni stabilite dalla Dieta. Gli emendamenti, in tal modo ratificati, saranno immediatamente proclamati dall’Imperatore in nome del popolo, quale parte integrante della presente Costituzione.”
L’ex Primo Ministro Abe ha reinterpretato l’articolo 9, puntando al superamento del limite di spesa militare oltre l’1% del PIL nazionale. Inoltre, gli USA puntavano maggiormente ad assicurarsi il supporto del Giappone attraverso il riconoscimento del diritto di autodifesa collettivo. Nel luglio 2014, il Giappone ha introdotto con reinterpretazione maggiori poteri alle sue forze di autodifesa, consentendo loro di difendere altri alleati in caso di guerra dichiarata contro di loro. Questa mossa potenzialmente pone fine al pacifismo di lunga data del Giappone e ha attirato pesanti critiche da Cina e Corea del Nord.

Con il Governo attuale del Primo Ministro Kishida la spesa militare giapponese si avvicina all’ambito 1% in un’ottica di deterrenza dinanzi l’espansione cinese nella regione indo-pacifico.
La complessità dell’articolo 9 ha proiettato il Giappone anche nella guerra in Ucraina ove paesi come Svizzera, Svezia e Finlandia hanno abbandonato la propria neutralità. La crisi ucraina ha condotto Tokyo alla necessità di dotarsi di un concreto potere offensivo, superiori capacità di deterrenza e nuovi strumenti sanzionatori.[13]Infatti il Giappone ha deciso di inviare equipaggiamento non letale a Kiev, per favorire la difesa di un Paese «sotto attacco armato». 

Rinunciare alla guerra vs ripudiare la guerra

Schmitt affermava che non è mai venuta meno la violenza. Ne sono risultate profondamente trasformate le sue forme e il suo vocabolario, “che non conosce più la guerra, ma solo esecuzioni, sanzioni, spedizioni punitive, pacificazioni, difesa dei trattati, polizia internazionale, misure per la preservazione della pace”.[14]
Adoperando un metodo comparatistico, è ben noto che, a differenza dell’articolo 9 della Costituzione giapponese, l’articolo 11 di quella italiana recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. L’articolo 11 della Costituzione italiana fissa il principio del ripudio della guerra sia come strumento di offesa nei confronti degli altri popoli; sia come mezzo per la risoluzione di controversie internazionali.
L’Italia ammette la guerra solo come strumento di difesa del territorio e dei suoi cittadini con l’intento di improntare rapporti di reciproco rispetto. Ciò risponde ad un duplice intento: quello pacifista e quello di trasferire sul piano internazionale quei principi di libertà, uguaglianza e sostanziale rispetto della persona umana, che si volevano affermare ed attuare nell’ordine interno. Va ribadito dunque che la Costituzione ha voluto ammettere una sola possibilità di guerra, quella di legittima difesa, ossia quella necessaria per difendere il proprio territorio nazionale dall’ aggressione di un altro Stato, anche in relazione all’ art 52 della Costituzione stessa, secondo cui la difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Si è solennemente sostenuto il ripudio della guerra come risoluzione delle controversie internazionali “senza distinzione alcuna” e si è dunque ripudiata anche la cosiddetta “guerra giusta”[15] diversa da quella di difesa del territorio.
Viene solennemente sancita l’inammissibilità delle guerre di aggressione e delle guerre di risoluzione di controversie internazionali sia giuridiche sia politiche.
L’art. 11 consente, in condizioni di reciprocità, ulteriori rinunzie alla propria sovranità, al fine di assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni, ed inoltre promuove e favorisce le organizzazioni internazionali (ONU, Comunità Europea) e le relative ratifiche non possono contenere norme o precetti che contrastino con la norma costituzionale.
Tale previsione, quindi, non elimina il diritto di belligeranza di una Nazione sovrana, e non nega, per esempio, il diritto alla legittima difesa, per cui non è possibile ravvisare una clausola analoga all’art. 9 della Costituzione giapponese.


Note

[1] Introduzione al diritto giapponese, Giappichelli Editore, p.13
[2] Ibid, p. 16
[3] Art. 9, cap. II Costituzione Giapponese.
[4] Federico Lorenzo Ramaioli, Addio alle armi. L’articolo 9 della Costituzione giapponese, Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale.
[5]Cfr. Thomas P. ATERSON, J. Garry LIFFORD, Shane J.M. ADDOCK Deborah Kisatsky, Kenneth American Foreign Relations: A History, volume 2: Since 1895, Boston, 2010, pp. 149 – 156.
[6] Kenneth G. Henshall, Storia del Giappone (1991), traduzione italiana di Claudia Terraneo, Oscar Mondadori S.p.A., Milano, pag. 229.
[8] Shigeru Yoshida, discorso alla commissione della Dieta del 1952.
[9] Ivi.
[10] Francis Fukuyama e Kongdan Oh, The U.S.-Japan security relationship after the Cold War, RAND (National Defense Research Institute), 1993, Santa Monica, pag. 15

[11] Risoluzione 678 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite
[12] Wada Shuichi (2010) Article Nine of the Japanese Constitution and security policy: realism versus idealism in Japan since the Second World War, Japan Forum 22:3-4, pag. 420.
[13] Available on https://www.limesonline.com/cartaceo/al-giappone-non-basta-piu-lautodifesa
[14] C.SCHMITT, Der Nomos der Erde im Volkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Berlino, 1974.
[15] definita da N. BOBBIO come una guerra legale.


Foto copertina: The original of “The Constitution of the State of Japan” This constitution was promulgated in 1946, and it was taken effect in 1947.