Rivedere gli accordi “Whatever it takes”.


Introduzione

Sin dalla loro stipulazione, gli accordi Schengen sono divenuti, a parere di molti, l’inconfutabile evidenza del riuscito e compiuto processo di integrazione europea, per la portata rivoluzionaria in materia di circolazione di persone e merci in Europa e per il conseguente impatto che essi hanno avuto sulla vita dei cittadini europei. Lo stesso Parlamento europeo, nel presentare l’area Schengen all’interno del proprio sito ufficiale, la descrive come “uno dei successi concreti dell’integrazione europea” e, ancora, come “uno dei pilastri del progetto europeo[1]. Eppure, a quasi quarant’anni dalla stipulazione degli accordi che hanno dato vita allo spazio Schengen, i massicci flussi migratori diretti in Europa a partire dalle Primavere arabe (che, come è noto, hanno determinato la perenne instabilità dell’area del Maghreb e del Medio-oriente), il rischio terrorismo (con cui diversi Stati membri dell’Unione hanno già tragicamente fatto i conti), i nuovi assetti geopolitici (che, prima in sordina, ed ora, dallo scoppio del conflitto russo-ucraino, in maniera tragicamente evidente, stanno subendo una profonda trasformazione), il riemergere più o meno diffuso dei nazionalismi hanno messo in seria discussione l’effettiva efficienza del meccanismo di circolazione previsto dagli accordi succitati e, di conseguenza, l’effettiva efficacia del processo di integrazione europea.

Cos’è l’Accordo Schengen?

Il 14 giugno 1985 la piccola cittadina lussemburghese di Schengen–quattromila anime nel cantone di Remich–viene catapultata al centro della storia dell’integrazione europea: in quel giorno, infatti, il Regno del Belgio, la Repubblica federale di Germania, la Repubblica francese, il Granducato di
Lussemburgo ed il Regno dei Paesi bassi stipularono l’Accordo con il quale fu avviato il processo di graduale soppressione dei controlli alle frontiere, al fine di consentire la libera circolazione di persone e merci fra gli Stati contraenti. Ciò che spinse le parti a concludere tale convenzione, come è evidenziato nelle premesse che introducono il contenuto della Convenzione di applicazione dell’Accordo[2], fu proprio la previsione contenuta nel Trattato istitutivo della Comunità Europea (TCE) che, al Capo I–rubricato “Unione doganale’’–già prospettava la realizzazione di un mercato unico fondato su uno spazio interno privo di frontiere[3]: le parti contraenti, allora, ritennero di imprimere un concreto impulso al perseguimento dell’obiettivo enunciato nel TCE, giustificando, in apertura, la stipulazione dell’Accordo mediante la coincidenza del fine da loro perseguito con l’obiettivo previsto dal Trattato. La previsione fondamentale, perno della rivoluzione avviata con l’entrata in vigore dell’Accordo, è contenuta nell’articolo 1 della Convenzione di Attuazione: “Le frontiere interne possono essere attraversate in qualunque luogo senza che venga effettuato il controllo delle persone”, ove per “frontiere interne’’ bisogna intendere “le frontiere terrestri comuni delle Parti contraenti, i loro aeroporti adibiti al traffico interno ed i porti marittimi per i collegamenti regolari di passeggeri in provenienza o
a destinazione esclusiva di altri porti situati nel territorio delle
Parti contraenti, senza scalo in porti situati al di fuori di tali
territori
”. Come necessaria conseguenza dell’abolizione delle frontiere interne, l’art. 3 prevede un regime opposto per le frontiere cd. esterne, sancendo che “Le frontiere esterne possono essere attraversate, in via di
principio, soltanto ai valichi di frontiera e durante le ore di
apertura stabilite
”, mentre l’art.6 sottopone al controllo delle autorità competenti la circolazione transfrontaliera alle frontiere esterne “nel quadro delle competenze nazionali e della legislazione nazionale, tenendo conto
degli interessi di tutte le Parti contraenti e per i territori delle
Parti contraenti
”, passando poi ad indicare i criteri secondo i quali tali controlli debbono essere effettuati. Va, poi, sin d’ora segnalata la previsione contenuta nell’art.19, secondo cui “gli stranieri titolari di un visto uniforme, entrati regolarmente nel territorio di una delle Parti contraenti, possono circolare liberamente nel territorio di tutte le Parti contraenti per
il periodo di validità del visto
”.

Il titolo III dell’Accordo, inoltre, prevede una serie di norme che disciplinano la cooperazione tra le forze di polizia, la cui implicazione di maggior rilievo è richiamata nell’art.41 a norma del quale “gli agenti di una delle Parti contraenti che, nel proprio Paese, inseguono una persona colta in flagranza di commissione di uno dei reati di cui al paragrafo 4 o di partecipazione
alla commissione di uno di tali reati, sono autorizzati a continuare l’inseguimento senza autorizzazione preventiva nel territorio di un’altra Parte contraente quando le autorità competenti dell’altra Parte contraente non hanno potuto essere previamente avvertite dell’ingresso in detto territorio, data la particolare urgenza”
o “quando tali autorità non hanno potuto
recarsi sul posto in tempo per riprendere l’inseguimento
”.

La disciplina dell’area Schengen va completata richiamando quanto previsto dal Regolamento n. 399/2016 che istituisce il Codice delle Frontiere Schengen, allo scopo di regolare la possibilità di reintrodurre temporaneamente i controlli alle frontiere interne: esigenza certamente determinata, come si accennava in apertura, dalle rivoluzioni della Primavera araba del 2011 che, secondo quanto riportato nella comunicazione della Commissione del 16 settembre 2011, intitolata “Governance Schengen – Rafforzare lo spazio senza controlli alle frontiere interne”[4], hanno determinato un afflusso ingente di immigrati in alcuni paesi dell’Unione Europea (Ue) tale da evidenziare “la necessità di rafforzare l’applicazione delle norme comuni dello spazio Schengen e di regolare la reintroduzione dei controlli alle frontiere interne in circostanze eccezionali, in particolare quando il funzionamento generale dello spazio Schengen è messo in pericolo[5]. In attuazione delle previsioni del Regolamento, rivisto parzialmente nel 2019, attualmente sono sette i Paesi che hanno reintrodotto controlli temporanei alle frontiere interne: Estonia, Norvegia, Austria, Germania, Svezia, Danimarca, Francia, tutti–ad eccezione dell’Estonia–per motivi riconducibili al rischio terrorismo o alle complicanze derivanti dalla questione immigrazione. Che alla prima “prova di carico” cui l’area Schengen è stata sottoposta, il meccanismo che l’ha retta sinora stia già crollando? Approfondire la questione è lo scopo di questa trattazione.

La libertà di circolazione nei Balcani: da Mini-Schengen alla Open Balkan Initiative

Oggi sono ventisei i Paesi che compongono lo Spazio Schengen, di cui ventidue sono Stati membri dell’Unione Europea–l’Irlanda non ha aderito, mentre Bulgaria, Croazia, Cipro e Romania “dovrebbero col tempo aderire a Schengen[6]– e quattro sono Stati extra-Ue (Islanda, Norvegia, Svizzera e Liechtenstein). Come è noto, da tempo gli Stati dei Balcani occidentali auspicano di aderire all’Unione Europea: attualmente soltanto Macedonia del Nord ed Albania hanno ottenuto l’ufficiale status di candidati, mentre sono in corso i negoziati dell’Ue con Serbia e Montenegro ed invece Bosnia e Kosovo restano soltanto potenziali candidati. Detti Stati stanno effettuando diversi tentativi di cooperazione al fine di raggiungere quella stabilità economica e sociale necessaria per poter progredire sulla strada verso Bruxelles: ne è una prova il programma di integrazione regionale da subito denominato “Mini-Schengen”, approntato nel 2019 da Serbia, Macedonia e Albania, con lo scopo di pervenire ad un’area balcanica “more stable and predictable”, ove vi sia libera circolazione di persone, beni, capitali e servizi, come unica possibilità di divenire più competitivi e di svilupparsi e crescere più velocemente di prima[7]. La crisi pandemica da Covid-19 ha, poi, inevitabilmente frenato la concretizzazione del progetto, mettendo a dura prova il sistema economico dei Paesi balcanici, finché il 29 luglio 2021, a margine del Forum per la cooperazione economica regionale tenutosi a Skopje, Albania, Macedonia del Nord e Serbia lo hanno rilanciato sotto il nome di “Open Balkan Initiative”[8]: “L’obiettivo è semplice” –si legge nella dichiarazione congiunta dei Capi di Governo dei tre Paesi– “realizzare un mercato unico, senza frontiere”. Sono stati firmati un accordo e due memoranda: l’accordo riguarda la cooperazione in caso di calamità naturali e, mentre uno degli accordi d’intesa è volto a facilitare la circolazione di beni con miglioramento della cooperazione economica, l’altro è orientato alla creazione di un libero accesso al mercato del lavoro nella regione, con l’obiettivo di una completa abolizione  dei controlli alle frontiere entro l’1 gennaio 2023: secondo le stime della Banca Mondiale, il successo di tale programma garantirebbe ai Paesi aderenti un risparmio di circa 2,7 miliardi di euro ogni anno. Si badi che il vero elemento di novità non risiede tanto nel progetto di integrazione economica in sé–l’Unione Europea infatti “coinvolge la regione in diverse iniziative volte a stimolarne lo sviluppo e a prepararne l’ingresso nella struttura europea”– quanto nel fatto che “si tratta del primo progetto di cooperazione regionale nato su proposta degli stessi Paesi balcanici e non a guida Ue[9]. L’iniziativa è stata fortemente criticata da Kosovo, Montenegro e Bosnia[10], che ritengono, piuttosto, di dover potenziare la cooperazione regionale mediante i programmi europei, “invitando i leader della regione a impegnarsi solo per l’agenda europea e nelle relazioni transatlantiche[11].
Ad ogni modo, sebbene il progetto di eliminazione progressiva delle frontiere in stile Schengen non sia ancora compiutamente avviato, già sono state evidenziate numerose criticità. La Commissione europea ha innanzitutto sottolineato come proprio la cd. rotta balcanica sia uno dei principali punti di ingresso di droga illegale nell’Unione europea-per cui viene da sé che un’abolizione totale dei controlli alla frontiere faciliterebbe enormemente il traffico di sostanze stupefacenti nella regione; in secondo luogo, gli elevati livelli di corruzione presenti nei territori balcanici sarebbero terreno fertile per attività criminali transfrontaliere; infine, risulterebbe pressoché impossibile tenere traccia dell’ingresso di cittadini di Stati terzi nonché dell’importazione di beni provenienti da mercati diversi[12]. Le premesse, dunque, sono tutt’altro che incoraggianti, e piuttosto che facilitare l’ingresso degli Stati balcanici nell’Ue, la concretizzazione della Open Balkan Initiative, portando con sé problemi di difficile soluzione come quelli appena enunciati, potrebbe allontanarli ulteriormente dalla concreta possibilità di realizzare il loro “sogno europeo”.

Aprire fuori per chiudere dentro. Il dogma della libera circolazione alla prova della crisi migratoria.

Per stessa ammissione del Parlamento europeo “l’arrivo di più di un milione di rifugiati e migranti nel 2015 ha messo in luce le carenze del sistema europeo di asilo[13] e, probabilmente, ha messo in crisi lo stesso sistema Schengen.

Va innanzitutto ricordato come, nell’ultimo decennio, l’Europa si sia trovata a dover fare i conti con “i flussi migratori più rilevanti dalla Seconda guerra mondiale[14], trovandosi difronte ad una vera e propria “emergenza” (qualificazione della fattispecie che, se poteva essere corretta nei primi anni in cui il fenomeno si è verificato, risulta oggi quantomai anacronistica e contraddittoria-basti ricordare che per emergenza si intende una “circostanza imprevista[15], quale non è il fenomeno migratorio che interessa l’Europa, ormai più che prevedibile nell’intensità, nelle tempistiche, nelle modalità, nelle cause). Tale emergenza ha raggiunto il suo culmine nel 2015, quando sono state registrate 1,25 milioni di prime richieste di asilo nell’Unione europea–la recente crisi pandemica ha soltanto affievolito il fenomeno, che nelle ultime settimane sta assumendo nuovamente i connotati propri dell’era pre-Covid[16]. Ingente problema è, poi, rappresentato dal numero di immigrati irregolari che tentano di valicare i confini Ue: basti pensare ai dati del 2021, anno in cui sono stati registrati 199.900 attraversamenti irregolari delle frontiere, di cui 112.600 via mare e 87.300 via terra, un aumento del 60% rispetto all’anno precedente[17].

L’Unione Europea si è da tempo dotata di un Sistema Comune Europeo di Asilo (CEAS), partendo dalla constatazione che “in uno spazio senza frontiere interne, l’asilo richiede una regolamentazione armonizzata a livello dell’UE”, assente la quale “si produrrebbe con tutta probabilità un movimento secondario dei richiedenti asilo[18]–si noti sin d’ora e si tenga a mente l’estrema attenzione che il Legislatore comunitario pone sulla questione dei movimenti secondari, sulla quale si tornerà tra breve. Il CEAS si configura, dunque, quale vero e proprio quadro legislativo comunitario, ispirato alla Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951[19] come modificata dal relativo protocollo del 1967, avente lo scopo di definire criteri e norme comuni in materia di protezione internazionale, di fatto tendendo ad una armonizzazione della applicazione e della interpretazione della normativa in materia di asilo tra gli Stati membri[20]: esso è l’unico sistema esistente “a regolamentare le questioni sia sostanziali che procedurali per la protezione internazionale, dall’ingresso del richiedente asilo in uno Stato membro fino all’accertamento definitivo dello status di protezione[21]. Secondo le illuminanti osservazioni del Dott. Lorenzo Vianelli, contenute in Proteggere o Controllare?-Il Sistema Europeo Comune di Asilo nello spazio Schengen[22] (recante i risultati dello studio che egli ha dedicato proprio all’esame dei limiti del CEAS[23]), che ispirano questo punto cruciale della presente trattazione, “la cooperazione in materia di asilo venne inizialmente concepita all’interno di una più ampia volontà di ‘securitizzare’ il mercato interno[24], come reazione tanto al timore di un imminente aumento delle domande di asilo da parte di persone in fuga dai Paesi dell’Europa orientale–che a partire dal 1989 facevano i conti, come è noto, con la caduta dei regimi sovietici–, quanto all’incremento effettivo degli arrivi dai Paesi del sud del mondo che il vecchio continente aveva conosciuto a partire dalla seconda metà degli anni Settanta[25]. In un documento del 1991[26], la Commissione Europea osservava come “a partire dal termine dell’immigrazione permanente per motivi di lavoro a metà degli anni Settanta, la presentazione di una domanda d’asilo è divenuta un mezzo per entrare in una comunità in cui è impossibile immigrare” al punto che “ogni restrizione all’immigrazione permanente introdotta dagli Stati membri è stata aggirata attraverso il ricorso alla procedura d’asilo”. Da questo momento, allora, reprimere il cd. asylum shopping (la pratica per cui un richiedente asilo presenta domanda di protezione internazionale in più di uno Stato membro, avendo o non avendo già ricevuto protezione internazionale in uno di tali Stati membri: si fa riferimento, cioè, all’abuso della procedura d’asilo per aumentare le probabilità di successo della domanda[27]) diventa obiettivo di primaria importanza per gli Stati membri: è questa la ragione per cui la prima misura adottata in materia riguardò l’individuazione dei criteri da seguire per individuare quale Stato avesse la responsabilità per l’esame delle domande d’asilo[28]. Si perviene così alla celebre Convenzione di Dublino del 1990, entrata in vigore nel 1997, rubricata come “Convenzione sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri delle comunità europee’’: essa impegna gli Stati membri ad esaminare “la domanda di asilo di qualsiasi straniero, presentata alla frontiera o nel rispettivo territorio” (art.3, par.2), subito dopo specificando che “la domanda è presa in esame da un solo Stato membro” (art.3, par.2)[29], sancendo cioè il cd. principio del Paese di primo ingresso, già inserito nella Convenzione di applicazione dell’accordo Schengen all’art.29, capitolo 7, titolo II[30], ove si afferma che “le Parti contraenti si impegnano a garantire l’esame di ogni domanda di asilo presentata da uno straniero nel territorio di una di esse”. Secondo il Vianelli, tale logica ha un duplice scopo: essa, mira, da un lato “a combattere i movimenti all’interno dello spazio comune, visto che i richiedenti asilo non hanno la possibilità di scegliere dove presentare la propria domanda d’asilo”, dall’altro ad inibire il flusso di “domande di asilo concedendo a ogni richiedente un’unica possibilità[31]; tale logica e tale principio sono stati ripresi dal cd. Regolamento Dublino II del 2003 e dal cd. Regolamento Dublino III del 2013, divenendo parte dell’ordinamento giuridico comunitario, in quanto posti tutt’oggi a fondamento del CEAS.

Se il Trattato di Amsterdam del 1997 ha poi individuato i fondamenti giuridici su cui fondare la elaborazione del CEAS, furono, tuttavia, le Conclusioni di Tampere del 1999[32] a riferirsi per la prima volta ad un “sistema europeo comune d’asilo (…) basato sull’applicazione integrale ed estensiva della Convenzione di Ginevra”. Si perviene, così, al cd. Regolamento Dublino II del 18 febbraio 2003 “che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo[33] che ribadì il principio del Paese di primo ingresso, come accennato in precedenza. Il regolamento del 2003 venne, poi, a sua volta abrogato dal cd. Dublino III[34], che conservando anch’esso il medesimo principio di attribuzione della responsabilità dell’esame della domanda d’asilo al Paese di primo ingresso, presenta, quali novità rilevanti, l’ampliamento dei termini per il ricongiungimento familiare, la possibilità di fare ricorso contro un ordine di trasferimento e maggiori tutele per i minori[35]. Il sistema Dublino, inoltre, si fonda anche sull’utilizzo dell’Eurodac, l’European Dactyloscopie, il database europeo delle impronte digitali dei richiedenti asilo e delle persone fermate mentre varcano irregolarmente una frontiera esterna dell’Unione, che consente di verificare se un cittadino straniero abbia già presentato una domanda d’asilo in Stati membri diversi da quello in cui si trova o se è entrato irregolarmente nel territorio dell’Unione[36]: risulta, così, evidente come tale sistema “escluda i richiedenti asilo (…) dallo spazio di libera circolazione attraverso un vero e proprio meccanismo di rebordering interno” essendo “oggetto di specifiche misure di controllo che riproducono pratiche di confine nell’area Schengen[37]. Sembra quasi, in sostanza, che l’armonizzazione dei sistemi di asilo nazionali sia concepita unicamente e immediatamente in funzione del controllo della mobilità, più che essere il frutto della volontà di costruire un efficace spazio di protezione conformato ai principi della Convenzione sui rifugiati[38]: una delle contraddizioni del sistema Dublino (e, quindi, di quello Schengen) sta proprio nel “primato dell’esigenza del controllo rispetto a quella di tutela[39]. In conclusione, va rilevata una seconda contraddizione, che pure fa riferimento ad una realtà fattuale, prima che giuridica: la crisi migratoria che ha investito l’Europa (rectius, l’Unione Europea) a partire dal 2015, ha dimostrato come i richiedenti asilo desideravano, tentavano e, talvolta, riuscivano a raggiungere Stati diversi da quelli loro imposti dal sistema Dublino[40], dimostrando “per l’ennesima volta (…)una sostanziale ingovernabilità, rifiutando lo Stato di competenza imposto loro da un sistema completamente sordo nei confronti delle rivendicazioni e dei desideri individuali[41] mettendo a nudo “l’ipocrisia del CEAS”, vanificando “la presunzione di un’ordinata gestione della mobilità”, continuando a rifiutare “il ruolo di meri oggetti di politiche e accordi fatti sulla loro pelle da parte di Stati e istituzioni europee[42].

Prima dell’emergenza pandemica e la situazione bellica in Ucraina, la questione migrazione era certamente quella maggiormente affrontata dagli organi di stampa, dalle forze politiche, dalle istituzioni nazionali e comunitarie e certamente quella alla quale l’opinione pubblica prestava maggiore attenzione. Decine di migliaia di immigrati hanno raggiunto le coste europee (soprattutto quelle greche ed italiane) negli ultimi sette anni, per la maggior parte intenzionati, comunque, a raggiungere Paesi del nord-Europa, dando luogo ai cd. movimenti secondari cui si accennava in precedenza. Di fronte alla spaventosa inerzia delle istituzioni comunitarie, incapaci di coordinare l’azione degli Stati membri e di dare un impulso unitario al sistema dell’accoglienza nell’Unione, i singoli Paesi, lasciati a se stessi, sono stati costretti a regolarsi in autonomia[43]: la solidarietà europea si è rivelata, così, inesistente dinanzi alla prova delle prove-ma non è proprio nelle prove che si dimostra e si concretizza l’essere ‘comunità’?-, quella sul sistema accoglienza appunto, sostanziandosi in impegni volontari dei singoli Stati, difficilmente raggiunti, quasi mai onorati (tra ottobre 2019 e marzo 2021 soltanto il 2,2% del totale dei migranti sbarcati in Italia è stato ricollocato sulla base degli accordi di Malta), lasciando ai Paesi di primo ingresso-Italia, Spagna, Grecia, ma anche Polonia e Ungheria-il fardello economico, sociale, politico, etico-morale della gestione dei flussi migratori. Per comprendere la criticità della questione, basti ricordare che ancora nell’ottobre scorso i Ministri dell’Interno di ben dodici paesi Ue[44] richiedevano, con una lettera indirizzata alla Commissione europea e alla Presidenza del Consiglio Ue, fondi per la costruzione di muri alle frontiere[45]. Consapevoli del punto critico cui si era già giunti, il 9 marzo 2016 il Parlamento europeo ed il Consiglio hanno emanato un regolamento contenente le regole che governano gli attraversamenti delle frontiere esterne ed interne allo spazio Schengen, il cd. Schengen Borders Code[46]. Dopo l’ampia disciplina volta a regolare i controlli alle frontiere esterne, il capitolo II arriva a regolare la reintroduzione temporanea dei controlli alle frontiere interne in caso di minaccia all’ordine pubblico o alla sicurezza interna di uno Stato membro. Risulterebbe quantomai contraddittorio, ossimorico addirittura, anche a chi non è un tecnico della materia, prevedere, al fine di proteggere l’area di libera circolazione Schengen dai pericoli alla sicurezza di uno Stato membro, introdurre controlli alle frontiere interne, di fatto chiudendole. A sanare tale aporia, provvederebbe, seppure parzialmente, lo stesso articolo 25, in apertura del capitolo in esame, chiarendo che tale reintroduzione può ammettersi soltanto per un periodo limitato di non più di 30 giorni; senonché, immediatamente dopo, si afferma che la reintroduzione può, alternativamente alla prima ipotesi, estendersi “per la durata prevedibile della minaccia grave se la sua durata supera i 30 giorni”: un tempo, quindi, potenzialmente illimitato. Difatti, posto che la reintroduzione dei controlli alle frontiere è stata praticata da sette Paesi per pericoli legati al rischio terrorismo o ai movimenti secondari-e quindi alla questione migratoria-, allo stato dell’arte, inerme l’Europa e assente qualunque efficiente, efficace e seria politica di accoglienza, permanendo, in sintesi, l’emergenza immigrazione pure a distanza di sette anni dai primi sbarchi, i controlli alle frontiere interne potranno reintrodursi sine die.
L’evidente fallimento del sistema Dublino, i flussi migratori che l’UE si è dimostrata incapace di gestire e, in ultimo, la crisi pandemica da Covid-19 con cui l’Europa fa i conti dal 2020, hanno spinto la Commissione ad una necessaria ed inevitabile presa di coscienza del fallimento del Sistema Schengen nella sua interezza. Il 14 dicembre 2021, infatti, la Commissione ha proposto norme aggiornate “volte a rafforzare la governance dello spazio Schengen[47]: nelle premesse si chiarisce l’importanza che l’area Schengen riveste per il processo d’integrazione europea “part of Europe’s DNA[48], la cui istituzione ha portato “significant social and economic benefits to European society”. Tuttavia, immediatamente dopo, si sottolinea come la crisi dei rifugiati del 2015 abbia portato come conseguenza  “that a number of Member States reintroduced internal border controls” oltre al fatto che “internal border controls were also reintroduced in response to the persistent terrorist threat following a spate of attacks on European soil” e che  la recente pandemia “also presented an unprecedented challenge and has placed a major strain on the Schengen area, leading many more Member States to reintroduce internal border controls”, ammettendo, in conclusione, che tali eventi “undermined the climate of trust needed to sustain an area free from internal border controls”.

Come conseguenza di tale constatazione, la Commissione, al fine di ristabilire quella fiducia venuta meno negli ultimi anni–per sua stessa ammissione–nella sacralità del sistema Schengen, suggerisce innanzitutto di rafforzare i controlli alle frontiere esterne tenendo conto delle challenges collegate alla questione sanitaria e alle “instrumentalisations” dei migranti. Per ovviare, invece, alle sfide lanciate dalla storia agli Stati membri, che provano, quindi, le frontiere interne, si chiarisce come la reintroduzione dei controlli alle frontiere interne debba essere l’extrema ratio, dovendo preferire misure alternative per far fronte alle emergenze, di carattere umanitario o sanitario, che volta per volta si presentano, migliorando e dando precedenza ai controlli di polizia prima di decidere in merito alla temporanea riduzione dei controlli interni “[in order] to ensure a sufficiently high level of security without needing to resort to internal border controls”.

Difendere Schengen o i confini? L’amletico dubbio di fronte al rischio terrorismo

Al di là di quanto auspicato dalla Commissione, pur nel rispetto dello Schengen Borders Code, come sopra si accennava, ad oggi, sono sette i Paesi dell’area Schengen ad aver reintrodotto i controlli alle frontiere interne: la Francia, dall’1 maggio al 31 ottobre 2022 per ragioni legate al Covid, ma anche per la “continua minaccia terroristica e a causa di movimenti secondari”; l’Estonia, per ragioni legate a movimenti secondari, “al fine di facilitare l’ingresso di persone provenienti dall’Ucraina”; la Norvegia che, fino al prossimo 11 novembre, ha chiuso i porti che hanno collegamenti marittimi con Danimarca, Germania e Svezia per la minaccia terroristica e i movimenti secondari; l’Austria, che ha chiuso le frontiere con Ungheria e Slovenia, anch’essa fino al prossimo 11 novembre, per ragioni legate ai movimenti secondari, alla minaccia terroristica e al crimine organizzato; la Germania, che ha chiuso le frontiere con l’Austria per ragioni legate ai movimenti secondari; la Svezia, anch’essa a causa della minaccia terroristica, così come anche la Danimarca.

È evidente come, nella quasi totalità dei casi (tutti, ad eccezione di quello dell’Estonia), i motivi che hanno giustificato la chiusura delle frontiere di tali Paesi sono due: i movimenti secondari degli immigrati che hanno superato, in un modo o nell’altro, le frontiere esterne ed i rischi legati alla minaccia terroristica. Si rilevi poi che, quasi sempre, tali cause compaiono entrambe, ed entrambe giustificano la reintroduzione dei controlli alle frontiere interne: ne deriva che un’assenza di controllo alle frontiere, consentendo una più libera circolazione delle persone, consente anche una più libera circolazione dei terroristi che, come comprovato dalla cronaca degli ultimi anni[49], si confondono tra le migliaia di immigrati irregolari. È possibile trovare conferma di quanto si sta sostenendo, citando i dati relativi alle espulsioni per estremismo[50]: tredici nel 2014, sessantasei nel 2015, alcune delle quali hanno riguardato “individui che erano già stati rimpatriati in precedenza, ma che avevano poi cercato di ritornare in Italia, nonostante il divieto di rientro” (ma questo è un problema che riguarda le frontiere esterne, che andrebbe affrontato in altra sede-le abbiamo aperte, fuori, per erigere dei muri di cemento, dentro[51]). Proprio a causa del fatto che della libertà di circolazione possono facilmente avvalersi soggetti pericolosi legati ad ambienti estremisti, complice la crisi migratoria dell’ultimo decennio, i Paesi succitati hanno ritenuto necessario introdurre nuovamente controlli alle frontiere interne. In ogni caso, le stesse istituzioni europee tentano da lungo tempo di introdurre nuovi ed efficaci meccanismi di controllo dei transiti di cittadini di Stati terzi, che da un lato consentano di mantenere le frontiere (interne) aperte, dall’altro ne garantiscano comunque la sicurezza (sono tuttora in corso di realizzazione l’istituzione di un  sistema di ingressi-uscite dell’UE (EES), volto a consentire la registrazione dei dati di ingresso e uscita dei cittadini dei Paesi terzi all’atto di attraversare le frontiere esterne; l’istituzione di un Sistema di informazione e autorizzazione per i viaggi (ETIAS) per consentire controlli di sicurezza su passeggeri che viaggiano in Europa in regime di esenzione del visto prima di arrivare alle frontiere Ue; oltre la riforma del Sistema di Informazione Schengen).

La proposta di riforma dello Schengen Borders Code da parte della Commissione europea, poi, (così come quella relativa al Sistema Dublino) fatica a progredire: la stessa Commissione “sta provando a individuare un difficile punto di equilibrio tra le esigenze degli Stati membri che richiedono maggiore flessibilità nell’introduzione dei controlli alle frontiere interne, e gli interessi degli Stati membri che temono una forte compromissione dello Spazio Schengen[52]: ancora una volta si è costretti a scegliere tra l’ammettere il fallimento di un sistema che garantisce sì la libertà di circolazione, rischiando però di minare la sicurezza nazionale degli Stati aderenti, o il mantenere inalterata la sacralità di un pilastro dell’integrazione europea, che, tuttavia, le crisi recenti hanno reso instabile e cedevole.

Contro Schengen, contro l’Ue: il caso di Ungheria e Polonia

Vi sono due Stati che negli ultimi anni hanno esacerbato la lotta al sistema Schengen (almeno, a questo sistema Schengen), per ragioni e con esiti diversi: si tratta dell’Ungheria di Viktor Orban e della Polonia di Mateusz Morawiecki.

6.1 Il caso ungherese

Era il luglio 2015 quando il Parlamento ungherese approvò la costruzione di una barriera di filo spinato lungo la frontiera con la Serbia: la crisi migratoria era appena iniziata e già aveva assunto una portata imponente; numerosi migranti avevano attraversato Turchia, Grecia, Bulgaria e Macedonia per arrivare in Serbia, attraversare il confine con l’Ungheria e proseguire verso i Paesi del Nord-Europa (lungo la cd. rotta balcanica). Il governo ungherese, allora, autorizzava successivamente la costruzione della barriera anche lungo il confine con la Croazia per bloccare alle frontiere i migranti in ingresso (dal 2010 il numero di persone fermate alla frontiera è aumentato del 2500%[53]). Nel 2017, inoltre, l’Ungheria reintroduceva la custodia cautelare per i soggetti le cui domande di ingresso in Europa non fossero ancora state accettate, mentre lo stesso Orban dichiarava che lo Stato ungherese non poteva “affidarsi a una soluzione qualunque che venga dalla Ue”  che sta vivendo “un tempo dell’ingenuità e dell’incapacità”, a danno proprio degli stessi migranti “vittime dei trafficanti, ma anche vittime dei politici europei che incoraggiano la migrazione con la politica dell’accoglienza…ma da noi non ci saranno camion che investono e assassinano chi festeggia[54]. Più di recente il governo ungherese, nella persona del Ministro degli Esteri, Peter Szijjarto, è tornato a rimarcare la inequivocabile posizione di contrasto alle politiche migratorie (ma non solo) dell’Unione, affermando che le porte del Paese sono aperte ai rifugiati ucraini ma non ai migranti illegali, dai quali il governo proteggerà sempre l’Ungheria[55]. C’è da chiedersi se la soluzione radicale adottata da Budapest nella lotta alla immigrazione irregolare, non sia provocata proprio sia dalla oggettiva incapacità delle istituzioni comunitarie di elaborare una seria politica di accoglienza, che non pregiudichi comunque la sicurezza degli Stati membri e dei propri cittadini, e dalla scarsa capacità del sistema Schengen di garantire, all’interno dell’area, il necessario contemperamento tra libertà di circolazione dei cittadini europei e stabilità dei confini. La questione, cioè, è comprendere se la durissima risposta ungherese alla questione migrazione, non sia dettata dalla necessità di colmare un vuoto nel Sistema-Europa e se, alla fine, tale risposta non sia riuscita paradossalmente a garantire la stessa sopravvivenza dello spazio Schengen-si immagini, cioè, cosa ne sarebbe stato dell’area di libera circolazione con 60mila migranti in più permeati nell’area stessa: il sistema avrebbe dovuto garantire ed, anzi, elevare la dignità dei cittadini europei e persino di quelli di Stati terzi, e invece costringe a relegare i migranti, nel freddo dell’inverno ungherese, al confine con la Serbia; avrebbe dovuto illuminare, ma ha fatto buio.

6.2 Il caso polacco

Tre mesi prima dello scoppio del conflitto russo-ucraino, l’Europa già temeva un’escalation armata con la Bielorussia filo-putiniana di Lukashenko. La causa, però, sarebbe stata ancora una volta legata alla questione migrazione. Negli ultimi mesi del 2021, infatti, Minsk era tornata a spingere migliaia di migranti verso il confine polacco scortando intere carovane verso l’Europa, come ritorsione per le sanzioni che l’Ue aveva comminato alla stessa Bielorussia per la repressione violenta delle proteste originatesi all’indomani delle contestate elezioni presidenziali del 2020. Tuttavia, la Polonia si è mostrata da subito pronta a gestire la crisi in autonomia, declinando qualunque aiuto di Bruxelles, e dichiarando lo stato d’emergenza, bloccando l’accesso a giornalisti e Ong, schierando i militari al confine con la Bielorussia allo scopo, secondo gli analisti, di respingere anche quei migranti che, a norma del regolamento di Dublino, avrebbero diritto di chiedere asilo al Paese di prima accoglienza[56]. Ancora una volta, dunque, sulla pelle dei migranti, la sfida è lanciata al sistema Dublino che, come dimostrato in precedenza, è inscindibilmente connesso al sistema Schengen, a sua volta pilastro del processo di integrazione europea: ancora una volta, dunque, la sfida è all’Unione Europea, o quantomeno a questa Unione Europea. Sfida esacerbata quando, proprio nello stesso momento in cui la crisi con Minsk aveva raggiunto forme e modalità raccapriccianti, la Corte suprema polacca cassava il primato del diritto comunitario sul diritto interno, sostenendo che alcuni articoli dei Trattati Ue fossero incompatibili con la Costituzione polacca. Naturalmente, la risposta delle istituzioni comunitarie non si è fatta attendere, e la Commissione, con un comunicato stampa, ha provveduto a ribadire che l’ordinamento Ue “has primacy over national law, including constitutional provisions” e che “all rulings by the European Court of Justice are binding on all Member States’ authorities, including national courts[57]: il 22 dicembre 2021 la Commissione europea avvia una procedura di infrazione per violazione, da parte della Corte suprema polacca, dell’art.19 del TUE. In realtà l’epilogo-se si tratta davvero di un epilogo e non piuttosto del prologo di una stagione di rivendicazioni nazionali esasperate dalle numerose antinomie proprie del sistema Europa-cui si pervenne lo scorso dicembre era stato già annunciato da altre 193 procedure di infrazione che l’Europa ha avviato contro la Polonia, molte delle quali aperte negli ultimi quattro anni e riguardanti lo Stato di diritto[58]. Basti ricordare che lo scorso febbraio la Corte di giustizia dell’Unione aveva respinto il ricorso presentato proprio da Polonia e Ungheria contro il meccanismo di condizionalità “che vincola l’erogazione dei fondi europei al rispetto dello Stato di diritto[59], mentre l’Unione aveva già sospeso l’iter di approvazione del Pnrr di 36 miliardi di euro per Varsavia e 7,2 miliardi per Budapest. Le preoccupazioni dell’Ue riguardavano soprattutto l’indipendenza effettiva della magistratura polacca, sorte non appena il governo varsaviano iniziò ad approvare le riforme rientranti nel cd. “pacchetto giustizia”: innanzitutto la riforma del Tribunale costituzionale, i cui membri sono stati sostituiti da magistrati nominati dalla maggioranza di governo; la riforma della Corte suprema, prevedendo, tra l’altro, una nuova modalità di selezione dei giudici che la compongono, nominati a tempo indeterminato dal Presidente della Repubblica, su proposta del Consiglio Nazionale della Magistratura; la riforma dello stesso Consiglio Nazionale della Magistratura, i cui membri vengono ora scelti dalla maggioranza parlamentare della Camera Bassa; infine, la riforma della magistratura ordinaria, con il conferimento al Ministro della Giustizia della carica di Procuratore generale e della possibilità di intervenire con ampi poteri discrezionali sull’attività dei procuratori e sulla nomina e destituzione dei presidenti dei tribunali comuni. Lo scorso 1° giugno, tuttavia, nonostante queste tensioni, tutt’altro che foriere di una felice risoluzione, la Commissione europea ha approvato il recovery plan polacco, sbloccando così l’invio di una prima tranche dei fondi del Pnrr[60]. A dispetto dell’apparenza, però, la distanza tra i due Paesi posti, in trincea, alla frontiera dell’area Schengen ed i palazzi di Bruxelles è tutt’altro che colmata. Sarà la storia a rivelare davvero l’esito di questa sfida, che è ormai sempre più difficile arginare.

Conclusioni

L’assuefazione al concetto di libera circolazione nell’area Schengen, reca con sé due rischi: da un lato, quello di dare per scontata la sua esistenza, la sua efficienza, la sua solidità; dall’altro, quello-strettamente connesso al primo-di rivestire, anche involontariamente, lo spazio di libera circolazione di un’aura di sacralità che, etimologicamente, lo rende intoccabile e ne rende immutabile la struttura ed il funzionamento, a tal punto che la letteratura giuridica è pressoché priva di analisi critiche del sistema medesimo, e che ogni tentativo, anche da parte delle istituzioni comunitarie, di modificarne alcuni elementi, alla fine si impantana nella palude dell’alternativa “proteggere il principio che regge Schengen, anche di fronte alle sue evidenti criticità, o proteggere i confini interni, la sicurezza nazionale dei Paesi aderenti all’Accordo, gli stessi cittadini che dovrebbero trarre vantaggio dalla libertà di circolazione”.

L’area Schengen, in sostanza, almeno nelle intenzioni, ha lanciato un assalto alle frontiere degli Stati europei ed al concetto stesso di frontiera-demonizzata come strumento divisivo per eccellenza, quasi che per dimostrare di essere “comunità” bisogna a tutti i costi ostentare l’obsolescenza del confine, che, invece, prima di separare, unisce, che, sì, limita il movimento, ma definisce e dà contorno alle realtà nazionali, proprio come il corrimano lungo una scalinata: impedisce di muoversi a piacimento, confina la libertà di chi sale o scende, ma impedisce soprattutto di cadere nel vuoto. Quella che sarebbe dovuta essere la dimostrazione empirica del pieno compimento del processo di integrazione europea, a tal punto perfezionato da potere addirittura eliminare qualunque controllo tra gli Stati membri, ha finito per dimostrare esattamente il contrario, consegnandoci oggi un’Europa più diffidente e più divisa, che è stata costretta, dalla storia e dagli eventi, alternativamente, a chiudere nuovamente le proprie frontiere interne[61], a chiudere le proprie frontiere esterne[62], a lasciare aperte entrambe, dovendo però barricare le piazze, le gallerie, le strade principali dei Paesi che-come il nostro-hanno scelto di salvare Schengen (rectius, l’idea che sta dietro Schengen), piuttosto che prendere atto dell’evidente fallimento del sistema, non fosse altro che per riformarlo, facendo i conti con la realtà dei fatti, oltre ogni posizione ideologica.

Difatti, come si è voluto, in questa trattazione, dimostrare, l’edificante prospettiva di un’area all’interno della quale eliminare i controlli alle frontiere si è frantumata di fronte alle prime crisi che ha incontrato nel corso della sua esistenza. La crisi migratoria del 2015 prima, la pandemia da Covid-19 poi, hanno messo in crisi il sistema Schengen al punto tale che lo Schengen Borders Code contempla la possibilità di reintrodurre, in caso di minaccia grave all’ordine pubblico o alla sicurezza interna, temporaneamente per 30 giorni, o per il tempo prevedibile della minaccia grave, controlli alle frontiere interne: per difendere il concetto di frontiere aperte, si ricorre alla loro chiusura; per proteggere, di nuovo, il dogma della libertà di circolazione, essa viene limitata.

Quando, invece, le frontiere restano aperte, gli Stati che adottano questa scelta, sacrificano la propria sicurezza nazionale: si è dimostrato come, in assenza di controlli, risulti estremamente difficile controllare efficacemente chi, poi, permei nell’area Schengen. Infine, si è dimostrato che l’ostinazione esasperante delle istituzioni europee alla difesa della sacralità del CEAS, di Dublino, di Schengen, costringe gli Stati periferici dell’Unione a far fronte da soli alle ondate migratorie, adottando anche soluzioni discutibili, al limite del rispetto dei diritti umani e dello Stato diritto, salvo poi, le stesse istituzioni, darsi alla macchia, tacere e assentarsi, glissare e approssimare, insomma, evitare in ogni modo l’elaborazione di una soluzione seria, di una seria gestione della crisi migratoria: allora si capirà di certo che la effettiva responsabilità per il trattamento dei migranti, anch’essi, come tutti gli ultimi, vittime di un’Unione che funziona a fasi alterne, sempre più burocratica, sempre meno comunità-di intenti e di culture-, è delle istituzioni stesse, prima che dei governi nazionali. Tutto questo trova ulteriore conferma nella ratio che sta dietro all’elaborazione del sistema Schengen, che, pur se celata dietro aspetti ideali e tensioni morali, trova, per l’ennesima volta la sua ragion d’essere nell’elemento economico, nel miglior funzionamento del mercato, nella volontà di rendere più facile lo spostamento dei capitali e delle persone (che le si voglia rendere mobili proprio come capitali?). Il mercato, del resto, impone di produrre non soltanto oggetti per i soggetti, ma anche soggetti per gli oggetti, parafrasando Karl Marx. Questa, però, è una valutazione che si osa soltanto suggerire al lettore, a cui spetteranno davvero le conclusioni di questa trattazione.


Note

[1]https://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/security/20190612STO54307/schengen-guida-alla-zona-europea-senza-frontiere
[2] Convenzione di Applicazione dell’Accordo Schengen, del 14 giugno 1985, in GUUE del 22 settembre 2000, p.19
[3] Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea, del 25 marzo 1957
[4] Comunicazione COM/2011/0561 def. della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, denominata Governance Schengen-Rafforzare lo spazio senza controlli alle frontiere interne, del 16/09/2011
[5] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=URISERV:jl0065&from=FR
[6]https://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/security/20190612STO54307/schengen-guida-alla-zona-europea-senza-frontiere
[7] Nota stampa del Governo della Repubblica di Serbia dell’11 novembre 2019, reperibile al seguente link: https://www.srbija.gov.rs/vest/en/147537/little-schengen-only-chance-for-faster-growth-development.php
[8] Nota stampa dell’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane del 29 luglio 2021, reperibile al seguente link: https://www.ice.it/it/news/notizie-dal-mondo/185106
[9] Come osservato in: https://www.osmed.it/2022/02/28/prove-di-cooperazione-nei-balcani-occidentali-lopen-balkan-initiative/, da cui le citazioni sono tratte
[10] Per approfondire le ragioni politiche che si celano dietro tale scelta: https://www.osmed.it/2022/02/28/prove-di-cooperazione-nei-balcani-occidentali-lopen-balkan-initiative/
[11]Nota stampa dell’Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane del 29 luglio 2021, reperibile al seguente link: https://www.ice.it/it/news/notizie-dal-mondo/185106
[12] Osservazioni contenute in: https://cep.org.rs/en/blogs/open-balkan-initiative/
[13]https://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/priorities/immigrazione/20170629STO78630/statistiche-su-asilo-e-immigrazione
[14] https://www.europarl.europa.eu/news/it/headlines/society/20170629STO78632/l-immigrazione-in-europa
[15] https://www.treccani.it/vocabolario/emergenza/
[16] A titolo esemplificativo si riportano i numeri del periodo in cui la trattazione è elaborata: https://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2022/05/14/migranti-oltre-250-arrivati-nelle-ultime-ore-a-lampedusa_73944f03-5252-4e24-9caa-0ebf0f86f5c7.html
[17] https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024/promoting-our-european-way-life/statistics-migration-europe_it#illegalbordercrossings
[18] AA.VV, Un’introduzione al Sistema Europeo Comune di asilo per i giudici, 2016, p.13
[19] Per il testo integrale della Convenzione:  https://www.unhcr.org/it/wp-content/uploads/sites/97/2016/01/Convenzione_Ginevra_1951.pdf
[20] Cfr. AA.VV., op. cit., p.13
[21] Ibidem
[22] L. Vianelli (a cura di), Proteggere o Controllare? Il sistema europeo comune d’asilo nello spazio Schengen, 2019

[23] Si segnala, al fine di corroborare le posizioni del Vianelli, come l’origine della ricerca, per stessa ammissione dell’autore, risale al suo primo contatto personale con il Ceas, nell’ambito di un’etnografia di un progetto di accoglienza per richiedenti e titolari di protezione, esperienza che gli ha consentito di conoscere numerose persone che descrivevano l’accoglienza e l’Italia utilizzando la metafora della gabbia. L’autore, inoltre, segnala, la sua perplessità sorta sin dall’inizio del suo dottorato, rappresentata dallo scarto esistente, in gran parte della letteratura, così come tra gli operatori del settore, tra le critiche diffuse nei confronti del sistema Dublino e una sostanziale accettazione acritica della bontà del CEAS, che pur si fonda sul sistema Dublino (Cfr. L. Vianelli, op. cit., p.53)
[24] L. Vianelli, op. cit., p. 40
[25] Ibidem
[26] Citato in L. Vianelli, op. cit., p.41

[27] Per la definizione, cfr. https://ec.europa.eru/home-affairs/pages/glossary/asylum-shopping_en
[28] Cfr. L. Vianelli, op. cit., p.41
[29] Convenzione sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri delle comunità europee, del 15 giugno 1990, in GUCE del 19 agosto 1997, p.3
[30] Convenzione di Applicazione dell’Accordo Schengen, del 14 giugno 1985, in GUUE del 22 settembre 2000, p.25
[31] L. Vianelli, op. cit., p.41
[32] https://www.europar.europa.eu/summits/tam_it.htm
[33] Regolamento (CE) n. 343/2003 del Consiglio, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo, del 18 febbraio 2003, in GUUE L 050 del 25 febbraio 2003
[34] Regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide, del 26 giugno 2013, in GUUE L 180 del 29 giugno 2013
[35] https://www.internazionale.it/notizie/2019/05/16/sistema-dublino
[36] https://www.politicheeuropee.gov.it/it/comunicazione/euroacronimi/eurodac/
[37] L. Vianelli, op. cit., p.44
[38] Cfr. L. Vianelli, op. cit., p.45
[39] L. Vianelli, op. cit., p.45
[40] Cfr. L. Vianelli, op. cit., p.48
[41] L. Vianelli, op. cit., p.48
[42] L. Vianelli, op. cit., p.51
[43] Si consiglia l’approfondimento della questione mediante la lettura del daily focus dell’ISPI dal titolo ‘Sui migranti l’Europa non c’è’, reperibile al seguente link: https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/sui-migranti-leuropa-non-ce-30413
[44] Austria, Cipro, Danimarca, Grecia, Lituania, Polonia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia e Repubblica Slovacca
[45] https://www.ilsole24ore.com/art/migranti-12-paesi-chiedono-all-ue-finanziare-muri-frontiere-no-bruxelles-AERYnco
[46] Regolamento (UE) 399/2016 del Parlamento Europeo e del Consiglio su un Codice sulle regole che governano i movimenti transfrontalieri di persone (Schengen Borders Code) del 9 marzo 2016, in GUUE L77 del 23 marzo 2016
[47] https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/ip_21_6821
[48] Proposta della Commissione COM/2021/891 per l’adozione di un Regolamento da parte del Parlamento europeo e del Consiglio per modificare il Regolamento (UE) 2016/399 su un Codice sulle regole che governano i movimenti transfrontalieri di persone, del 14 dicembre 2021
[49] A titolo esemplificativo: https://www.repubblica.it/esteri/2020/10/29/news/aouissaoui_bahrain_l_attentatore_tunisino_di_nizza_che_era_sbarcato_a_lampedusa-272315101/
[50] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/la-misura-delle-espulsioni-estremismo-21803#nota
[51]https://milano.repubblica.it/cronaca/2019/01/11/news/milano_sicurezza_barriere_jersey_sostituite_con_milomat_pilomat_antisfondamento-216340775/
[52]https://temi.camera.it/leg17/temi/l_unione_della_sicurezza_e_il_contrasto_al_terrorismo_
[53] https://www.ilfattoquotidiano.it/2015/07/07/ungheria-muro-con-serbia-ed-espulsioni-rapide-il-parlamento-approva-la-legge/1852976/
[54]https://www.repubblica.it/esteri/2017/01/13/news/ungheria_detenzione_richiedenti_asilo-155984660/
[55] https://www.rainews.it/articoli/2022/03/ucraina-ungheria-porte-aperte-ai-rifugiati-ma-respingeremo-con-forza-i-migranti-illegali-61ca53bc-21ba-40e6-ba16-41d22738ac6c.html
[56] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/bielorussia-polonia-sulla-pelle-dei-migranti-32301
[57] Nota stampa reperibile al seguente link: https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/statement_21_5142
[58] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/commissione-ue-vs-varsavia-32790
[59] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/ungheria-polonia-e-stato-di-diritto-una-vittoria-europea-33309
[60] https://it.euronews.com/my-europe/2022/06/04/ursula-von-der-leyen-a-varsavia-per-sbloccare-il-piano-nazionale-di-ripresa-polacco
[61] https://ec.europa.eu/home-affairs/policies/schengen-borders-and-visa/schengen-area/temporary-reintroduction-border-control_en
[62]https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/bielorussia-polonia-sulla-pelle-dei-migranti-32301


Foto copertina: Area Schengen