Nel dibattito politico riemerge la tentazione di dare forma a un nuovo modello di organizzazione del potere che faccia a meno delle mediazioni. Ne abbiamo parlato con Antonio Campati, autore di La distanza democratica (Vita e Pensiero Edizioni).


Antonio Campati autore di “La distanza democratica. Corpi intermedi e rappresentanza politica”

La disintermediazione sta caratterizzando i sistemi democratici sin dagli anni Ottanta del XX secolo, prima promuovendo forme d’immediatezza nell’ambito economico e successivamente in quello politico. In tal senso l’attenzione degli osservatori si è concentrata a più riprese su quello che Nadia Urbinati ha definito «processo di direttezza», oramai in corso nelle democrazie occidentali, che tenta di eliminare le intermediazioni e, soprattutto, di rendere potenzialmente tutti noi capaci di essere mediatori, determinando in tal modo la perdita di legittimità dei corpi intermedi. In un simile processo si è pensato che le figure dell’elettore e del cittadino potessero essere sovrapposte, superando definitivamente la dissociazione sulla quale era nata la finzione della sovranità popolare, facendo di ciascuno di noi un produttore di comunicazione, un elaboratore di informazioni e un sovrano diretto. Su questi ed altri aspetti ci siamo soffermati con Antonio Campati ricercatore di Filosofia politica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano dove collabora con Polidemos (Centro per lo studio della democrazia e dei mutamenti politici), autore del recentissimo volume “La distanza democratica. Corpi intermedi e rappresentanza politica” (Acquista qui) per le edizioni Vita e Pensiero, in cui viene ribadita l’importanza, per il funzionamento della democrazia, della distanza tra rappresentanti e rappresentati.

Il tema della disintermediazione è presente nel dibattito pubblico da anni, soprattutto come necessità di superare la debolezza del governo nel meccanismo costituzionale. Cosa è cambiato in questi anni rispetto a questo tema?
“La tentazione di cancellare le mediazioni è in effetti presente in moltissimi frangenti della storia, ma, con l’ingresso dei media digitali nella pratica e nel discorso politico degli ultimi decenni, è tornata in primo piano, soprattutto perché alcuni movimenti e formazioni politiche l’hanno assurta a soluzione per risolvere la crisi della rappresentanza. In una stagione di profonda sfiducia nei confronti della classe politica è abbastanza prevedibile che l’idea di cancellare la distanza tra chi governa e chi è governato appare molto allettante, tanto da assumere le sembianze di una vera e propria ideologia, come ci ricorda Daniel Innerarity. Ora, il punto è che se dieci, quindi anni fa questa idea di riconfigurare il sistema democratico basandolo sulla disintermediazione poteva essere un’ipotesi come le altre, oggi, siamo molto più consapevoli del fatto che anche in una simile prospettiva – presentata, ripeto, come la panacea di tutti i mali – essa presenta dei limiti evidenti, soprattutto perché mina il funzionamento della democrazia rappresentativa. Chiaramente, non critico l’idea che si debbano alimentare forme innovative di partecipazione dei cittadini al processo decisionale e alla vita pubblica, anche attraverso forme di disintermediazione, ma ciò che mi preme sottolineare è che la democrazia rappresentativa è composta da una serie di equilibri, che devono essere conservati e quello tra mediazione e immediatezza è uno di questi.”

Il M5S è un soggetto politico costituito a partire dal concetto di democrazia senza filtri. Come si è arrivati secondo lei a questo punto? E quali sono le differenze sostanziali fra «democrazia mediata» e «democrazia immediata»?
“Per molti versi, il M5S è un prodotto della tendenza alla disintermediazione: Grillo e Casaleggio sostenevano con forza che la Rete non tollera gli intermediari e che quindi devono essere cancellati perché non consentono una reale partecipazione diretta e deformano, proprio con la loro azione di mediazione, le reali volontà dei cittadini. Si riferivano soprattutto ai partiti politici, considerati i corpi intermedi per eccellenza. Oggi questa ambizione è stata fortemente ridimensionata, soprattutto perché l’ingresso del Movimento, prima in parlamento e poi al governo, ha prodotto nei suoi leader e nei suoi aderenti la consapevolezza che i meccanismi di mediazione sono importanti, se non indispensabili, e che quindi quella “democrazia immediata” tanto evocata non si può realizzare con un semplice clic. Faccio riferimento non casualmente alla “democrazia immediata” perché con questa espressione si possono intendere molte prospettive: non nasce certamente in anni recenti perché ha una lunga tradizione alle spalle. Nel mio libro ripercorro i passaggi salienti di questa tradizione e l’acceso dibattito che vede contrapposta la “democrazia immediata” alla “democrazia mediata”, un dibattito che coinvolge diversi autori della tradizione europea degli studi giuridici e politici e che vale la pena tenere a mente anche in prospettiva di future riforme istituzionali.”

Lei sostiene ne La distanza democratica la necessità della distanza fra rappresentanti e rappresentati. Può approfondire questo passaggio? “L’idea che ci debba essere una distanza tra rappresentati e rappresentanti può apparire in controtendenza e forse persino provocatoria in un’epoca di disintermediazione. Con questo libro voglio sottolineare come il rapporto tra la minoranza che comanda e la maggioranza che è comandata debba essere certamente orientato a valorizzare la prossimità, ma anche un certo distanziamento. Come accennavo in precedenza, la democrazia rappresentativa (e ci tengo a sottolineare rappresentativa) è il frutto di una serie di equilibri, spesso fragili, e tra questi c’è proprio quello tra distanza e prossimità. Se manca la distanza innanzitutto c’è il rischio che si continui ad avallare l’idea che i rappresentanti sono “come noi”, come i cittadini rappresentati. Ma ciò non è vero: la classe politica ha un ruolo preciso, che non può essere confuso. Questa sottolineatura può sembrare secondaria, ma quando si insinua in maniera radicata e diffusa all’interno della società una sorta di indistinta reciprocità tra chi è al potere e chi non lo è, si produce un cortocircuito che alimenta ulteriore sfiducia nei confronti della democrazia, perché confonde i ruoli e soprattutto deresponsabilizza chi ha l’onere (e l’onore) di guidare, di essere genuinamente élite.”.

Nel volume si fa esplicito riferimento ai corpi intermedi. In un’epoca di crisi profonda dei partiti politici così come dei sindacati, a quali soggetti pensa ci si possa rivolgere oggi per assolvere a questa fondamentale funzione?
“Per argomentare l’importanza della distanza democratica mi è sembrato indispensabile soffermarmi sull’area intermedia, ossia su quello spazio politico dove operano i corpi intermedi. Anche i corpi intermedi hanno una storia lunghissima alle spalle: vengono periodicamente considerati superati e periodicamente tornano alla ribalta. Ho provato a ricostruire nel libro questo lungo percorso di legittimazione alterna. Per quanto riguarda gli ultimissimi anni, si tende a considerali superati proprio perché constatiamo l’indebolimento dell’azione dei partiti e dei sindacati: in realtà, l’intermediazione di cui sono portatori non è venuta meno, ma certamente la loro incisività è diminuita. Per invertire la tendenza penso che i corpi intermedi debbano ripensarsi a partire dalla consapevolezza che i processi che alimentano la disintermediazione (per esempio, leaderizzazione, utilizzo del web, desiderio di velocità) non possono semplicemente essere arrestati. Occorre aggiornare – per tornare a un tema già evocato – l’equilibrio tra sistema della mediazione e spinte all’immediatezza (negli anni Ottanta, Roberto Ruffilli intravedeva un percorso del genere in riferimento alle riforme istituzionali necessarie all’Italia).”.

La disintermediazione ha generato nell’ultimo ventennio anche una crisi delle identità politiche. Pensa che questo processo sia irreversibile oppure assisteremo ad una ricostruzione delle ideologie politiche?
“Il tema è molto complesso e affascinante. Prima accennavo all’ideologia dell’immediatezza, secondo cui la rappresentanza è vista come un inganno perché tradisce i reali intendimenti dei cittadini. Quindi, in fondo, le ideologie – concetto da analizzare con particolare cura, a dispetto di una diffusa vulgata che ne denuncia una presunta “fine” – sono ancora alla base di alcune tendenze che influenzano la democrazia. Ciò detto, un discorso in parte differente occorre farlo per le identità politiche: è certamente vero che oggi fatichiamo a riconoscerne i lineamenti anche perché i processi di disintermediazione hanno alimentato una sorta di indifferenziazione anche della proposta politica (non solo dei ruoli, come si ricordava). Se si vuole perseguire nella ricerca del nuovo equilibrio a cui alludevo alla fine della risposta precedente, sarà necessario riscoprire la reale importanza delle identità politiche complesse per costruire le condizioni per un dibattito serio tra diverse proposte in competizione e, quindi, per definire dei chiari programmi di governo da realizzare.”.


Foto copertina: copertina del libro “La distanza democratica” di Antonio Campati