La Dottrina Monroe, sintetizzata nella frase “L’America agli americani”, esprime l’idea della supremazia degli Stati Uniti nel continente americano. Ma quanto la Dottrina Monroe ha influenzato il rapporto tra Stati Uniti ed emisfero occidentale?
Ne parliamo con Giacomo Gabellini autore di “Dottrina Monroe. L’egemonia statunitense sull’emisfero occidentale” (Diarkos Edizioni).
La Dottrina Monroe, sintetizzata nella frase “L’America agli americani”, fu elaborata da John Quincy Adams, ma attribuita a James Monroe nel 1823, ed esprime l’idea che gli Stati Uniti non avrebbero tollerato nessuna interferenza o intromissione nell’emisfero occidentale da parte delle potenze europee.
La dottrina Monroe indica un messaggio ideologico di James Monroe contenuto nel discorso sullo stato dell’Unione pronunciato innanzi al Congresso il 2 dicembre 1823, che esprime l’idea della supremazia degli Stati Uniti nel continente americano. In origine aveva scopi difensivi, perché mirava a evitare che gli europei colonizzassero dei territori americani indipendenti, ma dalla fine dell’Ottocento è diventata lo strumento per giustificare gli interventi militari degli Stati Uniti nei Paesi dell’America Latina.
Per comprendere gli aspetti più importanti della Dottrina Monroe, ne parliamo con Giacomo Gabellini, saggista e ricercatore indipendente e specializzato in questioni economiche e geopolitiche. Gabellini è l’autore di “Dottrina Monroe. L’egemonia statunitense sull’emisfero occidentale” (Diarkos Edizioni, acquista qui).
Partiamo dalla definizione. Cosa s’intende per Dottrina Monroe e quando nasce?
«Per Dottrina Monroe si intende la visione strategica enunciata nel 1823 dal presidente James Monroe, basata anzitutto sulla proclamazione urbi et orbi dell’estraneità statunitense rispetto alle lotte di potere europee.
Allo stesso tempo, essa contemplava la chiusura totale del cosiddetto “emisfero occidentale” a qualsiasi ingerenza esterna, sia per impedire alle potenze del “vecchio continente” di sradicare l’indipendentismo dei creoli ispanici che per avocare a sé l’esclusiva “amministrazione” delle Americhe.
Si trattata, in altri termini, di proteggere i fianchi della giovane nazione statunitense consentendole di impegnare la maggior parte delle risorse a sostegno del processo di conquista del lebensraum interno a cui gli Usa avevano dato avvio già diversi decenni addietro, mediante un processo di annessione sottrazione di territori alle popolazioni native – debitamente sospinte verso ovest e sterminate con vari metodi – percepito come applicazione concreta di una sorta di legge naturale.
Il tutto avvalendosi degli incommensurabili vantaggi garantiti dalla posizione insulare di cui godevano gli Usa, oltre che dell’assenza di un rivale di rango collocato in prossimità dei propri confini, nonché del tacito ma cruciale accordo con Londra, il cui presidio militare dell’oceano Atlantico sbarrava la strada delle Americhe alle agguerrite potenze continentali europee. Come dichiarò Monroe testualmente Monroe: «dev’essere evidente a tutti che più oltre si spingerà l’espansione, maggiore sarà la libertà d’azione dei governi – statale o federale – e più completa la loro sicurezza e, nel complesso, più redditizio l’effetto per tutto il popolo americano. L’estensione del territorio, più meno grande, conferisce a una nazione molte sue caratteristiche. Determina i livelli delle risorse, della popolazione, della sua forza fisica. In breve, stabilisce la differenza fra una grande e una piccola nazione».
Quali sono state le principali operazioni, segrete e meno segrete, da parte degli Stati Uniti nel continente americano che possono essere ricondotte alla Dottrina Monroe?
«La prima è stata indubbiamente quella risalente al 1895, quando gli Stati Uniti si attivarono per dirimere la contesa scoppiata tra il Venezuela e la Gran Bretagna in merito alla definizione del confine della Guyana britannica. Intervenendo nella questione con un pronunciamento favorevole al governo di Caracas, a cui fu attribuita la sovranità sul territorio Esequibo, il governo di Washington non si limitò a ridimensionare le mai sopite ambizioni coloniali che Londra nutriva verso le Americhe, ma elevò gli Stati Uniti al rango di inaggirabili mediatori riguardo a tutte le questioni inerenti l’emisfero occidentale caratterizzate dalla contrapposizione tra nazioni locali e potenze extra-continentali. Sette anni dopo, di fronte a un contenzioso di natura finanziaria che coinvolgeva ancora una volta Venezuela e Gran Bretagna (oltre a Germania e Italia) riproponendo il problema dell’ingerenza europea negli affari del continente americano, gli Usa risolsero la questione attraverso il cosiddetto “corollario Roosevelt”, il quale incaricava gli Usa di intervenire – all’occorrenza, ricorrendo al cosiddetto “grosso bastone” – nei confronti degli Stati latinoamericani per assicurarsi che tenessero fede ai propri obblighi finanziari con l’estero, sbarrando così la strada ad eventuali, future sortite europee.
Nel corso dei decenni successivi, la versione originale della Dottrina Monroe è stata oggetto di continui adattamenti e trasformata in una sorta di strumento legittimatorio dell’ingerenza strutturale degli Stati Uniti negli affari interni di tutte le nazioni dell’emisfero occidentale.
Uno dei casi più eclatanti è indubbiamente dato dal colpo di Stato perpetrato dal generale Augusto Pinochet in Cile, perché verificatosi a coronamento di un lungo lavoro preparatorio condotto dalle varie articolazioni del governo Usa sotto il profilo politico, economico, finanziario, militare e persino culturale. Un altro esempio emblematico riguarda i reiterati, instancabili tentativi statunitensi di rovesciare il governo di Fidel Castro a Cuba, declinatisi anche in questo caso sotto forma di operazioni più o meno coperte di natura sia “convenzionale” che “non ortodossa”.».
È un dato di fatto che le grandi potenze affermino il “diritto” a non avere interferenze straniere nei loro “giardini di casa”. Giustificare questo approccio vorrebbe dire accettare la Dottrina Monroe ma anche la “dottrina Kozyrev” russa, quella cinese e così via. Ma nei fatti non è così. Crede che questo doppiopesismo occidentale abbia accelerato il desiderio di un mondo multipolare da parte delle altre grandi potenze?
«Il problema chiave è dato dall’eccezionalismo statunitense, che ha storicamente indotto le classi dirigenti del Paese ad auto-investirsi di una sorta di missione divina consistente nella “trasformazione” del resto del mondo in base ai canoni morali tipici del protestantesimo elevati a veri e propri pilastri spirituali della nazione.
Questo genere di visione millenaristica affonda le radici nel concetto di “destino manifesto”, sdoganato dal giornalista John O’Sullivan nel 1845 per legittimare il “diritto” all’espansione degli Stati Uniti sull’intero continente americano. Integrandosi gradualmente con il pragmatismo che caratterizza la Dottrina Monroe, il “destino manifesto” ne ha rapidamente alterato la struttura ed allargato l’ambito geografico di applicazione, estendendola di fatto al mondo intero.
Se, come ancora oggi si sente ripetere da esponenti della politica Usa di qualsiasi appartenenza, gli interessi statunitensi “non hanno limiti”, ogni proclama speculare e comunque comparabile alla Dottrina Monroe ad opera di altre nazioni viene giocoforza a configurarsi come un ostacolo da rimuovere lungo il percorso che conduce alla realizzazione del “destino manifesto”.
La stessa contrapposizione del tutto artificiosa tra “democrazie” ed “autocrazie” propalata a tamburo battente ancora oggi per affermare la superiorità del cosiddetto “Occidente allargato” sul resto del mondo e legittimare quindi la sussistenza di un ordine internazionale tarato sugli interessi statunitensi risente pesantemente di questa peculiare predisposizione.».
Riferendosi al Venezuela di Chávez, nel libro afferma che Paese si trasformò uno dei laboratori per sperimentare le “guerre di quarta e quinta generazione”. Di che tipo di guerre stiamo parlando?
«Il Venezuela è stato un importante teatro di sperimentazione per le moderne tecniche di guerra non convenzionale statunitensi. Da quando Chávez è asceso alla presidenza del Paese, gli Stati Uniti hanno fatto ricorso alla guerra economica, finanziaria, informativa e persino culturale al fine di sottrarre consenso popolare alla struttura di potere bolivariana instaurata dal “comandante”. In tale contesto rientrano le sanzioni unilaterali, l’appoggio a testate facenti capo alle élite locali, il sovvenzionamento delle organizzazioni sindacali collegate alla potentissima Afl-Cio, il supporto ai movimenti d’opposizione (partiti, Ong e associazioni di vario genere), l’intensificazione dei rapporti con i segmenti più infedeli delle forze armate e la strumentalizzazione dei Paesi alleati di Washington confinanti con il Venezuela. Gli effetti non sono mancati, come testimoniato dall’ondata di scioperi che ha colpito il cruciale settore petrolifero, i reiterati tentativi di colpo di Stato perpetrati dai centri d’opposizione, l’isolamento finanziario del Paese tramite l’irrogazione di specifiche misure punitive, la proliferazione dei fenomeni di accaparramento orchestrati dai gruppi operanti nel settore della grande distribuzione che hanno alimentato il “mercato nero”, ecc. La lista è lunga… Nel libro, ad ogni modo, ho cercato di analizzare ogni aspetto di questa guerra senza quartiere sferrata dagli Stati Uniti contro il sistema bolivariano.».
Riuscirà l’America centro-meridionale ad affrancarsi dalla subordinazione politica statunitense?
«Difficile affermarlo. Nel corso del primo decennio del nuovo millennio, mentre gli Stati Uniti orientavano il grosso delle risorse verso il Medio Oriente in conformità alla catastrofica “guerra globale contro il terrorismo”, diversi Paesi dell’America Latina hanno approfittato di questa provvisoria “disattenzione” di Washington nei confronti del cosiddetto “cortile di casa” per promuovere politiche fortemente disallineate rispetto agli interessi statunitensi. In quel periodo, le iniziative assunte soprattutto da Chávez, dal boliviano Evo Morales, dall’ecuadoregno Rafael Correa, dal brasiliano Ignacio Lula da Silva, dagli argentini Nestor e Cristina Kirchner aprirono il varco a programmi di nazionalizzazione delle risorse strategiche e di integrazione regionale osservati con grande fastidio e diffidenza dagli Usa. Senonché, molti dei progetti rimasero “a metà”, sia in virtù della difficile congiuntura economica venutasi a determinare sulla scia della crisi del 2008, sia per oggettivi limiti qualitativi delle classi dirigenti al governo, sia a causa di lacune strutturali che affliggevano i singoli Paesi promotori, sia per effetto degli ostacoli disseminati lungo il percorso dagli Stati Uniti. Abbiamo quindi assistito al ritorno al potere un po’ ovunque in America Latina di personaggi (Mauricio Macrì in Argentina, Sebástian Piñera in Cile, Lenin Moreno in Ecuador, Abdo Benítez in Paraguay, la fazione golpista in Bolivia, ecc.) molto più propense ad assecondare i desiderata di Washington, che sono però cadute in disgrazia piuttosto rapidamente a causa della mole assai considerevole di fallimenti rimediati. È interessante notare come il potenziamento dei rapporti con i membri del Brics sia stato uno dei punti fermi della linea politica seguita sia da Lula che da Bolsonaro, come l’Argentina stia rapidamente avvicinandosi alla medesima organizzazione e come entrambe le nazioni abbiano siglato rilevantissime intese di carattere economico, finanziario e valutario con la Cina, principale rivale strategico degli Stati Uniti. Sono pertanto propenso a ritenere che l’America Latina riuscirà quantomeno a ritagliarsi accresciuti spazi di manovra.»
La “Dottrina Monroe” può estendersi anche all’Europa? «Paradossalmente, la Dottrina Monroe sembra applicarsi all’Europa con efficacia e rigore di gran lunga maggiori rispetto all’America Latina. Se esiste ancora un “cortile di casa” degli Stati Uniti, esso è rappresentato indubbiamente dal “vecchio continente”, il cui appiattimento totale sulle politiche dettate da Washington per tramite della Nato ne palesa la totale assenza di sovranità. Dopo aver imboccato il sentiero suicida delle sanzioni contro la Russia e del rifiuto strutturale di qualsiasi rimando a quel Paese al quale ci legano rapporti economici e culturali solidi e antichissimi, l’Europa sembra ora accingersi a sposare la linea dura anche rispetto alla Cina, con tutte le prevedibili ripercussioni di carattere economico e geopolitico.
Per il continente, si prospetta sinistramente il pericolo della deindustrializzazione, alimentato non solo dalla sostituzione degli approvvigionamenti energetici russi a basso costo con quelli ben più onerosi di provenienza statunitense, ma anche da provvedimenti come l’Inflation Reduction Act, promulgato da Biden verso la fine dell’estate scorsa. La misura contempla la concessione di sussidi pubblici e sconti fiscali per le aziende europee operanti nei settori d’avanguardia disposte a trasferire la produzione in territorio statunitense. Purtroppo non c’è da stupirsene, perché, come ha correttamente evidenziato Emmanuel Todd, uno degli effetti del “ridimensionamento” di un sistema imperiale in declino è dato proprio dal consolidamento della presa sui protettorati iniziali da parte della potenza egemone.»
Foto: copertina Dottrina Monroe. L’egemonia statunitense sull’emisfero occidentale” (Diarkos Edizioni).