Nell’attuale lettura o analisi geopolitica dei conflitti risulta del tutto ignorata una «legge» basica da sempre tenuta in grande considerazione dagli studiosi del passato.
Di frequente i mezzi d’informazione forniscono dati e valutazioni circa la situazione politica di un dato quadrante geografico del pianeta. Osservatori e studiosi analizzano le convulsioni in quell’area e talvolta si spingono sino a pronosticare le prossime mosse dei contendenti che si stanno affrontando in quel preciso contesto spazio/temporale.
Di per sé tale approccio all’analisi geopolitica risulta deficitario, in quanto monco di una caratterizzazione di valore che orienti gli sguardi ed i giudizi degli analisti. Parlare dunque di «geopolitica», riferendosi ad un piano simile, può avere un senso se non sposando una visione «parziale» e limitante di ciò che ad essa realmente afferisce. La crisi polisemica di cui è vittima il sapere nella modernità e nella post-modernità, infatti, ha abbracciato anche la disciplina in esame.
In realtà la geopolitica, allorquando è intesa come osservazione analitica, spuria di valori fondanti che la innervano, e che ha alla base un’ottica meramente descrittiva, tecnica, funzionale degli eventi in corso in tale o in tal altra regione, è definibile come «geopolitica interna» o applicata. Laddove tale aggettivazione ne specifica la metodologia adottata ed il carattere. Siffatto approccio, oggi maggioritario tra i media e gli analisti, è stato fatto proprio e promosso da Yves Lacoste (1929), accademico nonché fondatore dell’Istituto francese di Geopolitica. Lacoste è considerato il riscopritore della geopolitica dopo decenni di oscuramento. Per mezzo della rivista «Hérodote», da lui fondata nel 1976, le tesi geopolitiche iniziarono ad essere regolarmente diffuse in Francia ed in Europa.
Lo studioso francese constata giustamente che dalla caduta della cortina di ferro, nel 1989, benché sia cessata la guerra ideologica tra l’Occidente liberal-capitalista e l’Oriente comunista, non risulta cessata viceversa la situazione di instabilità tra varie entità statali, che, al limite, hanno trovato dallo scompaginamento del Patto di Varsavia e dal rinnovato assetto geopolitico planetario, nuovo vigore. «Ora – spiega Lacoste – le cause di questi conflitti derivano in maniera solo molto indiretta dall’economia: gli avversari non combattono per il possesso di ricchezze ma soprattutto per delle ragioni nazionali […]»[1].
La necessità di trovare nuove ragioni che spieghino le rivalità interstatuali e che vadano oltre l’economia, è condivisa dall’unanimità degli studiosi di geopolitica. Alexander Dugin (1962), al seguito di Carl Schmitt (1888-1985)[2] ed altri, propone addirittura di definire la geopolitica come «sistema» di interpretazione della società e della storia, assumendo non l’economia bensì il «rilievo geografico come destino»[3].
Non si può dire la stessa cosa riguardo il presupposto principale che lo stesso Lacoste pone, affinché si possa parlare di geopolitica. Egli scrive: «non si può concepire la geopolitica come approccio scientifico se non si pone come principio fondamentale che si tratta di analizzare delle rivalità territoriali fra differenti tipi di poteri, essendo ogni territorio disputato sia una posta in gioco in quanto tale, per ragioni strategiche, economiche o simboliche, sia solamente un terreno su cui si affrontano influenze rivali»[4].
La prospettiva riduzionista dello studioso francese cozza con una «legge di natura» fornitaci dall’esperienza e sondata negli avvenimenti della storia. Ogni conflitto planetario riposa naturalmente su un certo tipo di rivalità interstatuale. Bisognerebbe chiedersi però se basti questo per spiegare ogni ragione ultima dei conflitti, ignorando qualsiasi altro fattore.
Trattando di geopolitica non si può fare a meno di riflettere sul ruolo che riveste per l’essere umano la terra. Dei quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco) cari alla filosofia pre-socratica, senza dubbio la terra assume per l’uomo un ruolo fondante. Egli nasce da essa, ne è plasmato, conduce la totalità della sua esistenza su di un lembo di terra (anche artificialmente costruito), è destinato infine a ritornare ad essa al termine dei suoi giorni. La Terra fornisce all’essere umano l’angolazione principale attraverso cui condurre la vita, scrutare desideri, condurre viaggi immaginari; luogo reale e metafisico, la Terra è madre e padre, è famiglia, è casa ed influenza costitutivamente la rappresentazione di chi siamo e di cosa vogliamo essere.
Riflessioni di questo tipo sono divenute parte fondante del pensiero di numerosi studiosi di geopolitica. Probabilmente il testo più suggestivo in materia, anche per la metodologia impiegata che spiega molto della stessa personalità dell’autore, è quello scritto dal giurista e filosofo tedesco Carl Shmitt: Terra e mare. Sin dalle prime righe del terzo capitolo, Schmitt presenta apoditticamente una legge di natura nella quale è compreso un dualismo fondamentale: «La storia del mondo è la storia della lotta delle potenze marittime contro le potenze terrestri»[5].
Il dualismo tra terra e mare inerisce aspetti fondamentali della vita di un essere umano. La terra, come si è detto, richiama la stabilità, la fissità. Proietta il desiderio umano e l’universo che si muove attorno ad esso verso una tipologia di valori di tipo conservativo. L’organizzazione sociale a cui essa rimanda è definita nei principi, rigida nei valori che la innervano, non sottoponibile ad evoluzione. Il rispetto e l’osservanza della tradizione religiosa e sociale gioca nelle tellurocrazie un fattore chiave e distintivo. Il termine «tradere» (trasmettere) da cui «tradizione», deve essere inteso nel suo significato proprio, ovvero in una trasmissione di usi e consuetudini costantemente arricchite dalle generazioni che si susseguono ma incardinato in un ordine di valori dato. La visione comunitaria in questo contesto è della massima importanza e l’intera struttura sociale si manifesta come societas societarum. L’individuo spiega la sua libertà all’interno della societas, la quale è riunita spiritualmente e socialmente attorno ad un’anima vivificante, rappresentata storicamente dall’imperatore o dal monarca, imago Dei, posto al Suo servizio nel rispetto della legge divina. Ad un livello meno elevato la stessa funzione rappresentativa la riveste il capo della tribù o il fedele vassallo che esercita la signoria in nome del suo signore su di un dato territorio. Sino ad arrivare alla comunità familiare, in cui l’autorità del pater familias rappresenta Dio in seno alla società domestica.
Le potenze del mare, o talassocrazie, richiamano ad una fluidità costitutiva che li definisce. L’elemento marino, all’opposto di quello tellurico, è nomade, è aperto al progresso e incentrato sul primato dell’individuo. Lo spirito comunitario non riveste un ruolo centrale se non per aspetti puramente legati a ragione di ordine pubblico. L’organizzazione sociale ha la funzione di garantire il massimo esercizio della libertà individuale. Da qui la preferenza accordata alla democrazia e al primato dei diritti sui doveri. L’accento religioso è, se non del tutto assente, depotenziato e privato del vigore linfatico che assume nelle tellurocrazie. Non è un caso, spiega Schmitt, se la rivoluzione industriale sia nata in Inghilterra, ossia su di un’isola. Non un’isola qualunque, bensì un’isola dai tratti peculiari, la quale «aveva compiuto uno sviluppo storico del tutto particolare e fatto un passo stupefacente»[6]. Il giurista tedesco situa il cambio di paradigma dell’Inghilterra del XVIII nell’essere passata da «una esistenza terranea ad un’esistenza marittima»[7]. Il passaggio «al mare» e la corsa al suo dominio, richiese il necessario sviluppo tecnico e industriale, corollario di un’esistenza che scruta sé e la propria proiezione sulle cose più che l’ordine circostante e ciò che vi è al di là e al di sopra di tale realtà.
Le guerre tra Sparta ed Atene, Roma e Cartagine, e ancora, in tempi più recenti, tra Impero russo e Regno Unito, lette alla luce di tale dualismo oppositivo tra terra e mare, assumono un rilievo di grande interesse. Sir Halford J. Mackinder (1861-1947), da molti considerato il padre fondatore della geopolitica, rappresentò in modo mirabile, in un suo celebre scritto[8], lo scontro in essere tra quella che lui definisce come «Heartland» (cuore del mondo), ovvero il continente eurasiatico, e la «mezzaluna esterna», vale a dire quello spazio geograficamente e culturalmente «marittimo» occupato dalla Gran Bretagna, dagli Stati Uniti e dall’Australia ecc. Tra l’Heartland e la mezzaluna esterna, si staglia la «mezzaluna interna» (Germania, Austria, Turchia, India, Cina), zona «costiera» che funge da cuscinetto tra le due. Considerata da Mackinder come la più esposta ai rivolgimenti, dunque mobile e culturalmente ricca per la posizione mediana tra terra e mare. Secondo lo studioso inglese il continente eurasiatico domina geograficamente il pianeta. La strategia della mezzaluna esterna, e quindi delle potenze marittime, dovrebbe concentrarsi sul contenimento e l’accerchiamento del continente euroasiatico, cuore e perno del mondo. Ancor oggi la geopolitica delle talassocrazie (Gran Bretagna e Stati Uniti in primis) trova un punto di riferimento negli scritti e nella strategia elaborata da Mackinder[9].
Il dualismo presentato ha il pregio di inquadrare la geopolitica su di un asse che analizza alla radice i fattori geopolitici a partire dalla condizione che l’uomo riveste nello spazio. Elemento, quest’ultimo, che esercita una grande influenza e di cui spesso l’essere umano ne risulta condizionato. La geopolitica, spiegando tali influenze e condizionamenti, non si limita così ad esercitare una funzione meramente descrittiva ed analitica del dato conflitto o della data strategia spaziale posta in essere dagli attori internazionali. Non sfugge alla contingenza ed all’analisi dell’evento nella situazione data, riesce anzi ad evidenziare e a prevedere mosse e strategie alla luce di uno studio che sappia integrare la geopolitica in un universum multidisciplinare più vasto.
Note
[1] Y. Lacoste, Cos’è la geopolitica?, trad. it., in «Eurasia», 17.07.2007.
[2] Cfr. C. Schmitt, Terra e mare, trad. it., Adelphi, Milano 2002; Idem, Il nomos della Terra, trad. it., Adelphi, Milano 1991.
[3] A. Dugin, Foundations of Geopolitics: the Geopolitical Future of Russia, trad. in., Independently Published, 2017.
[4] Y. Lacoste, Cos’è la geopolitica?, op. cit.
[5] C. Schmitt, Terra e mare, Adelphi, Milano 2002, p. 18.
[6] C. Schmitt, Dialogo sul nuovo spazio, in Dialogo sul potere, trad. it., Adelphi, Milano 2012, p. 71.
[7] Ibidem.
[8] H.J. Mackinder, The Geographical Pivot of History, in «The Geographic Journal», XXIII, n. 4 (1904), pp. 421-444.
[9] Si consultino a titolo d’esempio gli studi condotti da Alfred Mahan (1840-1914), in particolare il concetto che lui elabora di «Sea Power», e quelli del suo diretto continuatore, Nicholas Spikman (1893-1943).
Foto copertina: Rappresentazione. Geopolitical Review