Perché sappiamo tutto del conflitto ucraino? E perché questa vasta consapevolezza può trasformarsi in una grande menzogna, capace di annientare per sempre la nostra morale? 


Della guerra in Ucraina non ci sfugge nulla. In un mese abbiamo imparato la geografia di un territorio di cui conoscevamo appena la capitale, adesso localizziamo velocemente Karkiv, Mariupol, Leopoli, Odessa, Chernihiv. Ci è chiaro il contesto storico, i fitti legami dei Paesi esteuropei, non sono più un gomitolo, ma un meticoloso ricamo. Allo scoppio della prima bomba abbiamo subito riordinato il nostro assetto: i buoni da un lato, i cattivi dall’altro. Questa infantile divisione è stata necessaria e funzionale, ci ha reso, nel nostro piccolo, personaggi secondari della storia; ma non è bastato.
I primi giorni di guerra ci hanno tenuti svegli, le eco dell’esplosioni s’infrangevano contro lo schermo delle nostre televisioni. Poco dopo però, i boati hanno iniziato ad affievolirsi, e le vittime hanno scosso i nostri animi. Questa fin qui descritta non è altro che la genesi mediatica di tutte le guerre; la precisione naturale di questo ciclo ci ha permesso di metabolizzare nell’arco degli anni qualunque tragedia e catastrofe umanitaria. I campi minati in Vietnam, gli uomini sepolti dalle macerie di Aleppo, gli ospedali insanguinati a Kabul, le grida in Yemen, le vite inciampate nella striscia di Gaza, le bombe di Tripoli, le urla, ormai stremate, degli Eritrei, Etiopi, Sahrawi, e di popoli spezzati dalla guerra: queste, e altre mille, immagini strazianti sono state digerite correttamente dalle nostre coscienze in passaggi precisi e puntuali.

Eppure, i soliti enzimi sembrano non funzionare con le immagini del conflitto ucraino, questo non ha nulla a che fare con la loro vicinanza, ma è dovuto esclusivamente a una loro essenziale caratteristica: hanno un viso conosciuto. Tutte le vittime di guerra hanno un volto, e alcuni dei loro visi vengono stampati nei nostri giornali in prima pagina; ma gli occhi di chi muore asfissiato dai fumi della guerra in Ucraina, hanno una portata diversa da tutti gli altri.

Dei corpi schiacciati dal ponte distrutto nella periferia di Kiev conosciamo ogni minuzioso dettaglio; riconosceremmo i lineamenti delle giovani madri ferite e uccise dal bombardamento di Mariupol; il pianto del bambino che non vuole lasciare il padre andare a combattere, risuona in noi. Il motivo per cui abbiamo tutte queste cartoline da Kiev, è perché a raccontare la tragedia non ci sono solo reporter di guerra, ma sono soprattutto gli Ucraini, con telefoni, a documentare la loro drammatica storia. Siamo entrati nell’intimità dei rifugi, nelle cupe e affollate scale della metro, e abbiamo trovato uomini europei che vivono sotto le bombe: questo ci ha sconvolto. Così i volti della guerra acquistano una nuova forza, e si manifestano indelebili nelle nostre menti, sono volti simili a noi; come ha detto il presentatore di Al Jazeera English, Peter Dobbie: «Guardandoli, nel modo in cui sono vestiti, queste sono persone abbienti della classe media. Questi non sono ovviamente rifugiati che cercano di allontanarsi dal Medio Oriente […] o dal Nord Africa. Sembrano una qualsiasi famiglia europea con cui vivresti accanto». Questa affermazione può non piacere alla nostra morale, ma racchiude una gelida verità: l’Ucraina ci ha mostrato che la guerra può piombare anche nelle vite occidentali e annientarle. Essere consapevoli di questo nostro ragionamento ci renderà sicuramente più robusti e coscienti, ci consente di non scivolare nell’indifferenza, tappa ultima della genesi mediatica.

In questo momento storico, le nostre coscienze sono onde altissime, pronte a infrangersi contro ogni minaccia dell’equilibrio sociale, morale e culturale; e i media, consci di questo, sembrano stimolare il movimento ondoso per innescare un maremoto costante e controllato. Così gli scatti struggenti della guerra acquistano un nuovo scopo: gonfiare la coscienza dell’opinione pubblica per renderla suscettibile a ogni leggera variazione. Per questo dei bambini di Kiev conosciamo l’età, le loro voci, i loro pianti, sappiamo che giocano sulle rampe delle scale nelle stazioni metro; ci siamo intrufolati nelle loro vite passate e li abbiamo osservati: prima di perdere la voce in guerra, erano stesi sul divano a guardare la televisione, questo ci terrorizza e ci raggiunge immediatamente. Il resto, lo svolgimento del conflitto sul campo, le conquiste e le controffensive, sembra viaggiare a una velocità diversa e parallela.

Analizzare le correnti emotive che attraversano questi eventi è fondamentale per comprenderne l’evoluzione. I nostri sentimenti non stanno combattendo la guerra oggi, ma si stanno preparando a fronteggiare le battaglie prossime; per questo dobbiamo preoccuparci dello sviluppo della coscienza, del delicato processo che porta alla modificazione dei nostri meccanismi di uso e riciclo di emozioni. Chiedersi perché la sofferenza ucraina ci investa totalmente mentre quella afghana ci colpisca parzialmente, non è una mera autocritica del nostro sistema: significa curare e guidare la propria coscienza, preoccuparci della sua stabilità e robustezza. L’obiettivo di questa spinosa e fragile analisi non deve essere colpevolizzare l’emozioni occidentali, dipingerle come bugiarde e ipocrite; ma dovrebbe farci comprendere la responsabilità dei nostri sentimenti, così da non abbandonarli alle sensazioni.

La guerra ucraina ha inceppato il macchinoso ingranaggio dell’opinione pubblica, questo guasto del sistema potrebbe permetterci di superare l’arida carestia emotiva degli ultimi decenni, e costruire, infine, una coscienza collettiva solida e indipendente dai venti. Avremo questo effetto solo se dubiteremo della nostra presunta morale; interrogandoci sui motivi di questa sofferenza: perché la proviamo? Per Chi la proviamo?


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Foto copertina: Una famiglia su un treno di evacuazione saluta un giovane che si trova al binario della stazione ferroviaria centrale di Odessa, in Ucraina. | Foto: BULENT KILIC / AFP