Quando erano gli italiani ad andare in Africa. Andrea Cantone con “La luce dell’Equatore. Una storia africana” (Effetto edizione) ci proietta in Nigeria, meta degli italiani in cerca di lavoro. Confronto con l’autore che ci racconta il fenomeno migratorio italiano nell’ex colonia inglese, lontano da quello che accadeva nelle colonie italiane.


La luce dell’Equatore. Una storia africana

Sullo scenario degli anni ‘30 del XX secolo, Cantone autore di “La luce dell’Equatore. Una storia africana” (Acquista qui) ci fa calare nei panni del personaggio di Alessandro Testa, giovane ragazzo alla ricerca della fortuna e del riscatto in Africa. Partito dal piccolo paesino di Roasio, provincia di Vercelli, il protagonista si confronterà con la complessa e diversa realtà africana, che sin da subito lo metterà alla prova. Alla base della coinvolgente narrativa, lo studio storico e l’esperienza in prima persona dell’autore nel continente ci consegnano un libro che ci fa riflettere su emigrazioni, risorse del continente e lavoro. Lo abbiamo intervistato per approfondire queste dinamiche.

Quando si parla di emigrazioni in Africa, la nostra memoria storica ci fa volgere lo sguardo verso il Corno d’Africa, dove all’epoca era forte il colonialismo italiano. L’esperienza dei cittadini di Roasio ci consegna un fenomeno migratorio che coinvolge un’area in cui la facevano da padrone Francia e Gran Bretagna. La vicinanza della cittadina alla Francia può aver favorito la scelta in questa direzione piuttosto che verso le colonie italiane?
«I roasiani andavano nelle colonie per lavorare. In Italia non avevano quello che cercavano, non trovavano quello che volevano e chi voleva qualcosa di più dalla vita doveva andare via. Doveva andare lontano. Questo sentimento credo sia quello che accomuna, di fatto, ogni flusso migratorio che la storia ricordi. In Nigeria serviva la manodopera; occorrevano persone che stessero in cantiere e che si sapessero arrangiare con i pochi mezzi a disposizione. Il popolo italiano in questo senso è sempre stato maestro. Gli inglesi di solito invece non amavano sporcarsi le mani: così prendevano gli appalti pubblici della colonia e li condividevano con ditte italiane specializzate nell’edilizia.  Nel Corno d’Africa, nelle colonie italiane, invece, gli italiani andavano per fare i “padroni”; per avere in Africa uno stile di vita e un tenore che non potevano permettersi in patria. Penso, e dopo lo studio approfondito che ho svolto per scrivere il mio romanzo, che la mentalità da pioniere e da sognatore dei roasiani fosse molto diversa da chi andava a “comandare” nelle colonie italiane.»

Il viaggio di Alessandro verso le coste nigeriane è molto preciso. Quali sono state le fonti da cui è stato tratto?
«Ho studiato molto prima di iniziare a scrivere il romanzo. Le fonti dalle quale ho attinto informazioni sono state diverse, tra diari privati scritti a mano lasciati dai pionieri roasiani, saggi storici, racconti giornalistici, romanzi, film, documentari e interviste private. Questa ricerca così approfondita è stata possibile soprattutto grazie alla collaborazione del “Museo dell’Emigrante” di Roasio; un paese piuttosto piccolo in provincia di Vercelli, ma dove praticamente ogni famiglia parla africano. Nel corso dell’ultimo secolo Roasio è stato infatti interessato da un flusso migratorio (soprattutto verso diversi stati africani) senza precedenti in Italia. Il mio romanzo vuole infatti essere un omaggio alle vite di quelle coraggiose e intraprendenti persone.»

Appena giunto a Lagos, Alessandro viene ricevuto dal console italiano. Il diplomatico gli comunica che ormai la Nigeria non è più un territorio fertile per accogliere lavoratori stranieri, aggiungendo che oramai molti italiani si erano spostati verso il Congo francese (Repubblica del Congo) e la Costa d’Oro (Ghana). Questo passaggio è interessante perché ci spiega le dinamiche lavorative nella regione. Attraverso gli scritti dell’epoca, che lei ha consultato, ci può dare un contesto generale della situazione in quel periodo?
«Le varie epoche storiche sono state sempre caratterizzate da periodi di grande crisi. In quegli anni la Nigeria era un po’ considerata la Cenerentola tra le colonie a causa della sua complicata conformazione geografica. A parte la zona costiera, quasi interamente occupata da un territorio lagunare, non vi erano state molte spedizioni che si erano avventurate nell’entroterra nigeriano. Il bush era praticamente impenetrabile e molto pericoloso. Quando negli anni ‘30 del secolo scorso i roasiani approdavano laggiù venivano accolti cercando di non dare loro troppe aspettative, poiché il governo inglese cambiava idea molto velocemente e seguendo la delicata economia mondiale. Non dimentichiamo che il mondo intero era appena uscito da un conflitto mondiale. In caso di ristrettezze economiche, infatti, le ditte “non inglesi” venivano escluse dai grandi appalti pubblici e quindi i dipendenti erano costretti a reinventarsi in fretta oppure cambiare colonia e quindi governo.»

Alessandro decide di lasciare il settore delle costruzioni per la corsa all’oro che si era aperta nel nord nigeriano. Che testimonianze ci sono giunte su questo fenomeno nel Paese e in altri in cui poi gli italiani si sono diretti?
«La corsa all’oro fluviale nel nord della Nigeria, così come nello stato limitrofo, la Costa d’Oro (da cui il nome), potremmo definirlo un po’ come uno specchietto per le allodole, nel senso che non abbiamo testimonianza di nessuno che diventò ricco “setacciando i fiumi”. Le spedizioni si pagavano da sole, ma non permettevano di guadagnare, pertanto vennero ben presto abbandonate da tutti gli avventurieri. Da quello che si sa, in molti ci hanno provato, ma anche in questo caso, la vita difficile nella foresta dell’Africa equatoriale fu ben presto un valido deterrente per chiunque. La febbre dell’oro in Nigeria scoppiò in un pieno periodo di crisi globale, pertanto si può pensare che in molti, non avendo comunque nulla da perdere e cercando di fare di tutto per non tornare a casa sconfitti e affranti, avessero provato a giocarsi anche questa ultima carta.»

Ci sono stati casi di migranti che una volta giunti in Africa e non avendo più prospettive lavorative si sono diretti oltreoceano in direzione delle coste americane?
«Era estremamente difficile dall’Africa andare in America in quegli anni, in quanto il biglietto per una nave che attraversava l’Oceano Atlantico era molto costoso. Nel caso in cui un italiano non fosse riuscito ad avere fortuna nella colonia africana, difficilmente aveva poi in tasca abbastanza denaro per permettersi una traversata oceanica. I piroscafi invece che dall’Italia o dalla Francia approdavano sulle coste africane, facendo diverse tappe nei porti principali del nord Africa, erano di norma dei postali che davano un passaggio alle persone per poche lire in cambio di lavoro sulla nave. Il viaggio, in quest’ultimo caso, era più fattibile per chiunque.»

L’uscita del suo libro ha suscitato una rinnovata curiosità per il continente?
«A questa domanda, io personalmente non ho una risposta precisa. Dovremmo chiederlo ai lettori. Quello che so è che ormai da alcuni mesi sto portando in giro per le scuole del biellese, (con il progetto di ampliare il raggio degli istituti l’anno scolastico prossimo) un progetto dal titolo “Italiani in Africa, da pionieri a imprenditori” con l’idea di sensibilizzare gli studenti sul fenomeno delle migrazioni. Parlare nelle scuole di questo fenomeno, che ci ha visto grandi protagonisti nel secolo scorso, credo sia molto importante soprattutto considerando il periodo che stiamo vivendo. Conoscere bene il passato, ci permette di comprendere meglio il presente e proiettarlo in un’ottica futura. Spero che il mio romanzo rinnovi la curiosità per il viaggio, per la scoperta e per lo spirito di avventura e nello stesso tempo migliori la capacità di accettazione del “diverso” da noi.».


Foto copertina: Momento di riposo davanti alla tipica capanna di paglia. Da notare le galline in primo piano, immancabile presenza per il sostentamento dell’accampamento – Costa d’Oro (attuale Ghana) 1915-1925.. Museo dell’Emigrante Roasio