Ampia è la trasversalità della limitazione dei diritti umani, dalla libertà di stampa e di parola a quelli digitali, da quelli di accesso alle risorse fino al più longevo diritto inalienabile dell’autodeterminazione. Dubai non è sempre un paradiso.


Ampia è la trasversalità della limitazione dei diritti umani, dalla libertà di stampa e di parola a quelli digitali, da quelli di accesso alle risorse fino al più longevo diritto inalienabile dell’autodeterminazione e ampio è il ricorso a l’incarcerazione di attivisti, l’inaccesso a giusto processo e l’uso di spyware governativi.
“Le forze di sicurezza dello stato degli Emirati Arabi Uniti hanno una lunga storia di sparizioni forzate in totale impunità, lasciando i detenuti e i loro familiari spaventati, confusi e senza speranza” ha affermato Michael Page, vicedirettore per il Medio Oriente di Human Rights Watch[1].
Nel 2013, un tribunale ha condannato 69 dissidenti dopo un processo manifestamente iniquo, ampiamente noto come il caso degli Emirati Arabi Uniti, in cui sono emerse prove di torture sistematiche da parte di funzionari della sicurezza dello stato.
E nel 2014, gli Emirati Arabi Uniti hanno emesso una legge antiterrorismo che permette alle autorità di perseguire critici pacifici, dissidenti politici e attivisti per cui l’autocensura è diffusa anche fra i giornalisti e gli accademici occidentali senza eccezione di Dubai Media City, formalmente una “Free Zone”.
Dal 2015 vietano ingresso a esperti HR e ricercatori, dopo che l’ultima volta una procedura speciale ha visitato gli Emirati Arabi Uniti, Gabriela Knaul, ha pubblicato un rapporto di critica dell’assenza di indipendenza giudiziaria[2].
Molte di queste misure non sono inusuali nella ostruzione di uno Stato oggi definito democratico sulle orde del liberalismo. Comunque, la contraddizione più grande è nella sostanzialità della predizione della missione della classe dirigente dei 7 Emirati che ambisce ad una strabiliante crescita economica inclusiva, compromettendo nella sostanza e nella prassi, piuttosto che nella teoria, lo sviluppo socio-economico: dove c’è discriminazione e disuguaglianza non c’è un progresso durabile. La stessa vision dei dirigenti degli Emirati Arabi Uniti, basata su crescita e inclusione, è inficiata da questa logica. La grande ambiguità di una teocrazia post-capitalista e globalista è anche dovuta alla strategia di stabilire una reputazione di paese moderno e tollerante che accoglie tutte le persone.
Il significato di accoglienza, però, è distorto e rilegato allo status sociale, etnico e finanziario dell’ospite. Così, gli Emirati, Dubai in primis, divengono lo specchio di un’urbanizzazione ultra consumistica e il mezzo per attrarre investimenti come quello del lusso e del turismo i cui attori finiscono per acuire quella contraddizione strutturale insita in un informale separatismo etnico che impatta lo sviluppo etico, umano e sociale.

Residenti stranieri = forza lavoro

L’89% dei residenti nel paese sono stranieri e costituiscono il 98%  della forza lavoro, provenienti principalmente da India, Pakistan, Filippine, Sri Lanka, Tailandia e concentrati a Dubai, dove risiede il 30% della popolazione degli Emirati grazie ad una crescita di circa il 9% annuo avvenuta tra 2010 e 2015.
Tuttavia, l’accesso alla cittadinanza negli UAE è limitato sin dagli anni’70. Nonostante gli stranieri vivano spesso una condizione di staticità legata ad una anche lunga o perenne residenza in loco priva di riconoscimento sociale, politico e urbano e costituiscano la quasi totalità del capitale umano e lavorativo del Paese, rimangono legati alla qualificazione di lavoratori temporanei e residenti altrettanto precari. Dal 2001, con lo scoppio delle rivolte arabe e con lo scoppio della guerra in Yemen, nonché con il peggioramento dei rapporti diplomatici che in quel frangente ha caratterizzato le relazioni fra UAE e Arabia Saudita, la repressione legale e sociale degli immigrati si è inasprita.
Ad ampliare questo deficit di garanzia di accesso riservati esclusivamente alla popolazione locale ha contribuito, inoltre, una diversificazione economica aggressiva che ha visto spostare l’asse di crescita da una matrice di sfruttamento e distribuzione petrolifera ad una post-petrolifera basata sullo sviluppo della ultra liberalizzazione finanziaria e del turismo di lusso. Di conseguenza, nella fascia privilegiata della società sono stati inseriti professionisti, imprenditori e investitori accolti da tutto il mondo e protetti dalla strutturale deformazione sociale per mezzo di un golden visa. Si parla di cosmopolitismo non integrazionista. Più di 200 nazionalità coesistono in un’organizzazione sociale fortemente gerarchica, ricca di privilegi e, lungo la fascia più bassa della piramide, basata sulla segregazione. La conseguenza più diretta sul piano economico si configura quale una morsa che schiaccia i milioni di stranieri costituenti la forza lavoro e la quasi totalità del capitale umano e sociale del paese in una situazione di precarietà, sfruttamento, insoddisfazione e frustrazione. Dall’altra parte, la casta etnica emiratina beneficia della redistribuzione economica e di privilegi fiscali e lavorativi eccezionali e paradossali oltre a inappellabili diritti politici che definiscono la società emiratina come una etnocrazia per cui l’integrazione culturale è limitata dal contesto politico e legale e pratiche informali di esclusione.
La manodopera edile che ha permesso al paese di riprodurre questo schema a livello urbano ed economico, è qualificata come appartenente ad uno status sociale basso ed ancorata a pericoli e rischi che non ne limitano lo sfruttamento strutturale, consolidato anche attraverso la pratica della trattenuta del salario o dalla prassi della sottopaga da parte dei datori di lavoro, assicurata a sua volta dall’inesistenza di alcuna organizzazione di lavoratori né sindacati.
Tale sistema, tipico tra i paesi del Golfo, è conosciuto come Kafala, un istituto di diritto islamico che, oltre ai paesi del Golfo, riguarda i paesi arabi in quanto istituzione legittimante la presa in custodia e l’affidamento di un orfano e che, come si intuisce, anche al di là del campo migratorio è ampiamente utilizzato e rappresenta ancora una fonte di catalisi di soprusi e sfruttamento.
Dalle spose bambine, a fenomeni di schiavitù, tratta, il sistema è largamente responsabile di un assoggettamento dei migranti e dei lavoratori temporanei nei paesi del Golfo ad un datore di lavoro. Egli, approfittando di instabilità economiche, necessità lavorative, condizioni strutturali di mancato riconoscimento giuridico paritario in capo agli immigrati, è molto spesso in grado di capitalizzare sui loro diritti, sulla loro sicurezza e sulla loro vita, trattenendo salari, abbassando la paga, trattenendo documenti imprescindibili per vivere nel paese legalmente, vietando o limitando gli spostamenti e ricattando gli inermi. Provenienza e colore della pelle sono riflessi nel colore del passaporto, e nello stile di vita in una città piena di contraddizioni ma anche possibilità infinite nel settore privato e, sembra, è proprio questa libertà formale a caratterizzare una paralisi di ingiustizia in cui l’accesso e la stessa ambizione sono prestabiliti dal contesto sociale di origine.

Seppure stia crescendo la varietà e l’intensità delle tutele riguardanti la vita ed il lavoro dei milioni di immigrati nonché un aumentato impegno specie della municipalità di Dubai verso la formazione e la sensibilizzazione circa i propri diritti dei lavoratori poco qualificati, a livello informale le leggi sono molto spesso violate con una conseguente condizione di disagio e frustrazione che prende a caratterizzare i cardini della società emiratina. Recentemente, il sistema Kafala ha sperimentato modifiche alla sua rigidità che vanno in una tipica direzione neoliberale. Nei 6 membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo tranne che nel Bahrein, è stato introdotto un sistema digitale per la protezione dei salari che obbliga le imprese a trasferire l’ammontare contrattuale dei salari direttamente ai conti bancari dei lavoratori. Gli UAE sono stati i primi a testarlo e implementarlo, ottenendo effetti positivi come il monitoraggio governativo dei dati circa i salari e i pagamenti di lavoro, l’implementazione della trasparenza, la ricerca di maggiore sicurezza del lavoro e la lotta alle dispute concernenti i salari, una facilitazione dei sistemi di pagamento da parte dei datori nonché la previsione di misure favorevoli a migranti impiegati altrove e con necessità di spostarsi.


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Tuttavia, il sistema non garantisce la regolarizzazione dei diritti per migranti con diverse esigenze, non favorisce l’istituzione di un salario minimo e non impatta l’istituzione della fascia di salario prevista in base al paese di provenienza. Inoltre, i salari rimangono ancorati al mercato[3] e le imprese all’insolvenza, sintomo da una parte di una cultura della discriminazione coerente con un sistema tradizionalmente privo di welfare (l’ Anti-Discrimination Law, incentrata su offese verbali e non verbali, varata nel 2015, sembra non aver portato a significativi miglioramenti) e, dall’altra, grazie al largo uso di subappalti e appaltatori esterni spesso in credito in un circolo vizioso che ripercuote l’insufficienza di riserve sui lavoratori e sulle loro famiglie.

I lavoratori, gli immigrati illegali e altre categorie escluse beneficiano dell’esclusivo aiuto di associazioni di stranieri che, non godendo del riconoscimento nel paese, attuano informalmente ma sotto il controllo della polizia locale, pratiche di sostegno economico, alimentare e giornaliero. Inoltre, dei micro-sistemi di welfare rientrano nel novero di imprese multinazionali nell’ambito di attività di responsabilità sociale o di enti privati allontanando sempre di più lo stato da necessità strutturali e responsabilità nei confronti della comunità. Per lo più, se c’è un regime di sicurezza sociale e vantaggi negli UAE, esso è proprio legato al Consiglio di Cooperazione del Golfo, per cui i cittadini non appartenenti al GCC non sono soggetti agli scarni vantaggi fiscali e alle contribuzioni sociali previste. Inoltre, per i cittadini del GCC residenti negli Emirati Arabi Uniti, i contributi di sicurezza sociale sono determinati in conformità con le norme di sicurezza sociale del loro paese d’origine. Così che tale prassi perpetua l’assenza di un’autocrazia recalcitrante a assumersi l’onere dello sviluppo umano, economico, urbano del (e per il) paese e che si consolida proprio grazie ad un trasferimento di responsabilità informale che può scarsamente essere efficace in termini di sviluppo. La mancanza di diritti e di sicurezza sociale non è affrontata alla radice e alle cause, ma diventa pienamente connivente all’agenda neoliberista per il “progresso” del paese[4].

La realtà sociale, informata da questa distorsione del concetto di inclusività e compartecipazione alle glorie dello stato del golfo, si fa realtà urbana, visibile agli occhi di tutti. Le misure municipali afferiscono alla costruzione di baracche in campi riservati a questi lavoratori alla periferia della città facendo in modo che lì si svolga pienamente la loro vita extra-lavorativa. In questi luoghi umani si sedimenta una autoesclusione che la realtà di nichilismo, frustrazione, sfruttamento, mancanza di prospettive e privazioni inietta piano piano e che è, di fatto, la manifestazione psicologica di un generale avvertimento sociale di conquista su se stessi, aggravata dalla teologizzazione della struttura socio-politica che acuisce l’inaccesso a spazi di proposte e miglioramento (Wright, 2006). Inoltre, i divieti che informalmente sono rivolti a questa casta di co-abitare gli spazi residenziali assieme ai locali e ai ricchi da tutto il mondo e di accedere a luoghi esclusivamente turistici e di intrattenimento culturale. L’ iper-capitalismo urbanistico per cui la crescita economica, basata sulla combinazione di deregolamentazione fiscale e concorrenza spietata si accompagna all’amplificazione dell’esclusione all’accesso di diritti economici, sociali, politici, si fa comunque irrilevante agli occhi di gran parte dei lavoratori in questione. Nel mentre, c’è chi guarda a Dubai come un’oasi per la libertà di impresa, godendo di tasse praticamente pari a 0, se escludiamo una recente e simbolica stipulazione di un’IVA limitata a pochi beni e servizi, e l’assenza di sindacati né diritti politici[5].

Uno sviluppo al bivio fra lungimiranza e concretezza

La futura prospettiva di crescita del Paese si basa, in ultima analisi, su un’imponente politica di diversificazione economica intrapresa dal governo emiratino da un quinquennio a questa parte. In tal modo, è stato possibile per l’establishment emiratino, ridurre l’incidenza delle rendite dell’olio nero, da un 80% degli 1980 al 35% sulla quota del PIL nel 2016In questo contesto, ospitare ed organizzare l’EXPO 2020 assume un ruolo evidentemente fondamentale, soprattutto ne cercare di attrarre fondi per gli ingenti investimenti che l’unione necessita nel campo della sostenibilità. Inoltre, una decisiva “Vision 2021” nonché la strategia dei prossimi 50 anni promettono consistenti piani di investimento che insistono sui settori chiave Trasporti e Infrastrutture, Turismo, Inclusione, Green Energy e Sostenibilità. La strada da percorrere è lunga, in ognuno di questi ambiti. Lo sceicco Mohamed bin Zayed Al Nahyan, principe e governatore di Abu Dhabi nonché capo delle forze armate federali, ha dichiarato che 10 principi ambiscono a guidare il governo in priorità quali rafforzare l’unione, costruire un’economia sostenibile e sfruttare tutte le risorse possibili per costruire una società più prospera, promuovere relazioni regionali e globali positive per raggiungere obiettivi nazionali e sostenere la pace e la stabilità globali. Lo sviluppo sociale e quello urbano specie dove la liberalizzazione è stata più veloce ed aggressiva, come a Dubai, sono contemplate nelle nuove strategie di progresso e sviluppo nazionali e in ambito della necessaria regolamentazione del mercato del lavoro, il sesto incontro dell’Abu Dhabi Dialogue può considerarsi una mirabile promessa. Il raggiungimento di una concreta integrazione negli spazi urbani, abitativi, di lavoro e dunque un rafforzamento da parte di tutta la società alla mission degli Emirati Arabi, che necessita di maggiore solidarietà e coesione sociale, dipenderà infatti soprattutto dalle scelte pubbliche nel direzionare gli investimenti e porre fine ad una competizione iniqua, discriminatoria e incontrollata. La stessa lungimiranza con cui gli emirati hanno pianificato e vissuto lo sviluppo negli scorsi 50anni non può non voler significare uno sviluppo umano ed economico della fascia “tenuta bassa” nonché la forza motrice e la maggioranza del paese, della loro integrazione nell’economia globalizzata e un ampio sistema di sussidio pubblico alla loro compartecipazione e ad una integrazione che il mercato, con qualche venatura teologizzante, non ha mai favorito.


Note

[1] Per maggiori dettagli sulle violazioni sistemiche di diritti umani ai danni di attivisti e ricercatori, e circa gli eventi di cronaca: https://www.hrw.org/news/2021/10/01/uae-tolerance-narrative-sham-0
[2] Via https://spinternet.ohchr.org/Download.aspx?SymbolNo=A%2fHRC%2f29%2f26%2fAdd.2&Lang=en
[3] De Bel-Air, Françoise. (2018). “Policies and Politics in the Arab Migration to the Gulf States: Struggling to Keep the Door Open”
[4] M. Buckley, 2013, Locating Neoliberalism in Dubai: Migrant Workers and Class Struggle in the Autocratic City, School of Geography and the Environment, University of Oxford, Oxford, UK. Via: Buckley_2013_Locating_neoliberalism-in-Dubai.pdf7
[5] Gli EAU sono al 31° posto al mondo quanto a facilità di apertura, conduzione e chiusura d’affari. Dal 2020, l’Italia è primo partner commerciale dell’UE. Nel Paese sono presenti oltre 600 imprese italiane ma gli EAU sono anche un partner culturale e politico molto stretto di Roma. Sul piano regionale, gli EAU agiscono principalmente nel GCC, di cui sono membri fondatori nel 1981, ormai diventata un’unione armonizzatrice delle rispettive politiche economiche, e monetarie, mentre l’appartenenza al GAFTA estende la liberalizzazione degli scambi e l’abolizione delle tariffe doganali.


Foto copertina: Fotografia di un gruppo di lavoratori durante la costruzione del Burj Khalifa nel giugno 2007