Come annunciato dalla Ministra della Difesa francese, Florence Parly, via twitter “Il 3 giugno le Forze Armate francesi, con il supporto dei partners internazionali, hanno neutralizzato l’Emiro di Al-Qaeda nel Maghreb Islamico, Abdelmalek Droukdel e diversi suoi luogotenenti, nel corso di un’operazione nel nord del Mali”.[1]


 

 

 

Droukdel aveva 50 anni, algerino d’origine e veterano della guerra civile Afghana dove aveva combattuto i sovietici nei primi anni ’90, e dalla quale era poi tornato in patria per partecipare alla guerra civile algerina nelle fila del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento (GSPC)[2].

Laureato in matematica e convinto islamista, una volta divenuto comandante del GSPC nel 2004 si era avvicinato sempre più ad Al Qaeda, consolidando la relazione con Abu Musab Al-Zarkawi, il leader del gruppo terroristico in Iraq in quegli anni turbolenti. Dal 2006 in poi, gli uomini di Droukdel hanno giurato fedeltà alla “Base” e sono presto divenuti il suo partner più fedele in Africa, e uno dei più letali. Droukdel ha fortemente voluto ed ottenuto l’internazionalizzazione delle militanze terroristiche algerine e la loro unione sotto il grande ombrello di Al Qaeda, ciò che poi ha dato origine ad AQMI (al-Qaeda nel Maghreb Islamico). Sotto il comando di Droukdel sono iniziati gli attacchi kamikaze verso obiettivi che rendevano evidenti le loro ambizioni non più locali. Tra questi, il quartier generale delle Nazioni Unite ad Algeri, che il gruppo ha distrutto nel 2007, uccidendo decine di persone.

Ben presto gli uomini di Droukdel operavano in Mauritania, Mali, Niger, Tunisia e Libia.
Il gruppo si finanziava con il rapimento di stranieri e l’ottenimento di riscatti dai loro governi. In soli cinque anni, a partire dal 2008, il gruppo ha incassato 91 milioni di dollari.

Dopo una crescita fulminante, però, a partire dal 2011 la leadership di Droukdel ha iniziato a vacillare: la grandezza della risposta antiterroristica guidata dalle forze algerine, francesi e statunitensi ha costretto l’Emiro a ritirarsi in clandestinità, rendendo difficile e macchinosa la comunicazione tra i vertici e la base dell’organizzazione.
Ciò ha anche segnato l’inizio di una serie di fratture interne al gruppo, una frammentazione tra le forze jihadiste che ha visto spostare il baricentro verso il Sahel, e dato forza ad una nuova classe dirigente formata da personaggi rappresentanti di diversi gruppi etnici che volevano far sentire la propria voce. Tra questi, Mokhtar Belmokhtar (algerino di nascita ma vicino alla comunità berbera), Amadou Kouffa (appartenente all’etnia Fulani, molto attiva in Mali), e Iyadh ag Ghaly (Touareg originario del Mali).

In un primo momento, Droukdel ha voluto sfruttare il richiamo etnico africano dei nuovi leader, e ha creato un’organizzazione di facciata chiamata JNIM (Jamaat Nusrat al Islam wal Muslimin, tradotto spesso come GSIMGruppo per la salvezza dell’Islam e dei Musulmani”) affidandola al Touareg maliano Iyadh ag Ghali ed includendo nel comando centrale anche Amadou Kouffa.

Sotto la bandiera di questo nuovo gruppo, che aveva un volto locale ma che è rimasto sotto il comando di Droukdal, l’impronta di Al Qaeda si è diffusa profondamente nell’Africa occidentale.

Nel 2015, a Bamako, capitale del Mali, i terroristi hanno attaccato il Radisson Blu, il miglior hotel della città, prendendo 170 ospiti in ostaggio e uccidendone 20.

Nel 2016 a Grand-Bassam, famosa località costiera della Costa d’Avorio, le milizie hanno aperto il fuoco su un resort uccidendo 20 persone. Nel 2017 a Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, un ristorante popolare tra gli espatriati è stato attaccato uccidendo 18 persone.

Figura 1 – Fonte: French Ministry of Europe and Foreign Affairs
 

 

Durante tutta la sua ascesa, Al Qaeda nel Maghreb Islamico ha rilasciato materiale video e audio per promuovere l’alleanza alla rete globale di Al Qaeda, alleanza confermata dalle migliaia di pagine di documenti interni all’organizzazione recuperate da The Associated Press che testimoniano la fitta corrispondenza tra Droukdel, Al-Zarkawi, e soprattutto Osama Bin Laden. È innegabile che l’uccisione di un leader come Droukdel rappresenti un risultato importante per la coalizione internazionale guidata dai francesi che da anni tentano di bloccare l’avanzata jihadista nel nord-Africa; ma i benefici non vanno oltre questa sporadica vittoria.
Ad oggi il nucleo del jihadismo africano è nel Sahel, precisamente al confine tri-partito di Niger, Mali e Burkina Faso dove hanno acquisito potere e forza diverse entità: il Gruppo per la Salvezza dell’Islam e dei Musulmani di Ag-Ghali, e lo Stato Islamico nelle sue due sub-unità della provincia del Grande Sahara (SIGS) e dell’Africa Occidentale (SIAO).

E allora, chi sono i leader protagonisti della lotta jihadista oggi? Quali sono i fattori che contribuiscono all’escalation di violenza nella regione? Il loro annientamento fisico è la sola chiave per bloccarne la crescita?

Con la morte di Droukdel, tre sono gli uomini che detengono il comando della regione: Iyadh ag Ghali e Amadou Kouffa appartenenti al GSIM, le Group de Soutien à l’Islam et aux Musulmans, (o Nusrat al-Islam) e affiliati ad Al Qaeda; entrambi maliani con radicate connessioni locali ed interessi etnici spiccati, sono due leader che con le proprie milizie cercano di colpire figure istituzionali, rappresentanti statali, per sbriciolare l’impianto strutturale ed insediarsi meglio nella componente sociale, perciò più collaborativi con le popolazioni locali.

Poi c’è Abu Walid al-Sahroui, il jihadista più ricercato in tutta l’Africa Occidentale, sorvegliato speciale dei francesi, a capo dello Stato Islamico del Grande Sahara affiliato all’ISIS, attivo nella zona di confine tra Niger, Burkina Faso e Mali, il triangolo nero per via dei frequentissimi attacchi contro i campi militari e le forze internazionali, anche recentemente tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020. Al-Sahroui è stato membro del Fronte Polisario Khatt al-Shahid, un movimento politico nato negli anni ’70 che si batte per l’indipendenza e l’autodeterminazione del Sahara Occidentale dall’occupazione marocchina;[3] è poi diventato leader del MUJAO (Movimento per l’Unicità e il Jihad nell’Africa Occidentale) con lo scopo di costituire una colonna jihadista saheliana fatta di combattenti africani, balzando agli onori della cronaca per il rapimento di due operatori umanitari spagnoli e un’italiana, Rossella Urru, nel campo profughi di Hassi Raduni, a sud dell’Algeria.[4] Infine, dal 2015, ha promesso fedeltà all’IS, e lo scorso anno è stato ufficialmente integrato nello Stato Islamico dell’Africa Occidentale, meglio conosciuto con l’acronimo inglese ISWAP[5], basato nel nord-est della Nigeria. Il gruppo è uno dei più potenti anche dal punto di vista economico, e per arricchire le proprie casse, oltre ad un probabile finanziamento dalla Libia e dalla Nigeria, si serve di estorsioni, rapimenti, traffico di esseri umani, sfruttamento delle miniere d’oro, ma anche della zakat, l’elemosina rituale islamica, uno dei cinque pilastri della religione al quale nessun credente può sottrarsi, e che i miliziani di Al-Sahroui estorcono sotto minaccia di morte.

A confermare il potere dello Stato Islamico del Grande Sahara c’è la dichiarazione dei Presidenti del G5 (l’iniziativa militare congiunta a cui prendono parte Mali, Niger, Ciad, Mauritania e Burkina Faso per la stabilizzazione del Sahel[6]) e del Presidente Francese che lo scorso gennaio hanno consolidato lo sforzo militare contro il Gruppo e contro il suo leader, istituendo una nuova coalizione con quartier generale a Niamey, in Niger, proprio dentro al triangolo nero al confine con Burkina Faso e Mali, e aumentando di 1200 unità il contingente militare.

Ma dopo quasi un decennio di incredibile sforzo bellico, è davvero questa la tattica che i governi della regione, affiancati dai partner occidentali, vogliono e devono implementare per frenare la minaccia jihadista? Di fronte ad un universo così frammentato, fatto di gruppi consolidati e affiliati ad organizzazioni terroristiche internazionali, ma anche di milizie nazionaliste e gruppi di difesa basati sull’appartenenza etnica, l’intervento militare sembra essere una piccola componente della strategia ad implementare per bloccare il flusso di violenza. Siamo in una zona geografica abitata da quasi 90 milioni di persone che diventeranno 200 milioni entro il 2050; una zona dove il cambiamento climatico e la conseguente desertificazione hanno rubato la sostenibilità e la sopravvivenza ad un’intera generazione, dove non esistono alternative e dove il seme dell’estremismo islamico ha trovato terreno fertile per la mancanza di un sistema educativo esteso ed inclusivo.

L’Unione Europea e le Nazioni Unite hanno riversato miliardi per investire nella sicurezza della regione senza tenere conto delle altre componenti che hanno fatto nascere la crisi saheliana dal principio: fattori politici, economici, ambientali e religiosi che fanno parte di un bilancio complesso, ma senza i quali non ci potrà mai essere sviluppo e pace.


Note

[1] https://www.lemonde.fr/international/article/2020/06/06/que-faisait-abdelmalek-droukdel-l-emir-d-al-qaida-tue-au-mali-par-la-france-dans-le-massif-de-l-adrar-des-ifoghas_6041975_3210.html

[2] https://www.britannica.com/topic/al-Qaeda-in-the-Islamic-Maghrib

[3] https://www.liberopensiero.eu/17/01/2019/esteri/fronte-polisario-saharawi/

[4] https://st.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-03-03/stampa-senegalese-rossella-urru-123227.shtml?uuid=AaVgMS1E

[5] https://www.un.org/securitycouncil/content/islamic-state-west-africa-province-iswap-0

[6] https://www.diplomatie.gouv.fr/en/french-foreign-policy/security-disarmament-and-non-proliferation/crises-and-conflicts/g5-sahel-joint-force-and-the-sahel-alliance/


Foto copertina: Immagine web. TimesFamous


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