Un cattolico alla Casa Bianca. Nel suo discorso inaugurale del 20 gennaio 1961, Kennedy confermava il suo status non solo di grande retore, ma anche di simbolo iconico di una nuova era nella vita americana.
Nonostante la mancata nomina alla vice presidenza nel 1956, l’ambizione per una posizione politica più elevata non fece che aumentare nella testa di John Fitzgerald Kennedy. Ambizione, questa, che lo portò il 2 gennaio 1960 ad annunciare la sua candidatura alle presidenziali tra le file del partito democratico.
Il giorno prima dell’annuncio egli dichiarò:
[..]“È sicuramente tempo di mutar rotta. È tempo, per ripetere le parole di Walter Lippmann “di destarsi, di stare all’erta, di mostrar vigore, di non rimasticare più le stesse frasi fatte, di non pestare più le stesse tracce”. Ma innanzi tutto ricordiamoci che, ci piaccia o no, questo è tempo di mutamento. E, siccome il nostro popolo ha avviato il mutamento del mondo, io penso che tutto questo ci dovrebbe piacere, per quanto arduo sia il compito. Infatti, solo quando il compito è sommamente arduo, una nazione sa dare il meglio di sé. E non si tratta tanto di decidere se, in un mondo che muta, noi sapremo reagire nella maniera che si conviene alla “terra dei liberi”, alla “patria dei popoli”, se sapremo cavarcela in questi anni cruciali, alla testa del mondo; se saremo all’altezza dei compiti che ci attendono. Il problema è un altro: fare il possibile perché i mutamenti che ci avvengono attorno – nelle città, nelle campagne, nell’economia, nel mondo occidentale, nel mondo neutrale, nell’impero sovietico, in tutti i continenti – rechino maggiore libertà a un maggior numero di uomini, rechino la pace al mondo.
Che cosa è accaduto alla nostra nazione? I profitti sono cresciuti, è cresciuto il livello di vita, ma è cresciuta anche la criminalità. E lo stesso vale per la frequenza dei divorzi, per la delinquenza giovanile, per le malattie mentali. È cresciuta la vendita dei tranquillanti e il numero dei ragazzi che non vanno a scuola. Temo che noi corriamo il pericolo di perdere la nostra interiore saldezza. Noi stiamo perdendo quello spirito d’iniziativa e d’indipendenza che fu dei padri pellegrini e dei pionieri, quell’antica devozione spartana al «dovere, all’onore, alla patria”. [1]
La sua candidatura però presentò non pochi problemi, il maggiore dei quali fu quello della religione. Il cattolicesimo, di cui la famiglia di origine irlandese faceva parte, fu da sempre un tema importante negli Stati Uniti. La maggior parte degli americani, infatti, era preoccupata che la Chiesa cattolica romana non riconoscesse la separazione tra Chiesa e Stato, e che la nomina di un cattolico alla presidenza potesse costituire un rischio che avrebbe avuto un impatto sul suo processo decisionale.[2]
Il 14 giugno 1960, in piena campagna per la nomina democratica, in un discorso davanti al Senato, JFK annunciava i suoi dodici punti per un America più forte:
[..]Primo. Noi dobbiamo darci una potenza di rappresaglia nucleare non vulnerabile e di prim’ordine. Dobbiamo contribuire alla stabilità politica ed economica delle nazioni nelle quali son situate le nostre basi vitali. [..]
Secondo. Dobbiamo riacquistare la possibilità di un intervento efficace e rapido in qualsiasi guerra limitata, in ogni parte del mondo.[..]
Terzo. Dobbiamo ricostruire la NATO in una forza militare valida e consolidata, in grado di dissuadere da qualsiasi tipo di attacco, unificata in armamenti e responsabilità.[..]
Quarto. Dobbiamo, in collaborazione con l’Europa occidentale e il Giappone, aumentare notevolmente il flusso di capitali verso le aree sottosviluppate dell’Asia, dell’Africa, del Medio Oriente e dell’America Latina – frustrare le speranze comuniste per il caos in quelle nazioni – consentendo ai paesi emergenti di raggiungere un’indipendenza economica e politica – e colmare il divario pericoloso che ora sta allargando tra i nostri e i loro standard di vita. [..]
Quinto. Dobbiamo ristrutturare i nostri rapporti con le democrazie dell’America Latina. [..]
Sesto. Dobbiamo formulare un nuovo atteggiamento verso il Medio Oriente, dobbiamo cioè evitare di imporre la nostra causa fino al punto che gli arabi si sentano minacciati nel loro nazionalismo e nel loro neutralismo, ma insieme riconoscere quelle forze e cercare d’incanalarle in direzione costruttiva, ed al tempo stesso tentar di indurre gli arabi ad accettare al più presto l’esistenza di Israele.[..]
Settimo. Dobbiamo aumentare notevolmente i nostri sforzi per incoraggiare le nazioni emergenti del vasto continente africano – di convincerli che essi non devono girare a Mosca per la guida e l’amicizia di cui hanno un disperato bisogno – per aiutarli a raggiungere il progresso economico su cui il benessere del loro popolo e la loro capacità di resistere alla sovversione comunista dipende.[..]
Ottavo. Dobbiamo trovare una soluzione durevole per il problema di Berlino.[..]
Nono. Dobbiamo predisporre e tener pronti per l’Europa orientale strumenti più duttili. Dobbiamo nutrire i semi della libertà nelle crepe che compaiono sul sipario di ferro, riducendo la dipendenza economica ed ideologica dalla Russia.[..]
Decimo. Dobbiamo rivedere tutta la nostra politica in Cina. Dobbiamo formulare una proposta perché si riduca la tensione a Formosa, chiarendo al tempo stesso la nostra decisione di difendere l’isola.[..]
Undicesimo. Noi dobbiamo elaborare un programma nuovo ed efficiente per la pace ed il controllo degli armamenti. [..]
Dodicesimo ed ultimo. Noi dobbiamo creare un’America più forte, perché in ultima analisi proprio sull’America riposa la possibilità di difendere il mondo intero.[3]
Nelle elezioni primarie del Partito Democratico, Kennedy si contrappose ai senatori Hubert Humphrey, Lyndon B. Johnson e ad Adlai Stevenson II, vincendo le elezioni primarie e giungendo da favorito alla convention democratica di Los Angeles nel 1960. Il 13 luglio 1960 egli riuscì ad ottenere la nomina e scelse come suo vice presidente l’esperto democratico del Sud e leader della maggioranza del Senato Lyndon B. Johnson.[4]
Nel suo discorso di accettazione del 15 luglio, Kennedy pronunciò il suo famoso discorso sulla “Nuova Frontiera” che avrebbe dato il tono al resto della sua campagna presidenziale: “[..]Siamo oggi al limite di una nuova frontiera, la frontiera degli anni ’60, una frontiera di opportunità e pericoli sconosciuti, una frontiera di speranze e minacce non realizzate. [..] Al di là di questa frontiera ci sono le zone inesplorate della scienza e dello spazio, problemi irrisolti di pace e di guerra, peggioramento dell’ignoranza e dei pregiudizi, nessuna risposta alle domande di povertà ed eccedenze[..].” [5]
Come in passato la Nuova Frontiera aveva spinto i pionieri ad estendere i confini degli Stati Uniti, così la Democrazia Americana deve ora – secondo Kennedy – impegnarsi per raggiungere nuovi traguardi e una nuova frontiera scientifica e spaziale, di condivisione del benessere e lotta alla guerra, di pace, di sviluppo e di libertà.
Nei mesi di settembre e ottobre Kennedy si confrontò con il candidato repubblicano alla presidenza Richard Nixon nei primi dibattiti televisivi mai trasmessi alla televisione. Il suo carisma e la sua capacità oratoria incantarono gli spettatori di tutto il paese e lo portarono, con un margine di circa 100.000 voti a battere il rivale repubblicano nelle elezioni di novembre.
Fu questo il segnale di un bisogno di riscossa e cambiamento della società americana e nonostante la giovane età[6] e la sua religione, egli veniva considerato non come un outsider ma un politico determinato a dare agli americani ciò che essi chiedevano, l’avvio di una stagione nuova. [7]
Nel suo discorso inaugurale del 20 gennaio 1961, Kennedy confermava il suo status non solo di grande retore, ma anche di simbolo iconico di una nuova era nella vita americana. Con milioni di spettatori, egli affermava ciò di cui la Nuova Frontiera aveva bisogno per unire la nazione dietro il suo nuovo atteggiamento aggressivo nei confronti della fredda politica:
“Nella lunga storia del mondo, solo a poche generazioni è stato garantito il ruolo di difendere la libertà nell’ora del massimo pericolo. Non mi sottraggo a questa responsabilità, anzi, le do il benvenuto. Non credo che qualcuno di noi cambierebbe il suo posto con un altro popolo o con un’altra generazione. L’energia, la fede, la dedizione che porteremo in questo sforzo illuminerà il nostro paese e chi lo serve, e la luce di questo fuoco può davvero illuminare il mondo”.
Dichiarò come fosse necessaria la collaborazione delle nazioni del mondo contro “i nemici comuni dell’uomo: la tirannia, la povertà, la malattia e la guerra stessa”.
Inoltre, aggiunse: “Lasciatemi dire qui e ora, agli amici come ai nemici, che la fiaccola è stata consegnata a una nuova generazione di americani, nata in questo secolo, temprata dalla guerra, disciplinata da una pace dura e amara, orgogliosa della nostra antica eredità, che non vuole permettere la lenta distruzione di quei diritti umani verso i quali questa nazione è da sempre impegnata e verso i quali oggi siamo impegnati in patria e nel mondo.”
Egli invocava un “new beginning”, un “nuovo inizio”: [..] Ricominciamo, dunque, ricordando da entrambe le parti che un comportamento civile non è segno di debolezza e che la sincerità deve sempre essere provata dai fatti.
Non dobbiamo mai negoziare per timore, ma non dobbiamo mai aver timore di negoziare”.
Il compito era arduo: “Tutto ciò non potrà essere portato a termine nei primi cento giorni, né nei primi mille, né nel corso di questa amministrazione, e nemmeno forse nel corso della nostra esistenza su questo pianeta. Tuttavia, mettiamoci all’opera.” La lotta sarebbe stata lunga e difficile: “Dunque, miei concittadini americani, non chiedete cosa il vostro paese può fare per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro paese. Concittadini del mondo, non chiedete cosa l’America può fare per voi, ma cosa possiamo fare, insieme, per la libertà dell’uomo. Infine, che siate cittadini americani o cittadini del mondo, chiedete a noi gli stessi livelli elevati di forza e di sacrificio che noi chiediamo a voi. Con la coscienza pulita come unico premio, con la storia come giudice finale dei nostri atti, continuiamo a guidare la terra che amiamo, chiedendo a Dio la sua benedizione e il suo aiuto, ma consapevoli che qui sulla Terra il progetto di Dio deve essere anche il nostro”. [8]
La sua energia e il suo impegno rivitalizzarono la nazione, ma la sua competenza fu presto messa in discussione dal fallimento dell’invasione della Baia dei Porci a Cuba per rovesciare il nuovo regime comunista di Fidel Castro, installato dai sovietici.
Le relazioni diplomatiche con questi ultimi toccarono il fondo nell’ottobre del 1962, quando i sovietici iniziarono segretamente a installare missili offensivi a lunga gittata a Cuba, che minacciavano di rovesciare l’equilibrio che si era creato fin a quel momento. La crisi missilistica fu risolta solamente grazie ad estremo sforzo diplomatico del Presidente americano e di Nikita Chruščёv, Primo Segretario del PCUS, regalando al primo una memorabile vittoria storica, accompagnata da un nuovo, mai morto, prestigio internazionale.
L’azione diplomatica di Kennedy, a seguito della crisi di Cuba, si spostò allora sulla ricerca di un dialogo maggiore in ambito nucleare tra le due potenze e come esso si intrecciava con un miglioramento delle relazioni internazionali con gli alleati europei.
Il 10 giugno 1963, davanti i laureandi dell’American University di Washington, Kennedy pronunciò uno dei suoi più famosi discorsi (il c.d. A Strategy of Peace) nel quale indicava la via della pace mondiale:
[..] A quale tipo di pace mi sto riferendo? Qual è il tipo di pace che stiamo ricercando? Non una “Pax Americana”, imposta al mondo dalle armi da guerra degli Stati Uniti. Non la pace della tomba o la sicurezza dello schiavo. Ciò di cui parlo è la pace vera, il tipo di pace che rende la vita sulla terra degna di essere vissuta, che permette agli uomini e alle nazioni di crescere, di sperare e di costruire una vita migliore per i loro figli. Non solo la pace per gli americani, ma per tutti gli uomini e le donne, non solo la pace nel nostro tempo, ma per sempre. [..]Parlo di pace come dello scopo razionale e necessario di ogni uomo razionale. Mi rendo conto che il perseguimento della pace non è clamoroso quanto la ricerca della guerra e spesso le parole di chi vi si dedica non vengono ascoltate. Tuttavia, nessun compito è più urgente di questo. [..]Secondo qualcuno, parlare di pace mondiale, legge mondiale o disarmo mondiale è inutile e lo sarà fino a quando i leader dell’Unione Sovietica non adotteranno un atteggiamento più aperto. Mi auguro che ciò accada e ritengo che noi abbiamo la possibilità di favorire questo processo. Ma credo anche che sia necessario riesaminare il nostro stesso modo di pensare, come singole persone e come nazione, poiché l’approccio che noi adottiamo è essenziale quanto quello della nostra controparte. Ogni laureato di questa università, ogni cittadino responsabile, che teme la guerra e desidera la pace, deve guardare in se stesso, analizzando il proprio atteggiamento verso le possibilità di pace, verso l’Unione Sovietica, verso il corso preso dalla guerra fredda e verso la libertà e la pace qui in patria.[..] Primo: Prendiamo in considerazione il modo in cui consideriamo la pace in sé. [..] I nostri problemi sono provocati dall’uomo ed è quindi l’uomo che può risolverli. L’uomo non ha limiti alla sua grandezza. Nessuno dei problemi legati al destino umano è al di là degli esseri umani. Spesso la ragione e lo spirito dell’uomo sono riusciti a risolvere ciò che in apparenza era irrisolvibile e noi siamo certi che ciò possa accadere di nuovo. [..]È necessario perciò perseverare. La pace non deve necessariamente essere impraticabile e la guerra inevitabile. Definendo più chiaramente il nostro obiettivo, facendolo apparire più gestibile e meno remoto, tutti avranno l’opportunità di comprenderlo e trarne speranza e non potranno fare a meno di provare a realizzarlo. [..]
Secondo: prendiamo in esame il nostro atteggiamento nei confronti dell’Unione Sovietica. [..]Se quindi da un lato non dobbiamo ignorare le differenze che esistono tra di noi, dall’altro dobbiamo anche concentrare l’attenzione sui nostri comuni interessi e sui mezzi che permettono di risolvere tali differenze. Se non possiamo porre fine subito alle differenze che ci dividono, almeno possiamo fare in modo che il mondo sia un luogo sicuro per la diversità. In ultima analisi, il legame di base che ci unisce è in fondo il fatto che tutti viviamo su questo piccolo pianeta. Respiriamo tutti la stessa aria. Tutti abbiamo a cuore il futuro dei nostri figli. E tutti siamo mortali.[..] Terzo: prendiamo in esame il nostro atteggiamento verso la guerra fredda, tenendo presente che non stiamo partecipando a un dibattito che ha lo scopo di elencare i punti di vista contrapposti. Il nostro compito non è quello di distribuire lodi o di puntare il dito per giudicare. Dobbiamo affrontare il mondo così com’è e non come avrebbe potuto essere se la storia degli ultimi 18 anni fosse stata diversa.[..] Dobbiamo quindi perseverare nella ricerca della pace, nella speranza che dei cambiamenti costruttivi nel blocco comunista possano rendere più praticabili le soluzioni che ora sembrano fuori dalla nostra portata. Dobbiamo comportarci in modo che sia nell’interesse dei comunisti giungere a un accordo su una pace reale. Soprattutto, pur difendendo i propri interessi vitali, le potenze nucleari devono evitare tutti i confronti che porterebbero l’avversario a dover scegliere tra una ritirata umiliante e una guerra nucleare. L’adozione di questo tipo di comportamento in un’epoca nucleare sarebbe solo la dimostrazione del fallimento della nostra politica o di un desiderio collettivo di morte per l’umanità.[..] Gli Stati Uniti, come il mondo sa, non inizieranno mai una guerra. Noi non vogliamo una guerra. Noi non ci aspettiamo ora una guerra. Questa generazione ha già visto abbastanza guerra, odio e oppressione. Se altri la vorranno, tuttavia, saremo preparati. Saremo pronti per cercare di fermarla. Ma faremo anche la nostra parte per costruire un mondo di pace, dove i deboli siano sicuri e i forti siano giusti. Non siamo impotenti di fronte a questo compito né senza speranze nel suo successo. Fiduciosi e impavidi, lavoriamo a una strategia che non annienti, ma porti la pace.[9]
Con questo discorso Kennedy è pronto a mettere in discussione l’atteggiamento tenuto fino a quel momento dagli Stati Uniti, rivedendo e riesaminando la posizione americana nella guerra fredda. Ma non solo, se fino ad allora tutti i discorsi dei presidenti americani avevo avuto lo scopo di mettere in guardia l’avversario, Kennedy, con questo discorso, si pone in un modo del tutto nuovo: bisogna in qualche modo comprendere la posizione dell’altro, dialogo e comprensione diventano le parole chiavi.[10]
Due settimane più tardi, il 26 giugno, davanti al municipio di Berlino ovest, la parte di Berlino occupata e controllata dalle tre potenze Alleate, Kennedy dichiarava: “[..] Duemila anni fa l’orgoglio più grande era poter dire civis Romanus sum. Oggi, nel mondo libero, l’orgoglio più grande è dire Ich bin ein Berliner. Tutti gli uomini liberi, dovunque essi vivano, sono cittadini di Berlino, e quindi, come uomo libero, sono orgoglioso delle parole “Ich bin ein Berliner!”.[11]
A questo discorso la folla rispose con un’ovazione. Quel “Ich Bin ein Berliner”, pronunciato in tedesco con l’accento di Boston, era entrato nel cuore e nella coscienza della gente. Il presidente, con quelle parole, garantiva alla città del Muro che non era sola, sulla frontiera più avanzata della guerra fredda, a fronteggiare l’Orso sovietico.
Quel giorno il presidente americano, accolto come un liberatore, creava una breccia nel Muro. Il suo discorso, con dei passaggi a braccio, è più forte di quello preparato dai consiglieri. Punta l’indice contro il mondo comunista, è un messaggio di impegno e di sfida, esprime solidarietà a un popolo minacciato, è un capolavoro di retorica che ne fa uno dei suoi migliori discorsi, forse il più celebre. “Non vivremo mai più un giorno come questo“, dirà poco dopo a Teddy Soerensen. Parole dolorosamente profetiche. [12]È il suo ultimo viaggio in Europa. La tragedia di Dallas è alle porte e la sua vita resterà a metà.[13]
Note
[1] John Fitzgerald Kennedy, “Discorso dalla Casa Bianca”, 1 gennaio 1960
[2] Schlesinger, Arthur., and Jr. A Thousand Days: John F. Kennedy In The White House. Boston, New York: Mariner Books, 2002.
[3] Remarks of Senator John F. Kennedy in the Senate, Washington, D.C., June 14, 1960 (https://www.jfklibrary.org/)
[4] United States presidential election of 1960 (https://www.britannica.com)
[5] Address of Senator John F. Kennedy accepting the democratic party nomination for the presidency of the United States, Los Angeles, CA, July 15, 1960 (https://www.jfklibrary.org)
[6] Con i suoi 43 anni è stato il più giovane presidente mai eletto.
[7] Ennio Di Nolfo, Storia delle relazioni Internazionali. Dal 1918 ai giorni nostri (Roma-Bari: Laterza, 2008)
[8] Inaugural Address, January 20, 1961 (https://www.jfklibrary.org)
[9] Commencement Address at American University, Washington, D.C., June 10, 1963 (https://www.jfklibrary.org)
[10] Seppur duramente criticato dai repubblicani perché ritenuto troppo idealista, questo discorso fu diversamente accolto nell’URSS tanto da essere pubblicato sulla PRADVA, l’organo di stampa ufficiale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica.
[11] Remarks of President John F. Kennedy at the Rudolph Wilde Platz, Berlin, June 26, 1963 (https://www.jfklibrary.org)
[12] https://st.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/dossier/Tempo%20libero%20e%20Cultura/storie-della-storia/archivio-2009/storie-storia-berino-kennedy.shtml
[13] Fu assassinato a Dallas, in Texas, il 22 novembre 1963 mentre era in visita ufficiale alla città.
Foto copertina: Il 26 giugno 1963, il presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy tenne un discorso a Berlino Ovest, divenuto famoso con il titolo “Io sono un berlinese” e considerato a ragione un capolavoro dell’oratoria politica del Novecento.
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