Profili critici sul rispetto del principio della presunzione di innocenza con riguardo all’informazione giudiziaria italiana, le attività investigative delle autorità giudiziarie e i poteri ‘officiosi’ del giudice alla luce dei principi sanciti dalla Direttiva 2016/343/UE del 9 marzo 2016.
“L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. E’ così che l’art. 27 della Costituzione italiana sancisce la presunzione di innocenza, principio che trae le sue origini nel sistema processuale c.d. accusatorio. All’origine logica della ormai consolidata distinzione tra tale sistema e quello inquisitorio, tra le diverse caratteristiche che gli studiosi hanno col tempo imparato ad attribuire all’uno o all’altro modello[1], non potrà che esserci anche la netta contrapposizione tra presunzione di reità e presunzione di innocenza: la prima, strettamente connessa ad un sistema teso ad attribuire tutti i poteri in capo al soggetto inquirente, presuppone in capo all’imputato l’onere di “discolparsi” dall’accusa subita al fine di dimostrare al giudice e alla collettività la propria innocenza; la seconda invece, tipica di un sistema in cui chi accusa deve altresì corredare la stessa di elementi idonei a sostenerla in giudizio, presuppone quale oggetto del procedimento la colpevolezza dell’imputato, il quale è considerato presunto innocente fino a quando chi accusa non avrà dimostrato con delle prove la colpevolezza di quest’ultimo “al di là di ogni ragionevole dubbio”[2]. Da tale premessa è doveroso partire per comprendere più a fondo perché nel sistema accusatorio, accolto anche dall’ordinamento italiano, “il processo penale deve svolgersi nelle aule di udienza e non sui mezzi di divulgazione di massa, nei quali non è tutelato il diritto alla difesa”[3].
Quello del delicato rapporto tra mezzi di comunicazione e processo penale è un fenomeno talmente complesso che merita di essere analizzato non solo sotto il profilo processuale ma anche sotto quello sociologico, psicologico, scientifico. Sono svariate e numerose infatti le prospettive dalle quali è possibile monitorare ed osservare gli effetti di un rapporto in così rapida evoluzione: qualcuno potrebbe eccepire, ed anche a ragione, che quelli di oggi non sono più certo gli anni di Mani Pulite e dei processi condotti nei salotti televisivi prima ancora che nei tribunali; eppure un’analisi attorno al fenomeno del processo mediatico e dei suoi risvolti sulla presunzione di innocenza si rivela sempre più necessaria per capire quanto, ai nostri giorni, il Paese di Enzo Tortora abbia o meno imparato dagli errori del passato.
In questo contributo analizzeremo alcuni profili critici sulla presunzione di innocenza in Italia con particolare riguardo all’informazione giudiziaria italiana, alle attività investigative delle autorità giudiziarie e ai poteri c.d. officiosi del giudice, alla luce dei principi sanciti dalla Direttiva 2016/343/UE del 9 marzo 2016 intitolata al “rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”, alla quale gli Stati dell’Unione Europea saranno chiamati a conformarsi entro l’1 Aprile 2018.
Informazione giudiziaria e attività investigativa
Se comunicare è importante, ancora di più sembra esserlo il modo in cui fare comunicazione: la stessa notizia, se comunicata secondo una modalità differente, può addirittura assumere le sembianze di un’altra notizia e provocare effetti differenti. Comunicare significa “fare comune”; essa è una attività che ha sempre risposto a vari istinti primordiali dell’uomo, tra i quali quello di non sentirsi solo e quindi di ritrovarsi con gli altri. Anche gli animali e le piante comunicano ma questi ultimi lo fanno per un istinto di sopravvivenza. Da un punto di vita etico, potremmo chiederci: “quanta comunicazione oggi risponde al primordiale bisogno dell’uomo di ‘fare-comune’ e quanta invece è finalizzata a raggiungere un certo obiettivo – non necessariamente materiale – nella società?”[4]. L’esigenza di invocare un’etica dell’informazione, in un’ottica certamente deontologica ma non solo, si fa sempre più forte nell’era dei grandi mezzi di comunicazione, dei social network, dei talk show televisivi e dello spettacolo da cronaca nera. Di fronte ad un pubblico di telespettatori e lettori sempre più incuriosito dai dettagli ed in genere “assetato” di colpevoli, quella esigenza di “fare-comune” non può che sfociare facilmente nell’esigenza di fare share, ascolti, lettori, profitto. E’ in questo contesto che hanno origine le c.d. degenerazioni del processo mediatico: un processo parallelo a quello reale ma condotto nei mezzi di informazione piuttosto che nei tribunali ed in genere tendente a puntare i riflettori sulle fasi degli arresti e delle indagini preliminari, dunque sulle tesi di chi accusa, piuttosto che sulla fase successiva- quella del dibattimento- a cui il nostro legislatore ha riservato la funzione più importante della formazione della prova nel contraddittorio tra le parti.
E’ proprio su questo tipo di informazione che gli avvocati penalisti dell’Osservatorio sull’Informazione giudiziaria dell’UCPI, guidati dall’Avv. Renato Borzone e dal Prof. Michele Sapignoli dell’Università di Bologna, si sono appunto concentrati portando avanti un lavoro di analisi e di classificazione di più di 7 mila articoli di giornale estrapolati dalle testate nazionali più diffuse in Italia, per un periodo di sei mesi. Il lavoro scientifico, raccolto nel primo libro bianco sull’Informazione Giudiziaria in Italia[5], riporta una serie di dati interessanti.
DATI: Il dato sulla fase processuale oggetto degli articoli (27,5%) è clamorosamente sbilanciato a favore della fase degli arresti (27,5%) e delle indagini preliminari (36,7%). Solo il 13% delle notizie riguarda invece lo svolgimento del processo vero e proprio, cioè il dibattimento, sede principalmente adibita alla formazione della prova nel contraddittorio. Quanto alle fonti delle notizie degli articoli analizzati, la gran parte proviene dall’accusa (33%) e dalla polizia giudiziaria (27,9%). Solo il 6,8% dalla difesa. Nell’80% dei casi degli articoli analizzati dagli avvocati penalisti non viene dato nessuno spazio alla difesa.
La questione suscita una certa preoccupazione in merito al notevole sbilanciamento tra le parti processuali ma risulta anche più interessante se consideriamo la necessità, più volte anche ribadita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, di tutelare il diritto dell’indagato o dell’imputato alla presunzione di innocenza. Servizi video sempre più toccanti, accattivanti, aggressivi, fanno da cornice ad inchieste parallele a quelle giudiziarie condotte, nella maggior parte delle volte, da professionisti della comunicazione e nella frequente inosservanza delle garanzie principali di ogni equo processo. Nell’informazione da carta stampata è invece riscontrabile una marcata tendenza a “trascrivere” atti processuali direttamente forniti dalla pubblica accusa; visibilità, quest’ultima, non altrettanto riservata alla fase dibattimentale, sede nella quale potrebbero emergere eventuali prove a discarico dell’imputato.
A questo è appena il caso di aggiungere l’esistenza di una disciplina codicistica, quella data dal combinato disposto degli arti. 114 e 329 c.p.p., che sancisce il divieto di pubblicazione di atti e immagini del procedimento penale ed il segreto investigativo, da molti considerata insoddisfacente o inconsistente, quasi inidonea a tutelare gli ulteriori interessi che vengono altresì in gioco oltre alle finalità investigative: si pensi appunto al diritto di cronaca da un lato e al diritto alla riservatezza dall’altro. L’art. 114 è infatti una norma che ancora i divieti di pubblicazione al segreto investigativo di cui al 329 c.p.p.e prevede un divieto di rendere note le dichiarazioni rese nel corso delle indagini, tranne quando queste giungano a conoscenza dell’indagato. In questo senso, sorgono alcune problematiche.
In primis, la norma di cui al 329 parla di “atti di indagine” con riferimento all’oggetto divieto di pubblicazione, lasciando fuori dalla sua area applicativa tutti quegli atti che, pur non qualificabili come atti d’indagine, sembrano avere una qualche rilevanza in termini di diritto alla riservatezza sia della persona sottoposta alle indagini che della persona offesa: si pensi agli atti del g.i.p. quali l’emissione di misure cautelari ma anche la denuncia, l’iscrizione della notizia di reato, l’incidente probatorio, l’interrogatorio e così via. In secondo luogo, viene in rilievo la differenza tra contenuto ed atto in sé, dato che, nel momento in cui l’indagato viene a conoscenza degli atti d’indagine, l’informazione ne può pubblicare il contenuto, cioè una sintesi, ma non il testo, cioè il virgolettato dell’intero atto o di parte dello stesso. Nonostante ciò, lo vediamo quotidianamente, è sempre più frequente la pubblicazione di dichiarazioni o stralci di chiamate in lunghi virgolettati, o addirittura interi testi di intercettazioni non sempre già sottoposte a trascrizione su perizia disposta dal giudice. In questo senso, per esempio, potrebbe muoversi la nuova disciplina sulle intercettazioni oggetto della riforma del processo penale già diventata legge, la quale mira ad evitare l’inserimento negli atti processuali delle conversazioni non rilevanti penalmente. In tutto ciò, rimane l’assenza di una giusta efficacia deterrente della già citata norma di cui al 114 c.p.p. Si ricordi poi come la “pubblicazione arbitraria di atti del procedimento penale” (art. 684 c.p.p.) sia una contravvenzione oblazionabile con il versamento di soli centoventinove euro, cifra certamente modica per molti di quei mezzi di comunicazione abituati ad operare a fronte di guadagni ben più ingenti.
A proposito di segreto istruttorio, nel caso Y. c. Suiss deciso il 6 giugno 2017[6] la Corte europea dei diritti dell’uomo, per esempio, ha respinto il ricorso di un giornalista svizzero che lamentava la violazione dell’art.10 della CEDU per violazione della libertà di espressione: quest’ultimo aveva infatti pubblicato un articolo in cui rivelava informazioni, pur acquisite legittimamente, ma coperte dal segreto istruttorio. In questa importante pronuncia, la Corte Edu ha ritenuto che il diritto alla informazione e alla libertà di stampa non può prevalere sulla privacy delle persone imputate e, tanto meno, sul diritto alla presunzione di innocenza avendo il giornalista in questione contribuito a presentare all’opinione pubblica l’uomo accusato di pedofilia dietro una chiave di lettura colpevolista e poco neutra.
E’ il caso di ribadire come il diritto alla presunzione di innocenza non esaurisca il suo ambito applicativo al tema del rapporto tra stampa e processo penale. La direttiva europea del marzo 2016 per il rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza, all’art. 4 richiama le “autorità pubbliche” (dunque autorità di accusa pubblica e polizia giudiziaria) sancendo il divieto per le stesse di rilasciare dichiarazioni pubbliche che possano presentare la persona come colpevole sino a che la sua colpevolezza “non sia stata legalmente provata” seppure tale obbligo “non impedisce alle autorità pubbliche di divulgare informazioni sui procedimenti penali, qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico”.
Analizzandone con scrupolo i punti più importanti di questa direttiva, alcuni studiosi come la prof.ssa Cristiana Valentini dell’Università di Ferrara, hanno fatto notare come, in realtà, quest’ultima espressione “fino a che la colpevolezza non sia legalmente provata”, rappresenti la conferma che in effetti l’Unione europea considera la presunzione d’innocenza come garanzia sacrificabile dopo il giudizio di primo grado, potendosi di fatto affermare che anche una sentenza di condanna di primo grado sia in questo senso in grado di provare legalmente la colpevolezza del soggetto. Viene da pensare a quanto più alto sia, al contrario, il livello di vita della garanzia reale offerta dalla nostra costituzione all’art. 27, prescrivendo di considerare innocente l’imputato sino a “condanna definitiva”. Basterebbe allora intendersi maggiormente di questi principi basilari, in Italia, per evitare le tante e frequenti violazioni del fatidica presunzione di innocenza.
I poteri officiosi del giudice e l’onere della prova
La direttiva europea sulla presunzione di innocenza è destinata a comunque a creare, per così dire, un impatto con la situazione italiana inerente i rapporti tra stampa e processo penale, forse anche sulla disciplina dei poteri officiosi del giudice in materia di prova. Un punto importante dell’art. 4 della direttiva sancisce che «Gli Stati membri assicurano che l’onere di provare la colpevolezza degli indagati e imputati incomba alla pubblica accusa, fatti salvi l’eventuale obbligo per il giudice o il tribunale competente di ricercare le prove sia a carico che a discarico(..)». Questa espressione potrebbe sembrare quasi incapace di offrire nulla di nuovo rispetto a quanto già conosciamo intorno al principio dell’onere della prova in capo alla pubblica accusa. Eppure, volgendo uno sguardo più attento alla disciplina prevista dall’art. 507 c.p.p. con riguardo ai poteri ufficiosi del giudice dibattimentale in materia di prova, ci accorgiamo che potrebbe esistere un margine di utilità concreta nella suddetta direttiva.
Il nostro codice di procedura penale prevede infatti che, tramite l’esercizio del potere ex art. 507, il giudice del dibattimento può, se lo ritiene “assolutamente necessario” all’accertamento dei fatti, disporre anche d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova. Tuttavia, fin dall’entrata in vigore del codice del 1988, non pochi studiosi hanno posto il problema della presunta incompatibilità tra questo potere officioso del giudice ed i principi cardine del sistema accusatorio accolto dal nostro ordinamento. Problema che è andato ad accentuarsi soprattutto in conseguenza di alcune pronunce con le quali si è accolto, ormai per giurisprudenza ventennale, il principio secondo il quale tale potere del giudice sia esercitabile senza ulteriori limiti quando si tratti di acquisire prove su richiesta della parte decaduta. Dapprima con una sentenza delle SU della Cassazione del 1992, poi con la più recente sentenza della Corte Costituzionale n. 73/2010 intervenuta, a differenza della prima, in un contesto giuridico ormai integrato dai principi del giusto processo, si è accolta appunto l’idea secondo la quale l’ammissione da parte del giudice delle prove richieste dalla parte decaduta (per es. il Pubblico Ministero che omette il deposito delle liste testimoniali), non comporta una deroga al principio dispositivo, versandosi piuttosto «in un’ipotesi nella quale il giudice resta nell’ambito della propria funzione e dà comunque vita ad un’attività che segue le cadenza del processo di parti». Dice infatti la Corte che, ammettendo tali prove su richieste della parte decaduta, il giudice non rivolge le domande ai dichiaranti ma li rimette direttamente alla parte che ha richiesto la prova, mentre il contraddittorio sarebbe recuperato consentendo alla parte opposta di condurre il controesame.
Una tale impostazione è stata giustificata dall’esigenza di proteggere tutti gli interessi coinvolti, tra cui l’accertamento della verità e il diritto di difesa. Tuttavia, considerando gli esiti, si rinviene come non soltanto il termine di cui all’art. 468 (sull’obbligo di deposito, a pena di inammissibilità, delle liste testimoniali) ne esca quasi sconfitto, sgonfiato del suo carattere perentorio, ma soprattutto come la presunzione di innocenza venga certamente sacrificata nel momento in cui si consente al pubblico ministero di condurre a giudizio un’accusa non fornita delle prove idonee a sostenerla, posto che alla pubblica accusa incombe quell’onere di superare la presunzione di innocenza dell’imputato, provando la sua reità “al di là di ogni ragionevole dubbio”.
“Sembra allora di poter dire questo sugli effetti della Direttiva nei riguardi dell’ordinamento italiano: essa esclude la compatibilità col sistema europeo di una disposizione che consente, nella sua applicazione pratica, la completa soppressione dell’onere della prova incombente sul pubblico ministero; ed esclude pure che le eccezioni alla regola possano essere espresse mediante una norma a carattere discrezionale, che consenta, cioè, al giudice di elidere l’obbligo gravante sull’organo d’accusa in assenza di presupposti definiti in modo vincolante, così si conviene ad ipotesi eccezionali rispetto ad una regola”[7].
Alla luce di tale direttiva, che sia forse giunto il momento, dopo tanti anni, di ritornare sull’art. 507 c.p.p. e rendere più stringente la disciplina sull’onere della prova? Le strade che potrebbero aprirsi di certo sono tante. Ma è bene percorrerle non perdendo mai di vista quella principale che è data dalla nostra Carta Costituzionale, preziosa quanto inesauribile fonte di diritti e principi basilari che, a volte, basterebbe semplicemente rispettare.
[1] Si pensi alla netta contrapposizione tra principio di autorità e principio dialettico, iniziativa d’ufficio ed iniziativa di parte, segreto e contraddittorio, scrittura e oralità.
[2] Tale criterio, come noto, è stato introdotto nel nostro ordinamento a seguito della entrata in vigore della legge n.46/2006 che ha così modificato l’art. 533 c.p.p.: «Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio».
[3] Prof. Paolo Tonini, Manuale di Procedura Penale, diciassettesima edizione Giuffrè Editore, pag. 12
[4] Se lo chiede Michele Partipilo in La deontologia del giornalista, pag. 25
[5] L’informazione giudiziaria in Italia- Libro bianco sui rapporti tra mezzi di comunicazione e processo penale, Pacini Editore, 2016.
[6] Sentenza Cedu n. 22998/13 consultabile qui: http://hudoc.echr.coe.int/eng#{“itemid”:[“001-174108”]}
[7] Prof. Cristiana Valentini, La presunzione d’innocenza nella Direttiva n. 216/343/UE: per aspera ad astra