L’inafferrabilità giuridica del fenomeno delle Private Military Companies

 

Gli eserciti privati o le compagnie di sicurezza, sono diventate il naturale prodotto collaterale degli eserciti di professione. Accanto alle difficoltà di reclutamento dei professionisti, gli eserciti regolari hanno forti difficoltà nel rinnovare continuamente le forze in modo che siano sempre al massimo dell’efficienza e con il minimo dei problemi sociali e familiari (…). Da parte dei governi e delle istituzioni statali c’è poi l’esigenza di provvedere a funzioni di sicurezza che non possono essere assolte da Forze Armate nazionali, o perché politicamente troppo rischiose o perché non sufficientemente complesse da giustificare l’impiego di strutture regolari[1].

Grazie alla capacità di configurarsi come un’alternativa credibile ai mezzi pubblici di utilizzo della violenza le Private Military Companies (di seguito PMCs) hanno acquisito nel tempo una legittimità de facto nel panorama internazionale e rappresentano ormai un tratto distintivo dello scenario securitario odierno.

Quella dell’impiego di mercenari ed eserciti privati è stata una pratica diffusa durante tutto il corso della storia e tutti gli imperi o quasi vi hanno fatto ricorso nella conduzione delle loro campagne belliche. Una pratica accettata sino all’avvento degli eserciti nazionali e della coscrizione obbligatoria.

A partire dalla Rivoluzione Francese, infatti, si assiste al declino del mercenariato quale mezzo convenzionale per muovere guerra e, dal XIX secolo, l’utilizzo di questa pratica è stato criminalizzato dalla comunità internazionale.

L’esplosione su scala mondiale del fenomeno delle privatizzazioni ha aperto un nuovo mercato, producendo una domanda tale da giustificare la creazione di una vera e propria industria militare privata. In particolare la guerra in Iraq nel 2003 ha rivelato il ruolo sempre maggiore e pervasivo del settore privato nella gestione della sicurezza e nell’organizzazione della macchina bellica. Questa nuova presenza su scala globale rappresenta uno dei paradigmi più rilevanti della trasformazione del concetto di sicurezza dagli inizi del XXI secolo. La crescita dell’industria militare privata insieme ad altri fattori, tra tutti la globalizzazione, ha segnato il tramonto del tradizionale monopolio weberiano sull’uso della forza[2] . La privatizzazione della sicurezza corrisponde ad una perdita di sovranità statale nella sfera della sicurezza interna e internazionale.

L’intervento del settore privato è sempre più ramificato ed interessa ogni aspetto collegato alla sicurezza di Stati, Istituzioni Internazionali ed Organizzazioni Non Governative (ONGs). La guerra sempre più viene condotta dall’interno del mercato globale, rispettandone le logiche di minimizzazione dei costi e massimizzazione dei profitti. Per gli attori coinvolti la guerra, oggi, tanto nelle logiche quanto nella pratica, è indiscutibilmente un business.

Il potere sta passando dai muscoli al cervello, dalle aziende di dimensioni colossali alle agili start-up e oggi, più che mai, appare evidente che, non basta un esercito vasto ed avanzato per garantire ad un Paese il raggiungimento dei propri obiettivi strategici.

La rapidità con cui questo settore cresce di giorno in giorno rischia però di lasciare  le attività e le funzioni svolte dalle PMCs all’interno di un vuoto giuridico.

La dottrina internazionale non si è adeguata all’evolversi nel tempo del fenomeno e ad oggi offre degli strumenti che riflettono ancora il contesto internazionale degli anni ’60-’70 del secolo scorso, quando, la ricomparsa del mercenariato, insieme ai processi di decolonizzazione, aveva spinto gli organismi internazionali ad elaborare strumenti giuridici che affrontassero la questione.

Oggi come allora i principali documenti di riferimento sono: a) il I Protocollo addizionale alle Convenzioni di Ginevra (del 1949) del 1977; b) la Convenzione dell’Organizzazione per l’Unità Africana (OUA) per l’eliminazione del mercenariato in Africa del 1977 e c) la Convenzione delle Nazioni Unite contro il reclutamento, l’uso, il finanziamento e l’addestramento dei mercenari del 1989. Gli stessi limiti si riscontrano anche a livello nazionale.

Le PMCs sono impiegate al pari delle Forze Armate sia all’interno che fuori dai confini nazionali, ma diversamente da esse non sono sottoposte a un preciso codice di condotta, che preveda la comminazione di sanzioni in ragione della inosservanza ovvero violazione dello stesso. Non stupisce, dunque, che al coinvolgimento dei military contractors in alcuni gravi episodi di violenza o violazioni delle norme a tutela dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario (si pensi alla strage di civili avvenuta a Piazza Nisoor, a Baghdad, il 16 settembre 2007[3]), non abbiano fatto seguito provvedimenti di tipo giuridico. Di qui l’esigenza di provvedere ad un più adeguato controllo sulle attività delle PMCs.

Il mercenariato classico ha subito un processo di riconversione finalizzato a ottenere una veste legale attraverso la collocazione dei servizi militari nel terziario avanzato.

Gli strumenti offerti dal diritto internazionale e la complessa natura delle compagnie in questione non consentono di attribuire ai dipendenti delle PMCs la qualifica di mercenari per il solo fatto di svolgere attività che prevedano l’impiego delle armi. Allo stesso modo, l’inafferrabilità giuridica, a livello tanto nazionale quanto internazionale, del fenomeno ha determinato – e determina – un’ingiusta impunità dei soggetti coinvolti, anche di fronte a crimini e violazioni del diritto umanitario internazionale.

[1] cfr. MINI F., “La guerra dopo la guerra. Soldati, burocrati e mercenari nell’epoca della pace virtuale”, Einaudi, Torino, 2003, p. 125

[2] cfr. WEBER M., “Economia e società”, Edizioni Comunità, Milano, 1961

[3] cfr. RAGHAVAN, S. “BlackwaterFaulted in Military Reports from Shooting Scene”, in Washington Post, 4 ottobre 2007