Le criticità nella tutela dei diritti umani nei paesi arabi
A cura di Guglielmo Borea
La tutela dei diritti umani nei paesi arabi ha, da sempre, suscitato un forte interesse da parte degli studiosi del diritto internazionale e dei diritti dell’uomo.
Com’è noto, storicamente, sono state riscontrate molteplici criticità che, in gran parte, derivano dalla particolarità degli ordinamenti giudici dei paesi arabi, oltre che dalle tradizioni esperienze e consuetudini dei popoli islamici.
Preliminarmente, nel tentativo di condurre una analisi sulle criticità nella tutela dei diritti umani nei paesi arabi, è opportuno premettere che nella gran parte di tali paesi il diritto ha sostanzialmente origine religiosa, è tendenzialmente esclusa la laicità dello Stato, ed essendo la religione islamica, nella gran parte di tali paesi, la religione dello Stato, si è di fronte ad una pluralità di ordinamenti giuridici ove vi è una sostanziale confusione ovvero commistione tra precetti religiosi, morali e giuridici, e ove il diritto, la religione e la morale risultano molto spesso essere considerate la medesima cosa.
Peraltro, è opportuno rilevarlo, con le dovute eccezioni, nei paesi di religione islamica tendenzialmente non vi è una attualizzazione interpretativa dei testi sacri, né vi è una figura singola, una guida spirituale unica, cui spetta l’interpretazione dei dogmi religiosi e quindi di quelli morali e in gran parte, di conseguenza, dei principi giuridici.
Ciò posto, ogni studioso che intenda analizzare il rispetto dei diritti umani nei paesi arabi, non può non prendere atto del fatto che la religione islamica, nella interpretazione più radicale (quindi nella interpretazione non attualizzata), e su cui il presente paragrafo è maggiormente focalizzato, impone dei contrasti insanabili con la tutela dei diritti dell’uomo[1].
L’inesistenza di una guida unica, e l’interpretabilità diffusa dei precetti islamici ad opera di qualsiasi imam, pone poi dei veri problemi di uniformità di interpretazione, non solo del precetto religioso, ma anche, come vedremo, della norma giuridica, e dell’applicazione , in concreto, del diritto.
Se da un lato, quindi, non esiste una struttura verticale nell’organizzazione religiosa, dall’altro non può, di conseguenza, esistere alcun sistema idoneo a garantire una funzione nomofilattica unica, ovvero che curi all’interno dei variegati ordinamenti giuridici islamici, l’uniforme interpretazione ed applicazione della norma giuridica.
Occorre poi aver riguardo alla particolare complessità che riguarda i vari sottogruppi etnico-religiosi dei popoli islamici; sarebbe riduttivo tentare di ricondurre le varie “anime” in sciiti, sunniti, wahabiti, salafiti, e ciò in quanto anche il singolo sottogruppo etnico-religioso, subisce a sua volta ulteriori differenziazioni e divisioni basate su aspetti geografico territoriali, culturali e sui rapporti con le altre etnie e con esperienze ed influenze culturali e storiche sia all’interno del territorio dello stato, sia con altri paesi.
Sulla base di tali premesse, appare opportuno rivolgere l’attenzione verso le principali fonti del diritto nei paesi arabi, l’effettività della tutela e l’applicazione in concreto della giurisdizione in modo da individuare le criticità, gli orientamenti e le possibili soluzioni per una piena affermazione dei diritti dell’uomo nei paesi arabi.
Posto dunque che il diritto musulmano, in senso lato, è da considerarsi quindi di derivazione religiosa, le fonti giuridiche sono da ricondurre essenzialmente al testo sacro del Corano, alla Sunna ovvero al diritto di origine consuetudinaria che raccoglie l’insieme dei comportamenti e dei detti del profeta Maometto (c.d. ahādīth) nonché la fiqh ovvero il diritto di produzione dottrinale, in alcuni casi codificato, in altri non codificato, ma in ogni caso basato sull’interpretazione dei testi sacri stessi.
L’analisi sulla applicazione della giurisdizione, pur con le dovute differenziazioni che caratterizzano le esperienze dei singoli ordinamenti, è rivolta, nell’ottica del presente paragrafo, alla tradizione più arcaica che viene esercitata attraverso tre figure:
La prima è costituita dal giudice, storicamente il c.d. Qadì , magistrato, solitamente di nomina governativa che applica direttamente e autonomamente le disposizioni normative di secondo grado costituite da vari strumenti tra cui la c.d. siyasa shar’iyya (diritto non coranico ovvero regolamenti che disciplinano vari aspetti del diritto pubblico), mentre invece generalmente si avvale e coinvolge un c.d. Faqīh quando deve interpretare ed applicare la legge coranica.
La seconda è quindi, la figura del c.d. Faqīh (chiamato Mufti in caso di promulgazione della c.d. fatwā) ovvero il dotto musulmano, l’esperto di legge coranica, detentore del c.d. Ijtihād, che costituisce il diritto di interpretare i testi sacri, che assume, sostanzialmente, l’incarico di consulente tecnico giuridico religioso del c.d. Qadì .
Il Faqīh interpreta la norma coranica anche ricorrendo all’analogia juris (c.d. qiyās), cura l’elaborazione di produzioni giuridiche dottrinarie (le c.d. fiqh), nonché esprime il suo consenso nell’ambito della comunità dei dotti contribuendo a integrare l’ordinamento attraverso il diritto consuetudinario (c.d. ijma).
In linea generale, il parere del Faqīh , non è vincolante per la decisione, e il giudice ha il potere di disporre anche la rinnovazione del parere. Quando però la questione giuridica sottesa alla vicenda giurisdizionale comporta il riconoscimento della liceità di un comportamento prima vietato, il parere assume il nome di fatwā ed è vincolante per il giudice, nel caso in cui quest’ultimo sia appartenente alla stessa comunità di riferimento del Faqīh.
La terza è quella del c.d. Ayatollah, emblematica figura essenzialmente religiosa, propria degli ordinamenti sciiti e di altri sottogruppi etnico religiosi, che ha il potere di emanare le c.d. fatwā costituenti, per la sola comunità sciita, in sostanza, dei decreti immediatamente applicabili erga omnes alla comunità di riferimento. E’ opportuno precisare che negli ordinamenti sciiti non si riconosce il c.d. ijma quale fonte del diritto, per cui gli Ayatollah , che sono ovviamente muniti del c.d. Ijtihād, colmano direttamente le lacune dell’ordinamento attraverso l’emanazione delle c.d. fatwā . Nelle comunità sciite – caratterizzate dalla valorizzazione del dogma religioso della emulazione, e quindi dal diverso rapporto rispetto alle altre comunità islamiche all’interno della società che rende i membri della comunità in un rapporto di mera soggezione con gli Ayatollah cui devono ispirarsi – il “dialogo” tra il giudice ed il Faqīh viene meno e sembra scomparire la giurisdizione, trasformandosi in vera e propria potestà normativa della figura religiosa.
Nel tentativo di semplificare l’intera questione si possono individuare e definire tre tipi di posizioni[2]:
– la prima, da considerarsi la posizione più radicale, che riconosce nella sharī’a il complesso di norme islamiche basate sulle due principali fonti giuridiche[3], ovvero il Corano e la Sunna, nonché sulle successive produzioni giuridiche (c.d. fiqh) elaborate dalle figure dei c.d. Faqīh, dotti musulmani, ai quali, come abbiamo visto, rimane riservato il diritto di interpretare i testi, attraverso gli istituti del c.d. ijmā costituito dal diffuso consenso o accordo di opinione della comunità di riferimento e il c.d. qiyās che in sostanza costituisce l’individuazione dei principi generali dell’ordinamento coranico. Come vedremo, la differenza con le altre posizioni attiene proprio a tale fonte di “secondo grado”, nel senso che per i sostenitori di tale posizione le c.d. fiqh sono precetti non modificabili, nel senso che la produzione dottrinaria sull’interpretazione dei testi sacri va effettuata attenendosi scrupolosamente all’ortodossia giuridica islamica. Ci troveremo, dunque, innanzi ad un ordinamento giuridico quasi immutabile, caratterizzato dall’esistenza di un unico corpus normativo, di rango primario non modificabile e comunque prevalente su ogni disposizione normativa esterna al diritto sharī’tico in senso stretto. L’unico momento “di aggiornamento” delle disposizioni normative sarebbe pertanto esclusivamente individuabile nel diritto di origine consuetudinaria costituito dal c.d. ijmā , che però ha il limite di necessitare di una consolidata opinio juris, oltre che il riconoscimento da parte della comunità di riferimento.
Tale posizione, in sostanza, afferma che qualsiasi codificazione dei diritti dell’uomo debba essere subordinata alla sharī’a, nella interpretazione più restrittiva.
– la seconda, da considerarsi la posizione più umanista, mantiene su un piano differenziato le fonti giuridiche, attribuendo solo al Corano e alla Sunna la valenza di fonti primarie, e tenendo invece su un piano diverso la successiva produzione giuridica dottrinaria, che sarebbe suscettibile di una interpretazione evolutiva in chiave moderna e quindi non più cristallizzata nella immutabile ortodossia giuridica islamica. In concreto, i sostenitori di questa posizione ritengono che le c.d. fiqh non essendo di origine divina, sarebbero, in sostanza, precetti modificabili così garantendo la possibilità di rinnovamento ed adeguamento del diritto islamico. Tale posizione, in sostanza, ritiene che la violazione dei diritti umani determini in primo luogo una violazione del diritto islamico.
– la terza, da considerarsi la posizione più revisionista, e aggiungerei più realista, prende atto del contrasto insanabile tra la tutela dei diritti umani, così come individuati nel diritto internazionale, ed alcuni dei precetti islamici, e, ponendosi a metà strada tra le posizioni precedentemente illustrate, nel tentativo di superare le aspre polemiche la posizione più radicale e quella più umanista, propone un aggiornamento in chiave moderna dei precetti islamici, un adattamento alla modernità (anche attraverso la c.d. Ijtihād). Del resto, secondo questa posizione, l’Islam come il Cristianesimo ha contribuito allo sviluppo dei diritti dell’uomo, per cui oggi i diritti dell’uomo devono essere il metro dell’adattamento di un diritto musulmano rimasto arcaico[4].
Dopo aver tentato una qualificazione generale delle fonti e dell’applicazione del diritto musulmano, sulla base di tali necessarie considerazioni, appare opportuno ora analizzare le singole criticità che appaiono più rilevanti e consistenti, anche per verificare la percorribilità o meno della posizione revisionista con l’effettiva e piena tutela dei diritti dell’uomo nei paesi arabi.
La tesi dell’insanabile contrato tra una parte dei precetti islamici e la tutela dei diritti umani risulta evidente sol che si badi che la religione islamica consacra, in sostanza, nei suoi testi sacri una pluralità di diseguaglianze fondamentali: l’ineguaglianza tra l’uomo libero e lo schiavo; l’ineguaglianza tra l’uomo di religione musulmana ed il non musulmano; l’ineguaglianza tra l’uomo e la donna.
Ed è da tali presupposti, difficilmente superabili, che poi scaturiscono le considerazioni ben note da parte degli studiosi del diritto internazionale dei diritti umani in ordine alle maggiori criticità riscontrate, specie in riferimento alla garanzia del rispetto della libertà religiosa, si pensi in particolare della questione relativa all’apostasia; alla condizione e ai diritti della donna, alle previsioni nel diritto coranico di pene corporali e di trattamenti (ad esempio la lapidazione) sicuramente e di per sé lesivi della dignità umana e al diritto all’integrità fisica.
Uno degli ostacoli maggiori alla piena affermazione dei diritti umani nei paesi arabi è da individuare nel mancato riconoscimento del principio di universalità dei diritti dell’uomo. Infatti in alcune esperienze della realtà giuridica islamica si riscontra la propensione a ritenere sussistente una differenziazione tra i diritti umani da riconoscere all’uomo di religione musulmana e quelli da riconoscere all’uomo di origine non musulmana.
Tale, inaccettabile, principio basato su una vera e propria discriminazione religiosa è stato da sempre rigettato dalla comunità internazionale, che ha, nel rapporto tra islam e diritti umani ritenuto di suddividere in tre diversi gruppi di diritti.
Il primo gruppo, cui appartengono, tra gli altri, il diritto alla protezione della vita, il diritto alla personalità giuridica, il diritto all’ambiente, il diritto all’onore e alla reputazione personale, che vanno considerati quali diritti compatibili, ovvero diritti tutelati sia dal diritto internazionale che dalla sharī’a.
Il secondo gruppo è composto da tutti quei diritti che sono affermati sul piano internazionale e sono invece sostanzialmente esclusi dalla sharī’a .
Il terzo gruppo è composto da tutti quei diritti che, anche se formalmente riconosciuti, risultano più o meno condizionati, se non del tutto compromessi, dalla sharī’a, e pertanto, specie in riferimento a quanto sopra evidenziato, necessitano di una verifica sull’effettivo riconoscimento di tali diritti, a seconda dalla realtà che si intenda analizzare.
In particolare l’ostacolo nell’effettività della protezione dei diritti dell’uomo in tutte le comunità islamiche è poi costituito dal c.d. Ḥudūd ovvero la previsione all’interno del Corano di vere e proprie norme penali incriminatrici di fattispecie giuridiche con le relative pene (inconciliabili con la protezione dei diritti dell’uomo) specificatamente previste .
E’ chiaro, dunque che se da un lato la prevalenza del diritto coranico su ogni ulteriore norma giuridica costituisce una criticità insormontabile da un punto di vista concettuale con la protezione dei diritti umani, dall’altro nulla esclude, volendo fare una ipotesi del tutto accademica, che in futuro un gruppo di Ayatollah o Mufti “illuminati” possano – attraverso una serie di fatwā – adeguare l’ordinamento alla protezione dei diritti dell’uomo, così come intesa dalla comunità internazionale, e garantire tali diritti anche nella comunità espressione della più radicale ortodossia giuridica islamica.
Del resto, se è corretto affermare che la posizione revisionista è la strada migliore per attuare la piena affermazione dei diritti dell’uomo nei paesi arabi, il veicolo per ottenere tale obiettivo è la ricerca all’interno dei testi sacri di quei principi generali degli ordinamenti giuridici islamici che, in funzione “adeguatrice”, si pongano in contrasto rispetto alle norme coraniche incompatibili con la piena affermazione dei diritti umani, solo in questo modo si potrebbero affermare pienamente i diritti di cui al secondo gruppo.
Nell’ottica di un progressivo sviluppo ed affermazione dei diritti umani nei paesi arabi, appare opportuno, dunque, sostenere il c.d. approccio moderato[5] e revisionista, affinchè si possano superare i numerosi ostacoli alla piena affermazione dei diritti umani, e, senza dubbio, attraverso una revisione dell’applicazione e dell’interpretazione della sharī’a si può ridurre il condizionamento dei diritti di cui al terzo gruppo, e favorire il passaggio dal secondo al primo gruppo di diritti fondamentali che ancora oggi trovano forti limitazioni, se non vere e proprie esclusioni, in molte realtà dei paesi arabi.
A favorire questo passaggio verso una effettiva protezione dei diritti umani nei paesi arabi, contribuisce senza dubbio, il dialogo con la comunità internazionale (si pensi alla moratoria delle sanzioni penali corporali cui da anni alcuni dei paesi arabi hanno aderito), e lo sviluppo di sistemi sub-regionali (come vedremo il G.C.C.) che possano meglio interpretare le esigenze di popoli islamici che, come abbiamo visto si caratterizzano per la pluralità di fattori che incidono e differenziano i singoli paesi e rendono complessa una qualsiasi analisi e prospettiva su base regionale.
- La dichiarazione dei diritti dell’uomo resa nell’ambito del Gulf Cooperation Council
Nella analisi della tutela dei diritti umani nell’ambito paesi arabi ha, recentemente, destato l’attenzione degli studiosi del diritto internazionale dei diritti umani la dichiarazione dei diritti dell’uomo firmata a Doha (Qatar) nel dicembre 2014, adottata dal Supreme Council del Gulf Cooperation Council.
La dichiarazione è uno strumento non vincolante per i paesi aderenti all’organizzazione sub-regionale del Gulf Cooperation Council, che associa il regno dell’Arabia Saudita, il Bahrain, il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti, il sultanato dell’Oman ed il Kuwait.
L’organizzazione, nata nel 1981 per favorire la cooperazione economica, politica e militare degli stati arabi del golfo, nel corso degli anni ha costituito, all’interno dei paesi aderenti, dapprima una unione doganale, poi una vera e propria area economica comune, ed infine una cooperazione allo sviluppo oltre che economica, con la tendenza a promuovere l’uniformità dei diritti interni anche in una pluralità settori, sino ad arrivare alla dichiarazione del golfo sui diritti umani.
E’ opportuno evidenziare che i diritti umani non rientrano tra gli obiettivi della carta istitutiva dell’organizzazione sub-regionale, e per la prima volta il Gulf Cooperation Council, al massimo livello, ha adottato la dichiarazione comune, sia pur non vincolante, in materia.
Prima di analizzare nel dettaglio la dichiarazione di Doha, appare opportuno inquadrarla storicamente e tentare di analizzarne i rapporti con la Dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo e con la Carta araba dei diritti dell’uomo.
Ripercorrendo brevemente l’excursus storico delle attività finalizzate alla promozione dei diritti umani nei paesi arabi, occorre partire dal 1945, anno in cui venne costituita la Lega Araba, che non contemplava esplicitamente quale propria finalità quella della protezione dei diritti umani. Successivamente, solo nel 1968, il Consiglio della Lega Araba adottò la risoluzione per l’istituzione di una commissione araba permanente per i diritti dell’uomo, che pur avendo l’ambizioso obiettivo di promuovere una funzione di coordinamento tra delle attività condotte dai paesi arabi in materia di diritti umani, nonché la funzione di proteggere i diritti dell’uomo propri degli arabi, in realtà finì per non ottenere risultati tangibili, e anzi per divenire molto spesso, riduttivamente, il luogo di promozione della causa palestinese contro lo stato di Israele nel contesto internazionale.
Nel 1990, di converso, nell’ambito dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, venne adottata la dichiarazione islamica dei diritti dell’uomo meglio nota come dichiarazione del Cairo, la quale nonostante l’apparente affermazione di tradizionali diritti e principi, in realtà conferma la superiorità della legge coranica (l’art. 24 sancisce la prevalenza della legge coranica; l’art. 25 afferma che la legge coranica è l’unico riferimento per interpretare le norme della dichiarazione) rispetto anche al diritto internazionale, e pertanto costituisce il tentativo evidente di regionalizzazione dei diritti umani, ovvero la volontà di differenziare i diritti dell’uomo di religione islamica, da quelli dell’uomo di religione non islamica, minando così il principio di universalità dei diritti umani.
Nel 1994 venne finalmente approvato il progetto della commissione della Lega Araba, con la denominazione di Carta araba dei diritti dell’uomo. La Carta costituisce indubbiamente il tentativo di pervenire ad un compromesso, se da un lato la stessa non affronta volutamente alcuni aspetti (ad esempio omettendo ogni riferimento ai diritti di eguaglianza uomo-donna) dall’altro si riafferma l’universalità dei diritti umani, si riscontrano notevoli passi in avanti specie con riguardo alla libertà religiosa e le punizioni corporali, nonché, fatto assolutamente non trascurabile, scompare qualunque riferimento alla sharī’a.
La Carta viene successivamente emendata in occasione del vertice di Tunisi del 23.05.2004, il testo della nuova Carta, se da un lato inserisce il riferimento alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e ai c.d. Patti del 1966, dall’altro, incomprensibilmente, rinvia alla Dichiarazione del Cairo del 1990, con tutte le criticità che il riferimento comporta, atteso quanto sopra evidenziato.
Si ripropone quindi la divergenza di opinioni in ordine all’universalità dei diritti umani, viene operata una distinzione (dal sapore discriminatorio) tra diritti dei cittadini e diritti delle persone, viene inserito il c.d. principio della discriminazione positiva della donna, viene modificato l’art. 30 relativo al diritto di manifestazione del proprio culto che viene garantito anche in forma collettiva.
La Carta, nella sua versione del 1994 era stata oggetto di riserva da parte degli Stati aderenti al G.C.C., mentre nella nuova formulazione è stata ratificata dal Bahrain e dal Kuwait nel 2006, dagli Emirati Arabi Uniti nel 2008 nonché dall’Arabia Saudita e dal Qatar nel 2009. Il sultanato dell’Oman rifiuta espressamente la ratifica dello strumento.
E’ altresì opportuno evidenziare che Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Oman e Qatar non hanno sottoscritto i c.d. Patti del 1966.
Occorre ulteriormente evidenziare che nell’ambito dell’Organizzazione della conferenza islamica, nel marzo del 2008 è stata adottata al vertice di Dakar il nuovo testo della Carta la cui principale novità è l’introduzione di una Commissione permanente indipendente dei diritti dell’uomo[6].
Orbene, venendo ora all’analisi del testo della Dichiarazione di Doha – costituita da un preambolo e da 47 articoli – che necessariamente dovrà essere comparata agli strumenti sopra citati, è opportuno rilevare che, come la Carta araba nella versione del 2004, anche la Dichiarazione di Doha, contiene nel preambolo il riferimento alla Carta delle Nazioni Unite, alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, alla Carta araba dei diritti dell’uomo, nonché alla Dichiarazione del Cairo del 1990.
Pur scomparendo il riferimento ai c.d. Patti del 1966 (del resto, come evidenziato solo due dei sei paesi aderenti al G.C.C. l’hanno sottoscritti), il Consiglio di cooperazione degli stati arabi del golfo, fa esplicito riferimento alle convenzioni e agli accordi internazionali e regionali connessi alla tutela dei diritti umani.
All’art. 1 viene sancito il diritto alla vita, che deve essere protetto da qualsiasi minaccia, si specifica che nessuno ha il diritto di porre fine alla vita di un’altra persona, e viene altresì inserito il diritto all’onorabilità dei defunti.
Al successivo art. 2 viene sancito il principio di eguaglianza, di libertà e il principio di non discriminazione innanzi alla legge, senza distinzione di sesso, di religione, di razza, di lingua, e di qualsiasi altra forma di discriminazione.
Nei successivi articoli 3, 4, e 5 vengono sanciti il divieto di schiavitù in ogni sua forma, specie con riguardo a donne e minori, il divieto di commercio di organi umani, e il principio del consenso informato ai trattamenti sanitari ed alle sperimentazioni scientifiche.
All’art. 6 viene stabilito il principio di libertà nella professione della propria fede, che viene concesso a tutti in conformità con la legge ed in modo non contrario all’ordine pubblico ed alla morale.
All’art. 7 si sancisce il rispetto per le “religioni celesti”, il divieto di offesa alle religioni ai profeti ed ai simboli religiosi, nonché il rispetto per la diversità culturale delle altre nazioni.
L’art.8 disciplina la promozione da parte dello Stato dell’amore della fratellanza e del perdono, rifiutando ogni forma di estremismo e di odio.
L’art.9 disciplina il diritto di alla libertà di opinione e di espressione di ogni individuo salvo i limiti imposti dalla sharī’a dall’ordine pubblico e dalla legge.
Agli artt. 10, 11, 12 e 13 vengono sancite le libertà di circolazione, di residenza e di espatrio, nonché il diritto del cittadino di rientrare nel proprio paese, e il diritto alla personalità giuridica ed alla nazionalità.
Nei successivi articoli 14 e 15 vengono stabiliti i principi di tutela della famiglia quale nucleo fondamentale della società fondata sull’unione tra l’uomo e la donna, si prevede altresì la tutela della maternità e dell’infanzia vietandosi qualsiasi forma di abuso e di violenza domestica, viene, infine, previsto il diritto sia per l’uomo che per la donna a contrarre matrimonio soltanto con il libero e pieno consenso dei futuri coniugi, in conformità con le disposizioni della sharī’a e della legge.
L’art. 16 disciplina il diritto all’inviolabilità della vita privata, degli affari di famiglia della casa della corrispondenza e dei contatti, e l’art. 17 assicura il diritto ad un tenore di vita decente, affidando allo Stato il compito di renderlo effettivo attraverso la garanzia di un livello minimo.
Gli articoli 18 e 19 stabiliscono il diritto del fanciullo alla sopravvivenza allo sviluppo e alla protezione e cura del minore in un ambiente familiare, viene altresì previsto il diritto del minore alla protezione dallo sfruttamento economico e lavorativo specie quando è probabile che lo stesso possa essere danneggiato nella salute nella crescita e nello sviluppo, e ciò in conformità con le disposizioni della sharī’a e dei trattati ed accordi internazionali .
L’art. 20 dispone il diritto a vivere in un ambiente sano, affidando allo Stato il compito di rendere effettivo tale diritto.
Gli art. 21, 22 25 e 26 tutelano il diritto alla salute, specie nei confronti dei disabili, degli anziani e degli infermi, prevedendo assicurazioni sociali per rendere effettivo tale diritto.
L’art. 23 garantisce il diritto all’istruzione all’educazione e alla cultura, prevedendosi l’obbligatorietà e gratuità dell’istruzione primaria, l’art. 24 sancisce il diritto al lavoro, e la libertà di scelta del tipo di lavoro con gli unici limiti individuati nella dignità e nella pubblica utilità, garantendosi l’equità nelle condizioni dell’impiego ed i diritti sia dei dipendenti che dei datori di lavoro.
L’art. 27 assicura il diritto alla proprietà privata, prevedendosi quale unico limite l’esproprio per pubblica utilità dietro indennizzo.
Il successivo art. 28 assicura il godimento per il cittadino della proprietà e della ricchezza nazionale, e consente a tutti di beneficiare dei servizi pubblici in conformità della legge.
L’art. 29 prevede il diritto di tutti alla partecipazione alla vita culturale nonché il godimento dei progressi scientifici e tecnici, ed altresì il diritto a beneficiare dei diritti morali e materiali per la produzione di opere letterarie, scientifiche e artistiche, in modo da contribuire al progresso della civiltà umana.
L’art. 30 assicura al cittadino il diritto alla partecipazione alla vita politica e alla gestione degli affari pubblici del proprio paese, nonché a tenere gli uffici pubblici in condizione di parità con gli altri e nel rispetto della legge.
L’art. 31 stabilisce il diritto a partecipare ad associazioni, enti e sindacati, precisando che nessuno può essere obbligato a parteciparvi.
L’art. 32 assicura il diritto di eguaglianza innanzi alla legge, ed assicura un giudice terzo ed imparziale.
L’art. 33 prevede il principio di personalità nella responsabilità penale, assicura il rispetto del principio nullum crimen sine lege , nonché disponendo che nessuno possa essere condannato per un fatto che all’epoca nel quale fu commesso non costituiva reato, nonché prevede il principio di applicazione al reo della legge successiva più favorevole.
L’art. 34 stabilisce che nessuno possa essere arbitrariamente arrestato o privato della libertà, che tutti hanno diritto ad un trattamento umano durante la detenzione, e che l’imputato ed il condannato hanno status diversi e a ciascuno va riservato un trattamento appropriato.
L’art. 35 dispone che l’imputato è innocente sino a prova contraria, che ha diritto ad un giusto processo e che va garantito il suo diritto di difesa.
L’art. 36 sancisce il divieto di tortura (sia fisica che psicologica), nonché il divieto di trattamenti crudeli, degradanti o lesivi della dignità umana.
L’art. 37 dispone che il condannato alla pena detentiva merita il rispetto della propria dignità in quanto essere umano.
L’art. 38 stabilisce che nessuno possa essere imprigionato per una inadempimento contrattuale se dimostra di poter pagare il proprio debito.
L’art. 39 dispone che lo Stato e la società hanno l’onere di intervenire in caso di disastri ed emergenze pubbliche.
L’art. 40 prevede il divieto di terrorismo che costituisce grave violazione dei diritti umani e viene criminalizzato in tutte le sue forme, in base alla sharī’a ed alle convenzioni internazionali. Si precisa altresì che la lotta per l’eliminazione del terrorismo deve essere attuata nel costante rispetto dei diritti umani.
L’art. 41 prevede che le regole del diritto umanitario internazionale, siano applicabili nei conflitti armati secondo le convenzioni e le norme internazionali, in modo da garantire i diritti degli anziani, gli infermi, i malati, i disabili, le donne, i bambini, i prigionieri e civili.
L’art. 42 stabilisce che ogni individuo ha il diritto di ottenere asilo in un altro Stato secondo la legge, nessun cittadino straniero può essere espulso dal territorio di uno Stato in cui sia entrato legalmente se non in base alla legge, in ogni caso è esclusa l’estradizione di rifugiati politici.
L’art. 43 tutela il minore delinquente prevedendosi il diritto ad un speciale sistema di giustizia minorile, che tenga considerazione la sua età, e che, tutelando la sua dignità, assicuri la riabilitazione ed il reinserimento nella società.
L’art. 44, assume la particolare valenza di clausola di salvaguardia, infatti subordina l’effettivo godimento dei diritti previsti nella dichiarazione stessa “ […] fatte salve le disposizioni della sharī’a e della legge […]” .
L’art. 45 assicura a chiunque il diritto di petizione per le violazioni alle disposizioni della dichiarazione.
L’art. 46 individua un altro limite all’effettivo godimento dei diritti e libertà contenuti nella dichiarazione consistente nella protezione dei diritti e delle libertà degli altri, nonché dell’ordine pubblico.
L’art. 47 prevede che la dichiarazione non possa essere interpretata in modo da diminuire i diritti e le libertà sancite dalla legislazione nazionale dei paesi aderenti al G.C.C. o dai trattati internazionali o regionali sui diritti umani ratificati dai paesi aderenti al G.C.C.
- Conclusioni e prospettive sulla instaurazione di una corte regionale.
La Dichiarazione di Doha se da un lato costituisce, senza dubbio, un passo in avanti nella tutela dei diritti umani per le considerazioni di seguito riportate, dall’altro ripropone in pieno tutte le criticità proprie della effettiva applicazione nei paesi arabi dei diritti umani.
Volendo condurre una analisi sul testo della dichiarazione, e sui suoi rapporti con gli altri strumenti internazionali nonché di quelli adottati nella regione, non può non evidenziarsi quanto segue:
L’art. 44 della dichiarazione di Doha, ripropone nuovamente la subordinazione dell’effettivo riconoscimento dei diritti umani, in sostanza, solo nella parte in cui gli stessi siano compatibili con la sharī’a. Come ampiamente evidenziato nel primo paragrafo, di per sé, il riferimento alla sharī’a – specie in considerazione del fatto che l’art. 44 per la tecnica normativa utilizzata sembrerebbe costituire una vera e propria “valvola di sfogo del sistema” ovvero clausola finale di salvaguardia dell’intero corpus della dichiarazione – secondo la maggior parte degli studiosi, pone nel nulla ogni proposito positivo e rende, di fatto, assolutamente inefficaci ed inapplicabili, in concreto, i diritti e le libertà riconosciute nella dichiarazione.
A parere dello scrivente, però occorre in ogni caso apprezzare lo sforzo e le aperture che comunque con la dichiarazione di Doha si profilano, se infatti da un lato subordinare l’effettiva tutela dei diritti e delle libertà riconosciute alla sharī’a costituisce una ulteriore conferma che gli ordinamenti di quei paesi non intendono, in nessun modo, rinunziare alle proprie tradizioni, culture e legislazioni, dall’altro si potrebbe in ogni caso obiettare che la clausola dell’art. 44 è una clausola generale e residuale, e che nel testo della dichiarazione solo agli artt. 9 (libertà di espressione), 15 (matrimonio), 19 (tutela del minore) e 40 (terrorismo), vi è uno specifico richiamo alla sharī’a quale contesto nel quale rendere effettivo il relativo diritto o libertà.
Differentemente opinando, si potrebbe affermare che la clausola di cui all’art. 44 costituirebbe una mera clausola di stile, avendo la Dichiarazione effettuato un riferimento esplicito nel corpo del testo relativamente ai citati articoli, ove evidentemente si è ritenuta necessaria una espressa previsione.
In via generale però è evidente, sotto questo aspetto, il “passo indietro”, infatti se con la Carta araba del 1994 si era arrivati all’esclusione di qualsiasi riferimento alla legge coranica e nella versione del 2004 si era implicitamente reintrodotto attraverso il riferimento alla Dichiarazione del Cairo, nella Dichiarazione di Doha il riferimento risulta esplicito con riguardo alle norme sopra richiamate e risulta criterio generale o residuale con riguardo all’art. 44. Tale considerazione è ribadita dall’ultimo articolo della Dichiarazione di Doha che, pur ribadendo l’importanza di strumenti internazionali e regionali a tutela dei diritti umani, specifica che l’interpretazione della Dichiarazione non può diminuire i diritti già sanciti dagli ordinamenti interni. Casomai rimanesse qualche dubbio in ordine alla prevalenza degli ordinamenti interni alle norme contenute nella dichiarazione.
Ciò posto, è chiaro che permangono le medesime perplessità già espresse dalla comunità internazionale che individuano una serie di limiti e criticità dalla riaffermazione di siffatto principio.
Occorre poi considerare che la Dichiarazione di Doha, pur richiamando espressamente la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo nel preambolo e pur condividendone numerosi aspetti, per alcuni versi se ne discosta in maniera evidente.
Sul punto appare opportuno rilevare che l’art. 2 della Dichiarazione di Doha omette la menzione specifica della discriminazione “per ragioni politiche o altro” ovvero “per nascita”. E’ opportuno considerare però che la gran parte dei paesi aderenti al G.C.C. sono monarchie ereditarie.
Ancora la Dichiarazione di Doha all’art. 6 pur sancendo la libertà di professione di fede, ne limita l’esercizio subordinandolo alla legge all’ordine pubblico e alla morale.
Sul punto, appare opportuno rilevare quanto segue.
La Dichiarazione concede, ovviamente, la sola libertà di professione della propria fede, ma ci si guarda bene dal dichiarare la libertà di cambiare religione o credo, e ciò anche in considerazione del fatto che in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Qatar l’apostasia è tuttora un delitto la cui pena prevista è la pena capitale.
Peraltro, si rileva che la Dichiarazione sembra porre su un piano differenziato le c.d. “religioni celesti” (Islam, Ebraismo e Cristianesimo) dalle altre confessioni religiose che non godrebbero delle tutele previste all’art. 7 , così determinando una discriminazione poco in linea con gli strumenti internazionali.
Nel confronto poi, tra l’art. 9 della Dichiarazione di Doha e il corrispondente art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, si nota subito la subordinazione della libertà di opinione alla sharī’a, nonchè l’assenza del riferimento alla libertà di opinione e di espressione da attuare “[…] attraverso qualsiasi mezzo […]” .
Quanto invece alla libertà di associazione si rileva che nel testo della Dichiarazione di Doha non si prevede la libertà di riunione pacifica, che del resto risulta del tutto vietata in Arabia Saudita.
Occorre ulteriormente rilevare che la Dichiarazione di Doha sembra seguire poi l’esperienza della rinnovata Carta araba dei diritti umani (versione 2004) che sostiene una inaccettabile distinzione, dall’evidente sapore discriminatorio, tra alcuni diritti che vengono riconosciuti a tutti ed altri diritti che invece vengono riconosciuti ai soli cittadini.
Venendo ora agli aspetti positivi introdotti dalla nuova dichiarazione di Doha, occorre in primo luogo evidenziare che il sultanato dell’Oman, storicamente restio a qualsiasi tipo di interferenza sulla propria sovranità, ha, per la prima volta, accettato lo strumento della Dichiarazione di Doha, che pur essendo strumento di soft law comunque costituisce per quel paese un primo passo verso l’affermazione e la tutela dei diritti umani.
Lo strumento della dichiarazione rafforza la cooperazione di questa parte degli stati arabi, crea una comune base giuridica e consente la possibilità di eliminare le diversità interne ai singoli Stati e inserendosi nella fitta integrazione avviata nell’organizzazione sub regionale probabilmente e porterà i paesi aderenti al G.C.C. ad una sempre maggiore influenza reciproca per gli anni a venire.
Di non poco conto sono, poi, i significativi passi avanti nella tutela dei diritti della donna, del minore e dei disabili. La dichiarazione per alcuni versi risulta essere addirittura innovativa (si pensi alla tutela dei defunti) e senza dubbio positivamente orientata a garantire i diritti umani nell’ambito del diritto penale (si pensi alla previsione del divieto di tortura).
Occorre poi evidenziare che la dichiarazione di Doha, va letta nello spirito di compromesso di cui è frutto, non a caso il G.C.C. raggruppa paesi che possono senza dubbio considerarsi all’avanguardia nella tutela dei diritti umani – si pensi ad esempio al Bahrain che ha addirittura nel proprio ordinamento previsto l’istituzione di un’Autorità Nazionale per i Diritti Umani; che ha recentemente adottato una legge a tutela della donna per la violenza domestica, che ha, di fatto, sospeso la pena capitale all’interno dello stato – a paesi invece storicamente molto arretrati nella cultura e nella protezione dei diritti umani (si pensi all’Arabia Saudita e allo stesso Oman).
Peraltro, per la prima volta nei paesi arabi aderenti al G.C.C. viene introdotto uno strumento di tutela diretta, sia pur primordiale e minimo, individuato all’art. 45 che consente a chiunque di poter inviare petizioni in ordine al mancato rispetto dei diritti e delle libertà previste nella Dichiarazione di Doha.
Da ultimo si segnala che recentemente proprio il Regno del Bahrain ha formalizzato ai propri partners nell’ambito della Lega Araba una proposta finalizzata alla istituzione di una Corte Araba dei Diritti dell’Uomo.
Il progetto è ancora ai primi passi, è stato presentato un progetto di statuto che prevede la composizione dell’organo formato da sette giudici, non è detto che si realizzi, ma tale novità senza dubbio costituisce un importante spinta verso una migliore tutela dei diritti umani nell’area del medio oriente.
L’ipotesi di realizzazione di una corte regionale, nell’ambito dell’organizzazione, costituirebbe senza dubbio un passo in avanti sotto un duplice aspetto, il primo che consentirebbe, sulla scorta dell’esperienza africana, ed anche grazie al fenomeno del judical borrowing la nascita di una prima protezione effettiva dei diritti umani, il secondo è che la corte costituirebbe di per sé la affermazione di una volontà di porre rimedio alle violazioni dei diritti umani .
Restano da chiarire molte questioni, la previsione o meno di uno strumento di tutela diretta (ricorso individuale) è una di queste.
In conclusione, a seguito delle considerazioni sin qui evidenziate, si può affermare che il tema della protezione dei diritti dell’uomo nei paesi arabi del golfo ripropone nuovamente ed in maniera più accentuata la contrapposizione tra gli universalisti ed i relativisti, i primi fermi nella rigorosa tutela dell’affermazione dei principi espressi nell’ambito onusiano; i secondi invece più concentrati sulla effettività della tutela dei diritti dell’uomo sia pure nelle differenze e nel rispetto delle esperienze delle singole culture giuridiche.
Non è possibile rinunziare all’universalità dei diritti dell’uomo.
Solo attraverso una cross fertilization prima che giudiziaria anche normativa, e, mi sia consentito, anche culturale, è possibile giungere ad affermare la piena tutela dei diritti dell’uomo.
Bibliografia essenziale: Aldeeb Abu- Sailieh Sami A. – Les musulmans face aux droits de l’homme. Religion et droit politique, Bochum, 1994; Akalay O. – Le Coran et led droits de l’homme, Paris, 2010; Al Marzouqui Ibraihm Abdulla – Human rights in Islamic law, Abu Dhabi, 2000; Al Midani – Les organs de la promotion et de la protection des droits de l’homme au sein de la ligue des etas arabes, Torino, 2011; Zanghì C. Panella L. – I diritti dell’uomo nel mediterraneo, Torino, 1995; Fiore – I diritti dell’uomo nella Lega araba ed il progetto di una carta araba dei diritti dell’uomo, in Rivista internazionale dei diritti dell’uomo, 1991 ; Ferjani Mohamed Cherif – Islamisme, laicité et droits de l’homme, Parigi , 1991; Ferjani Mohamed Cherif – Les voies del’islam, Parigi 1996; Ungari P. Modica M. – Per una convergenza mediterranea sui diritti dell’uomo, Roma,1997; Maaouia Mekki – Les droits de l’homme dans le monde arabe entre régionalisme et universalisme, in Ben Achour Les droits de l’homme: une nouvellecohérence pour le droit International?, Paris, 2008; Zanghì Ben Achour – La nouvelle Charte arabe des droits de l’homme, Torino, 2005; Zerrougi – The arab Charter on human rights, in Essex Human Rights Review, 2011; Zanghì – La protezione internazionale dei ditti dell’uomo, Torino, 2013
Riferimenti web: Arab association for human rights – www.arabhra.org; Islamic Human Rights Commission –www.ihrc.org; Islamic institute for Human Rights – www.iifhr.com; Karamah Muslim Women Lawyers for Human Rights – www.karamah.org; Mazlumder Organization of Human Rights and Solidarity for oppressed people – www.mazlumder.org; Human Rights Monitor – www.phrmg.org; Gulf Cooperation Council – www.gcc.org
Note: [1] Cfr. Brennan K. – The influence of cultural relativism on International human rights law, in Law and Inequality, 1989 pp. 360-398; [2] Cfr. Zanghì C. – La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, Giappichelli, Torino 2013; [3] Cfr. Castro F. – Diritto musulmano e dei paesi musulmani, in Enc. Giur., Vol. XI; [4] Charfi M. – Droit musulman, droit tunisien et droits de l’homme, in Reveu Tunisienne du Droit, 1983, p. 405; [5] Cfr. Abu-Sahlieh – I diritti dell’uomo e la sfida dell’Islam, Rivista internazionale dei diritti dell’uomo, 1999; [6] Cfr. Ben Achour R. – La nouvelle Charte de l’Organizzazione de la conférence islamique, Revue générale de droit International public, 2008.
Immagine in evidenza: GCC Collective, Figure B: Micro Council, 2013. Wood, brass, acrylic glass, glass, gold leaf, paint. 12.6 x 67 x 67 cm. Photo by Nils Klinger. Courtesy of Kraupa-Tuskany Zeidler Gallery, Berlin, and Barjeel Art Foundation, Sharjah – https://www.ibraaz.org/reviews/80