Quando la terra trema vacillano i precari e deboli equilibri creati dall’uomo. Di fronte a un evento maestoso quanto spaventoso non crollano solo edifici, palazzi, città; a perdere la loro forma sono spesso comportamenti rigidi e consuetudinari, stratificati negli anni e nei secoli. 


Per quanto l’epicentro del terremoto possa essere lontano dalla sede ONU, le Nazioni Unite avvertono la scossa e, a seconda del punteggio totalizzato sulla scala Richter, parte la staffetta umanitaria: donazioni, aiuti solidali ed economici. Nella fase di assestamento avviene spesso un crollo di barriere economiche, come sanzioni, e misure anti-immigrazione, come i confini militarizzati, a favore del Paese colpito dal sisma.
Le catastrofi naturali danno la possibilità agli Stati testimoni di poter compiere gesti plateali, non solo in chiave umanitaria, ma diventando veri e propri strumenti diplomatici. Un esempio di questa rapida trasformazione è la risposta statunitense al terremoto di Izmit nel 1999: Clinton fece visita a Izmit, colpita da un sisma di magnitudo 7.6, la forza simbolica del gesto fu prorompente; dopo anni di congelamento, le relazioni USA-Turchia migliorarono fino ad arrivare ad accordi militari ed economici senza precedenti. Tuttavia, l’esempio non deve essere frainteso: anche Stati meno pesanti a livello internazionale possono trarre la stessa forza ed energia da eventi simili. È il caso dell’Armenia e l’odierna Turchia.

Il negazionismo turco

Nel 1993 in seguito alla guerra del Nagorno-Karabakh[1] la Turchia chiuse il confine con l’Armenia per portare supporto all’Azerbaijan. La chiusura dei confini rappresenta uno dei punti più bassi per le relazioni diplomatiche tra due Paesi, incidendo una cicatrice che difficilmente può essere tralasciata.
Tra Armenia e Turchia si tentarono dei riavvicinamenti, soprattutto nel 2008 e 2009[2], ma gli ostacoli da superare sembrano insormontabili per le due parti. Uno degli scogli maggiori da scalfire per ristabilire le normali relazioni statali tra i due è quello del genocidio degli Armeni. La strage compiuta durante la prima guerra mondiale ad opera degli ottomani e dei russi è stata riconosciuta da gran parte della comunità internazionale solo a partire dal 1965. La Turchia tuttavia non ha mai parlato di “genocidio”, il Presidente Erdogan preferisce la locuzione “fatti del 1915”. Il negazionismo turco infiamma quindi il terreno diplomatico e impedisce accordi di distensione credibili.

Il triangolo: Ankara, Baku e Erevan

I Paesi del Caucaso hanno avuto uno sviluppo travagliato, vittime di due pressioni opposte e letali: l’URSS e l’Impero Ottomano. L’eredità lasciata da questi giganti continua ad aleggiare sulla politica estera degli odierni Stati, così un Paese come l’Armenia si è sviluppato gradualmente e tragicamente: l’indipendenza sofferta e agognata venne raggiunta nel 1991. La Repubblica turca fu uno dei primi Paesi a riconoscere l’indipendenza armena, tuttavia l’apertura del confine sarebbe stata realizzata solo dopo la rinuncia armena ai territori rivendicati (provincia di Kars in particolare)[3]. In quello stesso anno, nasceva una nuova repubblica caucasica, grande ammiratrice e sostenitrice delle politiche turche in Asia centrale: l’Azerbaijan. Quello che c’è tra Turchia e Azerbaijan è molto più di un’alleanza, per questo motivo spesso i due vengono descritti come “una nazione con due Stati”, questo è dovuto a ragioni etniche, religiose, sociali ed economiche. Il conflitto del Nagorno ha quindi riguardato inevitabilmente la Turchia, che pur di sostenere il suo pupillo è andata vicina a un conflitto armato contro la Russia, alleata dell’Armenia. La guerra durò fino al 1993, quando Azeri e Armeni si ritrovarono in ginocchio stremati dagli sforzi bellici, inoltre la chiusura delle frontiere turche provocò la penuria di molti beni importati. Nonostante i numerosi tentativi di giungere a un trattato di pace stabile e duraturo, il conflitto è come se non fosse mai terminato, come dimostrano gli ultimi sviluppi del 2020.

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La scossa e i suoi possibili risvolti

Il 6 febbraio con gli edifici turchi e siriani è crollata una esigua, ma significativa, sezione del solido muro metaforico che divide Turchia e Armenia. Nikol Pashinyan, primo ministro armeno, ha annunciato immediatamente l’invio di soccorsi da Erevan[4] per Siria e Turchia. È stato quindi aperto un varco temporaneo tra i due Paesi, il gesto può essere letto in due modi, entrambi intrisi di ottimismo e speranza: i soccorsi armeni in Turchia dimostrano come di fronte alle tragedie la diplomazia riesca ancora a rimodellarsi per il bene comune; secondariamente, è possibile analizzare questa apertura come trampolino di rilancio delle relazioni tra Turchia e Armenia post-sisma. Il disgelo condurrebbe a uno sconvolgimento degli equilibri centroasiatici e quindi a una nuova rete di alleanze nel Caucaso, una prospettiva non favorevole per la Russia.
Con la riapertura delle attività belliche nel Nagorno Karabakh nel settembre 2020, l’UE si è trovata in una posizione di scacco matto: sodalizzare con l’Armenia per Bruxelles rappresenta una scelta imprudente, in quanto perderebbe l’accesso al gas azero e provocherebbe una reazione di Erdogan. Il conflitto in Ucraina con le conseguenti sanzioni anti-russe quindi allarga il divario tra Europa e Armenia, come testimonia la dichiarazione del presidente armeno Khachaturyan: “Noi siamo vittime collaterali del conflitto in Ucraina”. In questo scenario, guardare con ottimismo alle relazioni Ankara-Erevan è cruciale, in quanto rappresenta l’unica possibile svolta per il conflitto caucasico aperto ormai da un ventennio.


Note

[1] Opinio Juris, Nagorno Karabakh conflict analysis: cause strutturali e prossime, Martina Maddaluno, 15/01/2023.
[2] Turkish Foreign Policy since 1774, William Hale, Routeldge, 2012.
[3] Turkish Foreign Policy since 1774, William Hale, Routeldge, 2012
[4] ANSA, 17/02/2023


Foto copertina: La tragedia come strumento diplomatico: Turchia e Armenia post-sisma. La mappa del sisma che ha colpito Armenia e Turchia