Dai primi anni duemila, molti paesi dell’Africa Sub-Sahariana rientrano nelle priorità della politica estera turca. Tra essi, la Somalia ricopre un ruolo centrale nell’espansione della Turchia nel continente africano, improntata principalmente su un approccio di cooperazione e diplomazia umanitaria. Tale approccio ha trovato terreno fertile in Somalia, paese devastato da una lunga e sanguinosa guerra civile in corso dal 1986 e teatro di numerosi fallimenti della comunità internazionale. Al contrario, dal 2011 la Turchia ha favorito la ricostruzione di infrastrutture e servizi e contribuito a solidificare le istituzioni in parti del territorio, diventando progressivamente un partner affermato in campo politico, economico e militare.


 

Gli orizzonti africani della politica estera turca

 

L’ascesa al potere dell’Adalet ve Kalkınma Partisi (Partito Giustizia e Sviluppo, AKP) co-fondato dall’attuale presidente della repubblica Recep Tayyip Erdoğan, ha portato a vari cambiamenti negli obiettivi e nelle priorità della politica estera turca. La concezione dell’AKP sfrutta la posizione strategica della Turchia, interpretata come “ponte” tra la regione balcanica, mediorientale e centro-asiatica, rompendo con la tradizionale politica estera orientata verso l’Europa e i paesi dell’alleanza atlantica.
Il precursore di tale dottrina, definita poi “neo-ottomanismo”, fu Turgut Özal, che durante il suo mandato di presidente della repubblica (1989-1993) iniziò l’apertura verso le ex-repubbliche sovietiche dopo il crollo dell’URSS. La teoria neo-ottomana, affinata da Ahmet Davutoğlu ministro degli Affari Esteri dal 2009 al 2014 e primo ministro dal 2014 al 2016, rivolge l’attenzione verso i territori un tempo sotto il dominio ottomano e ha l’obiettivo di ritrasporre in un contesto moderno i valori e le prerogative di un’Anatolia sovrana e leader di popoli e terre tra il mediterraneo e le steppe centro-asiatiche.
Nel governo dell’AKP tale dottrina si traduce in un complesso progetto che prevede la trasformazione dello Stato e della società a tutto tondo, in cui la politica estera e quella interna possano risultare complementari e funzionali al tipo di società basata sulle posizioni da lui stesso definite “progressivo-conservatrici”.[1]

Dal 2005, dichiarato dal governo turco “Anno dell’Africa”, l’Africa Sub-Sahariana rientra ufficialmente nelle priorità della politica estera turca. L’impegno dimostrato dalla Turchia nel coltivare relazioni con i vari paesi è evidente: nell’arco di dieci anni il numero delle ambasciate turche in Africa è salito da 12 nel 2009 a 45 nel 2019, aumentando la penetrazione sia politica che commerciale all’interno del continente.[2]
Nello stesso lasso di tempo, il volume del commercio bilaterale tra Turchia e paesi africani è aumentato circa del 430%: da 4,5 miliardi di dollari nel 2009 a 24 miliardi nel 2019[3], una performance formidabile e particolarmente redditizia.
La crescente presenza della Turchia all’interno dei territori e mercati africani procede di pari passo con il progressivo avvicinamento della Turchia ai paesi africani all’interno delle organizzazioni internazionali su scala mondiale (Nazioni Unite, Organizzazione della Cooperazione Islamica, ecc.) e su scala regionale (Unione Africana).[4]
Sebbene il Ministero degli Esteri turco sottolinei che le relazioni tra Turchia e Africa siano molto antiche, rimandando a episodi risalenti ai tempi ottomani, la presenza dei turchi in Africa sub-sahariana è stata storicamente poco rilevante. Pertanto, l’espansione politica e commerciale turca avviene solo in parte sulle logiche del neo-ottomanismo e ricorre a nuovi stratagemmi discorsivi. Il caso della Somalia è un ottimo esempio del successo e dei limiti delle politiche turche in molti paesi africani.

 

Turchia in Somalia

Non è casuale che le relazioni formali tra la Turchia e il governo federale somalo siano state ufficialmente avviate nel 2011 con l’apertura a Mogadiscio dell’ambasciata turca più grande d’Africa. Il 2011 è un anno di profondo cambiamento dell’influenza turca nell’assetto geopolitico regionale e segna la fine della dottrina “zero problemi con i vicini” elaborata dall’allora ministro degli affari esteri Ahmet Davutoğlu e tarata per interfacciarsi principalmente con i leader autoritari in Medio Oriente e nord Africa. Con i movimenti di piazza e la caduta dei regimi, anche la politica estera turca perde l’appoggio dei soggetti per i quali era stata definita. La necessità di rinnovarsi porta a una ridefinizione dell’azione esterna della Turchia su posizioni in cui è compresa la componente umanitaria e di cooperazione allo sviluppo. Basandosi su un approccio di diplomazia umanitaria, la Turchia sembra aver prodotto un paradigma in grado di espandersi verso nuove realtà mantenendo comunque le posizioni e il sistema valoriale islamico-conservatore dell’AKP. In questo senso, l’arrivo dell’allora primo ministro Erdoğan per la cerimonia di apertura dell’ambasciata a Mogadiscio inaugura anche l’avvio di missioni umanitarie, di peace-building e di una collaborazione più strutturata tra i due paesi.
La visita, la prima di un capo di stato in Somalia nei vent’anni di guerra civile, ha avuto un grande impatto considerato il momento critico per la Somalia, colpita in quell’anno da una catastrofica carestia che ha aggravato il numero già alto delle vittime del conflitto in atto dal 1986.
Nel 2016, il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamed definì “storica” la visita di Erdogan, considerandola “un punto di svolta nell’evoluzione della sicurezza e stabilità del paese”.[5]

L’intervento turco in Somalia agisce principalmente sul fronte politico, rafforzando i legami istituzionali sia bilateralmente che all’interno delle organizzazioni internazionali, e sul fronte umanitario, partecipando alla ricostruzione e allo sviluppo post-conflitto attraverso aiuti umanitari e partecipazione diretta nella ricostruzione di infrastrutture, in particolare strade scuole e ospedali. Emblematica è la costruzione dell’aeroporto internazionale di Mogadiscio, inaugurato da un volo della Turkish Airlines, il primo ad atterrare nella capitale somala dopo più di vent’anni. Gli aiuti umanitari della Turchia vengono gestiti principalmente da imprese, associazioni o fondazioni turche che collaborano alla messa in atto dei progetti di ricostruzione e di sviluppo, permettendo un miglioramento delle condizioni di vita della società somala ed espandendo il raggio d’azione di imprenditori e aziende turche in Somalia.

Riconoscendo Mogadiscio come capitale, l’azione turca rimane concentrate nella zona della Repubblica Federale della Somalia (RFS), nata nel 2012 a seguito di lunghe consultazioni che hanno portato alla creazione di un’assemblea costituente di transizione. La RFS è solo una delle entità territoriali risultate dal conflitto: oltre ad essa, infatti sono presenti le aree del Somaliland e del Puntland, autoproclamatesi indipendenti ma non riconosciute internazionalmente e i territori controllati dalle milizie di stampo islamista Harakat al-Shabaab al-Mujahidin, nota come al-Shabaab. Tuttavia, l’intervento turco non è totalmente assente nelle aree del Somaliland e del Puntland, dove porta avanti la ricostruzione di scuole, ospedali e porti.[6]

 

SSR e State-building

Dal punto di vista politico, in Somalia la rappresentanza turca opera per un rafforzamento del settore della sicurezza e delle istituzioni del governo federale. Il primo accordo in materia di cooperazione militare e securitaria è stato firmato nel 2009, seguito da altri tre che ne hanno aumentato lo spettro e il campo di azione. In un contesto fragile e caratterizzato da una decisa frammentazione politica e sociale, la creazione di un unico esercito nazionale che possa garantire il controllo del territorio è il perno su cui fanno leva le istituzioni del governo federale somalo. È infatti in quest’ambito che l’intervento turco assume la rilevanza che altri paesi non hanno, contribuendo con operazioni di Security Sector Reform (Riforma del Settore Sicurezza – SSR) a lungo termine. A differenza delle operazioni di SSR incorporate nelle missioni dell’Unione Africana, le operazioni turche hanno l’obiettivo di uniformare principalmente l’esercito somalo sotto un unico tipo di addestramento fornito in loco e non in paesi terzi. Le operazioni di SSR precedenti, infatti, riguardavano solo alcuni comparti dell’esercito o di sicurezza interna e prevedevano un addestramento fuori dai confini somali, producendo discontinuità e ulteriore parcellizzazione della sicurezza.

Attraverso il campo TURKSOM, la più grande istallazione militare turca all’estero, l’esercito turco promuove un addestramento univoco diretto principalmente all’esercito considerato nel suo complesso. In grado di raggiungere più di diecimila unità, con il valore aggiunto di non essere legato a vincoli temporali come le operazioni di SSR della missione AMISOM, la missione TURKSOM permette agli ufficiali turchi di addestrare non solo l’esercito, ma anche altri comparti della sicurezza interna e i servizi segreti somali. L’addestramento di questi ultimi è possibile grazie alla diffusa e pervasiva presenza dell’intelligence turca, Milli Istihbarat Teşkilatı (MIT), essenziale per la prevenzione degli attacchi delle fazioni ostili al governo federale somalo e alla presenza turca.[7]
La rilevanza della Turchia, specialmente nell’ambito militare e di intelligence è divenuta palese sulla scena internazionale con la liberazione nel maggio 2020 di Silvia Aisha Romano, cooperante italiana tenuta in ostaggio per quasi due anni dalle milizie di al-Shabab.
Il ruolo della Turchia è stato apparentemente fondamentale nelle trattative con il gruppo islamista, dimostrando così una forte capacità di azione e una radicata presenza sul territorio.[8]

Per quanto non sia una base militare a tutti gli effetti, il campo d’addestramento turco rappresenta la potenziale affermazione della Turchia come attore militare nell’Africa orientale, in un punto fortemente strategico come il golfo di Aden, principale snodo dei traffici marittimi tra l’oceano Indiano e il Mediterraneo, non lontano dalle basi militari in Gibuti di USA e Cina. Tuttavia, più che la presenza militare in sé, sono l’addestramento e la fornitura di materiali bellici che legano il governo federale ad Ankara, che acquisisce un consistente potere negoziale nelle dinamiche interne.[9]

La cooperazione militare non è l’unica risorsa della Turchia per aumentare la sua sfera di influenza in Somalia, l’ampio utilizzo del soft power permette una maggiore diffusione del sistema culturale turco, specialmente attraverso l’istruzione, con la costruzione di scuole e l’offerta di borse di studio. Nelle scuole costruite grazie agli aiuti turchi, gestiti principalmente da fondazioni di ispirazione islamica, il programma scolastico riflette valori e argomenti coerenti con quelli diffusi dal ministero dell’Istruzione ad Ankara. Non è un caso dunque che in queste scuole come lingua straniera si studi il turco, che prepara gli studenti all’ottenimento di borse di studio per proseguire gli studi in Turchia. Alla critica di depauperare la popolazione somala delle sue menti, le autorità turche ribattono che l’obiettivo è quello di “formare i giovani somali affinché possano contribuire allo sviluppo del proprio paese”, contribuendo allo stesso tempo alla creazione di una generazione in grado di operare in un contesto di post-conflitto, ma anche di garantirsi una maggiore penetrazione all’interno della società somala.[10]

 

Interessi e criticità

La domanda che sorge spontanea a fronte della politica estera della Turchia in Africa e in Somalia in particolare è: perché? Qual è il tornaconto di uno stato che appare già come una potenza regionale tra il mediterraneo e l’Asia centrale?
L’apertura verso i paesi dell’Africa Sub-sahariana in gran parte rientra nei canoni della cooperazione internazionale “Sud-Sud”, tra paesi in via di sviluppo.
Uno dei canoni infatti, presuppone che la cooperazione sia conveniente in modo reciproco. Se per la Somalia gli aiuti e la presenza della Turchia sono parte essenziale per la ricostruzione post-conflitto, per Ankara la Somalia rappresenta una ghiotta opportunità per espandere il proprio mercato, che continua a crescere di anno in anno. Ad esempio, la costruzione di infrastrutture favorisce il miglioramento delle condizioni di vita e dell’accesso a servizi essenziali per la popolazione somala, ma garantisce alla Turchia una posizione privilegiata nello sfruttamento e gestione delle strutture stesse (porti, aeroporti, ecc.).[11]

La diplomazia umanitaria turca si basa su una narrativa della difesa degli individui apparentemente priva di intenzioni coloniali: ciò ha garantito alla Turchia non solo rilevanza all’interno dell’Unione Africana ma anche il sostegno di numerosi paesi africani all’interno delle organizzazioni internazionali, prima tra tutte quella delle Nazioni Unite (ONU). A livello internazionale infatti, la Turchia sembra intenzionata a sviluppare un sistema di alleanze che possano contribuire a renderla un attore sempre più influente su scala globale. L’appoggio dei paesi in cui la Turchia porta avanti progetti umanitari risulta vantaggioso per la Turchia, che potrà contare così sul sostegno crescente di numerosi paesi. Il beneficio reciproco si traduce però in un sostanziale vantaggio per la Turchia, in grado così di diffondere la propria influenza politica, economica e culturale.

Nonostante l’intervento turco venga dipinto come paritario, traspaiono molti aspetti che richiamano ad un approccio asimmetrico simile a quello adottato dai paesi europei. A livello pratico infatti, traspare dall’attitudine delle persone coinvolte (soprattutto gli imprenditori turchi legati alla borghesia medio-alta, filogovernativa e conservatrice) un atteggiamento di superiorità nei confronti della realtà locale. Ciò è intuibile soprattutto dalla narrativa e dalla terminologia utilizzata che è spesso identica a quella utilizzata dai colonizzatori europei: la distinzione tra ilkel e medeni (non civilizzato e civilizzato), che suppone il sistema valoriale e culturale turco superiore e degno di essere “esportato” all’estero; il definire bakir, vergine, il territorio e il mercato somalo, nella dicotomia del colonizzatore-maschio-bianco penetratore e della terra vergine da sottomettere.[12]

 

Conclusione

L’espansione della politica estera turca nell’Africa Sub-sahariana e in particolare in Somalia denota l’interesse della Turchia a diventare una potenza sempre più affermata tra i paesi in via di sviluppo, ergendosi a modello non solo economico ma anche culturale. La realizzazione di un sistema di paesi alleati, permette così ad Ankara di avere un peso maggiore all’interno delle istituzioni internazionali, rompendo con gli schemi tradizionali di una Turchia sporta verso l’Europa e verso l’alleanza atlantica della NATO. Anche in politica estera, la posizione assunta dal governo turco sembra essere quella della competizione con le altre potenze, soprattutto nel campo africano. Nelle sue operazioni in Somalia infatti, la Turchia si autoritrae come realtà antitetica alle potenze europee e al loro passato coloniale; tuttavia, pur presentandosi con la “coscienza pulita”, gli imprenditori e gli operatori turchi cadono in schemi simili a quelli che vengono criticati. Ciononostante, la ricezione positiva dell’influenza politica, economica e militare turca in Somalia lascia presagire una crescente normalizzazione e radicamento della presenza di Ankara in Africa come attore concorrenziale alle ex potenze coloniali, favorendo un cambiamento dei paradigmi di sfruttamento, alleanze e cooperazione.


Note

[1] Ozpek, B. B. 2014, “Turkish foreign policy after the ‘Arab Spring’: from agenda-setter state to agenda-entrepreneur state”, Israel Affairs, Volume 20, 2014 – Issue 3

[2] https://www.aa.com.tr/en/africa/-number-of-turkish-embassies-in-africa-rises-from-12-to-42/1619429

[3] Fonte: Turkish Statistical Institute (TurkStat)

[4] Murat Yeşiltaş (2013), “The Transformation of the Geopolitical Vision in Turkish Foreign Policy”, Turkish Studies, 14:4, 661-687

[5] Andalou Agency, ‘Turkey finalizes military training base in Somalia’, 1 October 2016.

[6] Sucuoglu, G. & Stearns, J. 2016, “Turkey in Somalia: Shifting Paradigms of Aid”, South African Institute of International Affairs, Research Report 24, November 2016

[7] Sucuoglu, G., Stearns, J. 2017, “South-South Cooperation and Peacebuilding: Turkey’s Involvement in Somalia”, South African Institute of International Affairs, Policy Insights 43, April 2017

[8] https://www.agi.it/estero/news/2020-05-11/ruolo-turchia-liberazione-silvia-romano-8579363/

[9] https://www.limesonline.com/cartaceo/una-base-a-gibuti-non-si-nega-quasi-a-nessuno

[10] Mehmet Ozkan & Serhat Orakci (2015) Viewpoint: “Turkey as a “political” actor in Africa – an assessment of Turkish involvement in Somalia”, Journal of Eastern African Studies, 9:2, 343-352

[11] Sheikh, S., Addow, Y. 2017, “Turkish Model in Somalia: Civilian Power Approach in State Building Process”, Somali Studies, Volume 2, pp. 31-59

[12] Gökhan Bacik & Isa Afacan (2013), “Turkey Discovers Sub-Saharan Africa: The Critical Role of Agents in the Construction of Turkish Foreign-Policy Discourse”, Turkish Studies, 14:3, 483-502


Foto copertina:Immagine web. Ispi


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