Un’analisi del procedimento attraverso il quale la Corte internazionale di giustizia rileva il genocidio per i massacri di Srebrenica.
A cura di Alice Stillone
Al fine di analizzare il procedimento seguito dalla Corte internazionale di giustizia (CIG) volto all’accertamento giudiziale del crimine di genocidio a Srebrenica, è necessario accennare al contesto caratterizzante la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia (SFRY) nell’ultimo decennio del XX secolo. Negli anni ’90 del secolo scorso, la SFRY, ai tempi composta da Bosnia ed Erzegovina, Croazia, Macedonia, Montenegro, Serbia e Slovenia, va incontro alla dissoluzione. Al momento della disintegrazione, la porzione dei Serbi presenti nella regione spingeva verso l’annessione alla Serbia ed infatti, dopo la secessione della Bosnia, cominciarono immediatamente i primi conflitti armati tra i differenti gruppi etnici[1].
Tramite il ricorso presentato davanti alla CIG il 20 marzo 1993, la Bosnia, ricorrente, accusava la FRY – composta dalle repubbliche di Serbia e Montenegro e successore legale della SFRY a seguito della dissoluzione – di aver violato e di continuare a violare nel territorio della Bosnia e nel periodo compreso tra il 1992 ed il 1995, gli obblighi legali derivanti dalla Convenzione sul genocidio del dicembre 1948[2]. Dopo aver identificato come unica convenuta a giudizio la Serbia, aver individuato il gruppo protetto nei musulmani di Bosnia ed aver fondato la giurisdizione sulla base dell’art. IX della Convenzione sul genocidio contenente la clausola compromissoria, la Corte analizza i fatti riportati dalla ricorrente per valutare la presenza del crimine di genocidio.
Ai sensi dell’art. II della Convenzione, il crimine di genocidio è definito come una delle condotte elencate nell’articolo – uccisione di membri del gruppo, lesioni gravi all’integrità fisica o mentale dei membri del gruppo, sottoposizione deliberata del gruppo a condizioni intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale, misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo, trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro – commesse con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso.
Dalla lettura di tale disposizione deriva che per poter accertare la presenza del crimine di genocidio, è necessario rilevare contestualmente l’actus reus, ossia l’elemento materiale e quindi la perpetrazione di una delle cinque condotte elencate, ed il dolus specialis, cioè l’intento specifico del perpetratore di distruggere, in tutto o in parte, un dato gruppo protetto.
Nel caso specifico la ricorrente sosteneva che nella finestra temporale suddetta fosse stato commesso il crimine di genocidio nel territorio della Bosnia da parte dell’esercito della Repubblica dei serbi di Bosnia, costituitasi nel territorio bosniaco, e che la responsabilità di tale crimine, visti i legami di natura finanziaria e amministrativa tra la Repubblica dei serbi di Bosnia e la Serbia, potesse essere attribuita alla convenuta a giudizio.
La CIG procede analizzando i fatti presentati dalla Bosnia e valutando la presenza dell’actus reus e del dolus specialis. In particolare i giudici dell’Aia ritengono che la ricorrente abbia presentato prove sufficienti per rilevare tre delle condotte costituenti l’elemento materiale del genocidio, di cui all’art. II lett. a, b, c, tuttavia conclude che il dolus specialis necessario ad accertare il crimine di genocidio, possa essere rilevato solamente in relazione ai fatti presentati dalla Bosnia relativi ai massacri di Srebrenica.
La situazione presso Srebrenica, enclave musulmana nel territorio bosniaco, nel mese di luglio 1995 era estremamente tesa. Nonostante il Consiglio di Sicurezza dell’Onu avesse emanato una risoluzione che imponeva il divieto di attacchi armati o di altre ostilità militari presso la città, alcune unità dell’esercito dei Serbi di Bosnia (VRS) procedettero all’attacco. Ciò causò in pochi giorni la dispersione di circa venticinquemila musulmani bosniaci che vivevano nell’area, molti dei quali donne, bambini ed anziani che vennero caricati in autobus delle forze serbo bosniache e trasportati fuori da Srebrenica. La restante parte dei membri del gruppo vittima, cioè gli uomini in età da combattimento, vennero fatti prigionieri, detenuti in condizioni disumane e successivamente uccisi [3]. Nel frattempo un compound olandese, precedentemente posizionatosi nell’enclave, l’11 luglio aveva indirizzato i rifugiati presso il quartier generale dell’UNPROFOR, non riuscendo tuttavia ad evitare che alcuni dei musulmani si disperdessero tra i boschi e venissero uccisi dalle forze VRS. La Corte, analizzando i fatti e riprendendo quanto già rilevato dalla Camera dell’International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia (ICTY) nei casi Kristć e Blagojević, ritiene che si siano verificate le prime due condotte elencate all’art. II – uccisione di membri del gruppo e lesioni gravi alla loro integrità fisica o mentale – e che pertanto l’actus reus di genocidio fosse rilevabile.
Per ciò che attiene alla questione dell’intento specifico, la Corte riprende molta della giurisprudenza dell’ICTY, in particolare il caso Kristić in cui i giudici del tribunale erano convinti dell’esistenza dell’intento specifico nelle azioni dell’imputato. La Camera del tribunale ha infatti rilevato che mentre inizialmente l’esercito dei serbi di Bosnia aveva come obiettivo i bosniaci combattenti, a partire da un certo punto le forze serbe smisero di distinguere i combattenti dai civili catturando e uccidendo i musulmani indiscriminatamente.
Pertanto, richiamando la definizione di genocidio e riprendendo quanto già rilevato dall’ICTY, la Corte conclude che gli atti commessi a Srebrenica integrino l’art. II lett. a, b della Convenzione sul genocidio e che questi siano stati commessi con l’intento specifico di distruggere il gruppo dei musulmani di Bosnia in quanto tale. Tali atti costituenti genocidio, furono perpetrati dai membri dell’esercito della Repubblica serba di Bosnia a partire dal 13 luglio presso Srebrenica e nei suoi dintorni.
Per concludere, dopo aver analizzato la complessità del procedimento di accertamento giudiziale del genocidio subordinato alla presenza dei due elementi costituenti il crimine, la Corte si trova ad affrontare la questione altrettanto onerosa dell’attribuzione della responsabilità internazionale degli atti commessi alla convenuta a giudizio, la Serbia. Ai sensi del progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati del 2001, i giudici dell’Aia non riescono a rilevare che gli atti di genocidio commessi dall’esercito dei serbi di Bosnia siano attribuibili alla Serbia.
In ultima analisi, la Corte rileverà responsabilità internazionale della convenuta unicamente per aver violato gli obblighi di prevenzione e repressione sanciti all’art. I della Convenzione. La Serbia, infatti, non potendo non essere a conoscenza degli atti perpetrati in Bosnia dai serbi di Bosnia, non ha fatto nulla per prevenire che il genocidio venisse commesso e né tantomeno per cooperare con l’ICTY incaricato di processare i criminali responsabili.
Note
[1] W. A. SCHABAS, Application of the Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide Case (Bosnia and Herzegovina v Serbia and Montenegro), in Oxford Public International law, 2008, p. 2.
[2] Cfr. Application of the convention on the prevention and punishment of the crime of genocide, Bosnia and Herzegovina v. Serbia and Montenegro, Judgement of 26 February 2007, in ICJ Reports, par. 64.
[3] Cfr. ICTY, Judgement of 02 August 2001, Prosecutor v. Kristić, (Case IT-98-33-T), par. 1.Si calcola che nei giorni in cui avvenne il massacro, vennero uccisi circa settemila uomini musulmani tra i 16 ed i 60-70 anni precedentemente separati da donne e bambini.
Foto copertina: Memoriale e cimitero di Srebrenica-Potočari per le vittime del genocidio del 1995