Il caso Khlaifia e altri c. Italia (sentenza del 15.12.2016, Grande Camera, CEDU).
SOMMARIO: Introduzione – 1. I fatti di causa – 2. Detenzione de facto e garanzia dell’habeas corpus – 3.Riflessioni finali.
Introduzione – Nell’ultimo decennio Lampedusa è divenuta terra di approdo, di transizione e di “non ritorno” per migliaia di migranti. L’emergenza umanitaria che da anni caratterizza l’isola al centro del Mediterraneo rappresenta una sfida che le autorità nazionali ed internazionali ancora fanno fatica a fronteggiare.
Tra la fine del 2010 e gli inizi del 2011, a seguito delle agitazioni e delle rivolte legate alla Primavera araba, il numero degli sbarchi sull’isola ha conosciuto un incremento quasi storico ed il centro di soccorso e di prima accoglienza (CSPA) di Contrada Imbriacola è divenuto oggetto dell’attenzione pubblica mondiale. Tra le vicende si ricordano quelle drammatiche raccontate dalla stampa di tutto il mondo, ossia la violenta rivolta tra i migranti che si concluse con l’incendio del centro di accoglienza nel settembre 2011 e le disumane modalità di disinfestazione antiscabbia cui i migranti, nello stesso centro, vennero sottoposti nell’inverno del 2013[1].
In tale contesto si sviluppa il caso Khlaifia e altri c. Italia che, in seguito al ricorso ex art 43 CEDU del Governo italiano[2], vede la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo[3] pronunciarsi, in parziale riforma della sentenza resa dalla Seconda Sezione[4], sulle condizioni del centro di accoglienza di Lampedusa e delle imbarcazioni Vincent e Audace ormeggiate nel Porto di Palermo in cui i migranti venivano ospitati prima di essere rimpatriati[5].
Molteplici le questioni affrontate – dalla Seconda Sezione prima e dalla Grande Camera poi – in relazione alle quali scaturisce una profonda disamina della disciplina in materia di immigrazione: dal “trattenimento” dei migranti nei centri di accoglienza all’esame individuale della loro “condizione”, dal controllo giurisprudenziale dei respingimenti all’efficacia sospensiva dei ricorsi contro gli stessi[6]. I ricorrenti denunciavano, infatti, la violazione di più norme convenzionali: l’art. 5 che garantisce il diritto alla libertà e alla sicurezza, l’art. 3 che pone l’assoluto divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti, l’art. 13 che tutela il diritto ad un ricorso effettivo e l’art. 4, Protocollo n. 4 alla CEDU, che consacra il generale divieto di espulsioni collettive[7].
In questa sede, l’attenzione si rivolgerà soltanto ad una delle questioni sottoposte al vaglio della Seconda Sezione ed accolta poi anche dalla Grande Camera, ossia la lesione del diritto alla libertà personale e alla sicurezza sia in relazione alla detenzione de facto subita dai ricorrenti che alla lesione delle c.d. garanzie dell’habeas corpus (art. 5, parr. 1-2-4, CEDU).
1. I fatti di causa – Tre cittadini tunisini, i sigg. Khlaifia, Tabal e Sfar, imbarcati su navi di fortuna con altre persone, lasciarono la Tunisia tra 16 settembre 2011 (il primo) e il 17 settembre 2011 (il secondo e il terzo). Intercettati nelle acque territoriali e poi scortati dalla Guardia Costiera, il giorno dopo gli stessi approdarono sull’isola di Lampedusa dove, trasferiti nel CSPA di Contrada Imbriacola, ricevevano i primi soccorsi e venivano identificati dalle autorità all’uopo proposte.
Durante i giorni trascorsi nel centro, ad avviso dei ricorrenti, le condizioni di accoglienza non erano state delle migliori, difatti dormivano sul pavimento, consumavano i pasti all’esterno seduti per terra e, soprattutto, venivano sorvegliati dalle forze dell’ordine che gli impedivano ogni contatto con l’esterno[8].
La permanenza nel centro non durò a lungo a causa della nota rivolta del 20 settembre 2011 che vide il CSPA devastato da un incendio appiccato dagli stessi occupanti che, tra l’altro, continuarono le proteste il giorno dopo invadendo le strade dell’isola. Ben presto le forze dell’ordine riportarono la situazione alla normalità e trasferirono alcuni migranti, tra cui i tre cittadini tunisini, nella città di Palermo; questi ultimi, prima di essere rimpatriati, rispettivamente il 27 e 29 settembre, con decreto del Questore di Agrigento, venivano ospitati a bordo delle navi Vincent e Audacia ormeggiate nel porto palermitano dove – in base alle loro dichiarazioni – avevano dormito sul pavimento, non sempre avevano accesso alla toilette, venivano maltrattati dai funzionari di pubblica sicurezza e ancora una volta venivano limitati nella loro libertà poiché potevano uscire sui balconi solo per pochi minuti al giorno[9].
Prima di salire sugli aerei ed essere rimpatriati, i sigg. Khlaifia, Tabal e Sfar tuttavia erano stati ricevuti dal console della Tunisia che conformemente agli accordi italo-tunisini aveva registrato i loro dati anagrafici[10].
Due dei ricorrenti impugnarono la decisione del Questore innanzi al Giudice di Pace di Agrigento il quale, pur prendendo atto che l’art. 10 del D.lgs. 286/1998 non indicasse alcun termine per l’adozione dei decreti di respingimento, annullava i suddetti provvedimenti sottolineando che quando un atto limita la libertà del destinatario deve essere emanato in un tempo ragionevole altrimenti si verifica “un trattenimento de facto del migrante, in assenza di una decisione motivata, contrario alla Costituzione”[11].
2. Detenzione de facto e garanzia dell’habeas corpus – Tra le violazioni più significative che la Grande Camera ha dovuto accertare, la lesione dell’art. 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) rappresenta sicuramente una delle questioni più controverse, su cui ancora si discute a distanza di poco più di un anno dalla pronuncia e dopo l’introduzione della prima disciplina sugli hotspot. E’ utile qui precisare che, nel caso in esame, il problema della garanzia della libertà personale si è posto nel momento della c.d. primissima accoglienza, cioè all’arrivo del migrante; questione diversa da quella relativa al trattenimento nei centri di identificazione ed espulsione che, ad ogni modo, solleva perplessità circa l’effettiva garanzia dell’habeas corpus[12].
L’emergenza umanitaria legata all’esodo dei migranti unita alla necessità di assicurare la sicurezza e “controllare i confini”, in un clima oggi troppo spesso caratterizzato da eventi che seminano il terrore, non può porre in secondo piano il rispetto di una delle libertà da cui discende l’esercizio di tutte le altre libertà, né giustificare la sua lesione. Già nel lontano 2001, la Corte Costituzionale italiana, quasi come un presagio, sottolineava che “per quanto gli interessi pubblici incidenti sulla materia dell’immigrazione siano molteplici e per quanto possano essere percepiti come gravi i problemi di sicurezza non può risultarne minimamente scalfito il carattere universale della libertà personale che … spetta ai singoli … in quanto essere umani”[13].
Nel caso Khlaifia e altri la prima lesione lamentata dai ricorrenti riguarda l’art. 5, par. 1, CEDU che stabilisce appunto che «ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza» e che «nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi … e nei modi previsti dalla legge». Tra «i casi» la Convenzione, alla lett. f), enunciando quindi una delle eccezioni alla regola, prevede che nell’ambito del controllo dell’immigrazione da parte di uno Stato si possa giustificare la detenzione del migrante laddove la stessa sia ragionevolmente necessaria oppure qualora sia in corso una procedura per l’espulsione o l’estradizione del soggetto privato della libertà[14].
In supporto a tale lesione, i ricorrenti se, da un lato, riconoscevano il centro di Lampedusa come struttura adibita al primo soccorso e alla prima accoglienza, dall’altro sottolineavano che la stessa di fatto era stata per loro un vero e proprio luogo di detenzione. Invero, gli stessi erano stati trattenuti in luoghi chiusi dove venivano perennemente sorvegliati dagli ufficiali di pubblica sicurezza e non potevano in nessuna occasione allontanarsi. Lo stesso era avvenuto, prima del rimpatrio, durante la permanenza a bordo delle navi Vincent e Audacia nel porto di Palermo. Alla mancanza di movimento per un periodo piuttosto prolungato si associava, inoltre, l’impossibilità di comunicare con l’esterno[15]. Il tutto avveniva in assenza di qualsivoglia garanzia posta a tutela della libertà personale ex art. 13 Cost.
Tali circostanze non venivano smentite dal Governo che, a sua discolpa, si limitava ad invocare la situazione di emergenza che aveva caratterizzato l’isola in quei giorni.
Dal canto suo, la Grande Camera dopo aver ribadito che l’art. 5 CEDU sancisce il diritto fondamentale dell’individuo a veder proteggere la sua libertà dall’arbitrarietà, affermava che solo soddisfacendo il principio generale della certezza del diritto poteva giustificarsi una intromissione nella sfera dell’individuo, per cui – aggiungeva che – “è essenziale che le condizioni di privazione della libertà in virtù del diritto interno siano definite chiaramente e che la stessa legge sia prevedibile nella sua applicazione”.
In virtù di tale principio la Corte iniziava la ricerca di una disciplina che per il caso di specie potesse costituire la base giuridica della privazione della libertà subita dai tre cittadini tunisini. Ebbene non ritrovandola nell’art. 14 del Testo unico sull’immigrazione[16], esaminava l’art. 10 dello stesso D.lgs. 286/1998[17] che, ad avviso della stessa, non conteneva alcun riferimento circa un trattenimento o ad altre misure privative della libertà da adottarsi nei confronti dei migranti temporaneamente ammessi nel territorio italiano per motivi di pubblico soccorso[18].
Sulla base di tali elementi, la Grande Camera non poteva non concludere per la violazione della norma convenzionale sottolineando la presenza di una vera e propria “ambiguità legislativa” e, dunque, ammonendo l’ordinamento interno: le norme italiane in materia di trattenimento degli stranieri in situazione di irregolarità, mancando di precisione, aprono la strada a “situazioni di privazione della liberà de facto, in quanto il trattenimento in un CSPA sfugge al controllo dell’autorità giudiziaria”.
Ad avviso della Corte, non rilevava la circostanza che l’ordinamento italiano si trovasse in una situazione di “crisi umanitaria” ed avesse dichiarato lo stato di emergenza sull’isola di Lampedusa anche facendo appello alla solidarietà degli Stati membri dell’Unione Europea[19]. Anzi, ribadiva che l’ospitalità che i migranti ricevono nel CSPA, costituendo una forma di primo soccorso, ha lo scopo di stabilire la loro identità e la legittimità della loro presenza sul territorio italiano, pertanto protrarre tale soggiorno per un tempo particolarmente lungo equivaleva a sottoporre il migrante ad un trattenimento/detenzione illegale poiché non definito dalla legge attraverso una procedura ad hoc, non autorizzato dall’autorità giudiziaria e, infine, non sottoposto al suo controllo.
In relazione all’art. 5 CEDU, par. 2[20], la Corte nel concludere per la sua lesione si limitava ad affermare che tale garanzia posta a tutela della libertà personale ha carattere “elementare” in quanto “obbliga a segnalare alla persona interessata, in un linguaggio semplice e accessibile per quest’ultima (ed in un termine breve), i motivi giuridici e fattuali della sua privazione della libertà, affinché essa possa criticarne la legittimità dinanzi ad un tribunale in virtù del paragrafo 4[21]”.
Ebbene, nel caso in esame, i ricorrenti erano stati informati dagli agenti di polizia, con l’ausilio di interpreti e mediatori, soltanto della loro condizione di irregolarità e del fatto di essere stati ammessi sul territorio italiano per ragioni di pubblico soccorso. Tale “informativa” non poteva né integrare né confondersi con la suddetta garanzia dell’habeas corpus che, diversamente, attiene ai motivi in fatto e in diritto che fondano la privazione della libertà. In aggiunta, i cittadini tunisini avevano ricevuto i decreti di respingimento solo all’atto del loro rinvio, cioè alla fine del periodo di “ospitalità”, va da sé che gli stessi non fossero in grado di integrare la garanzia posta a tutela della loro libertà[22].
Infine, per quel che riguarda il par. 4 dell’art. 5 CEDU[23] che garantisce il controllo giurisdizionale sulla legittimità della detenzione, la Grande Camera, una volta accertata la lesione del par. 2, non poteva non concludere anche per la sua violazione. Nel caso Khlaifia, i ricorrenti non solo non erano stati informati delle ragioni del loro trattenimento, non erano neppure stati posti nella condizione di ottenere una decisione giudiziaria sulla regolarità dello stesso.
Pertanto, se è vero come è vero che i tre cittadini tunisini erano stati privati della libertà in maniera illegittima durante il soggiorno nel centro di accoglienza di Lampedusa, è altresì vero che agli stessi era stata negata l’ennesima garanzia dell’habeas corpus: quella derivante, appunto, dal controllo da parte di un giudice competente “per statuire sulla legittimità della detenzione e ordinare la liberazione in caso di detenzione illegittima”[24].
3. Riflessioni finali – Dal caso Khlaifia e altri emerge un quadro giuridico in materia di prima accoglienza lacunoso, assai frammentato e lesivo dei diritti fondamentali. Il mancato rispetto dei obblighi informativi circa la permanenza nelle strutture di prima accoglienza, l’assenza di una disciplina relativa ai tempi di “ospitalità” ed, infine, il realizzarsi di una forma di detenzione de facto priva di basi giuridiche sembrano riguardare in particolar modo e, nel caso di specie, i migranti economici.
Per quanto concerne i richiedenti la protezione internazionale, la previsione dell’art. 14 del T.U. sull’immigrazione e la c.d. Roadmap italiana (prevedendo che essi vengano registrati e poi trasferiti nelle strutture di accoglienza entro 24-48 ore[25]) paiono ovviare, anche se con non poche riserve, alle questioni sollevate dalla pronuncia della Grande Camera.
E’ utile ricordare che la nascita dei CSPA risale alla Legge Puglia che con la creazione di tali strutture dedicate al soccorso e al sostentamento dei migranti approdati sulle coste italiane in attesa di identificazione e/o espulsione, nel lontano 1995, si poneva l’obiettivo di superare le emergenze legate all’immigrazione[26]. Emergenze, come si è visto, mai ricondotte alla normalità ed, al contrario, esasperate nel corso degli ultimi anni.
Dal canto suo, l’Unione europea con l’Agenda europea sull’immigrazione nel maggio 2015 ha cercato di regolamentare i c.d. punti di crisi, istituendo appositi teams negli Stati frontiera (Italia e Grecia) per controllare i flussi migratori e facilitare la selezione tra i richiedenti asilo e i migrati economici[27]; ma nulla ha previsto al fine di eliminare le criticità legate all’abuso della detenzione de facto e alla violazione degli obblighi informativi da parte delle autorità.
L’esigenza di adeguare la disciplina italiana a quella europea ha spinto l’ordinamento ad introdurre una norma che desse una base giuridica ai nuovi hotspot e cercasse, inoltre, di superare le criticità connesse alla violazione dei diritti umani all’interno delle strutture di prima accoglienza.
A ben vedere la novella – l’art. 10 ter del T.U. sull’immigrazione introdotto con il noto Decreto Minniti[28] – ha generato soltanto illusioni. Difatti se, da un lato, ha stabilito che «lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti …»; ha disciplinato le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico; ha introdotto un obbligo di informazione circa la procedura di protezione internazionale, il programma di ricollocazione in altri Stati Membri dell’Unione europea e la possibilità di ricorso al rimpatrio volontario assistito; ha rinviato alla previsione del trattenimento di cui all’art. 14 in caso di rifiuto reiterato dello straniero di sottoporsi ai rilievi sull’immigrazione; dall’altro, ha sostanzialmente trascurato le incongruenze del sistema italiano di cui sopra, ossia quelle relative alla necessità di assicurare il rispetto di una delle libertà fondamentali dell’individuo, finendo così per deludere le aspettative e risolversi in “un’occasione mancata”[29].
[1] Cfr. MASERA L., Il “caso Lampedusa”: una violazione sistemica del diritto alla libertà personale, in Diritti umani e internazionale, fasc. 2014, pp. 83 ss..
[2] In virtù della norma in questione, entro il termine di tre mesi che decorrono dalla data della sentenza di una Camera, «ogni parte della controversia, può in casi eccezionali, chiedere che il caso sia rinviato alla Grande Camera».
[3] Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, sentenza del 15 dicembre 2016, caso Khlaifia e altri c. Italia, ric. 16483/12.
[4] Corte europea dei diritti dell’uomo, Seconda Sezione, sentenza dell’1 settembre 2015, Khlaifia e altri c. Italia, ric. n. 16483/12.
[5] Per un confronto tra le due pronunce si rinvia a SACCUCCI A., I «ripensamenti» della Corte europea sul caso Khlaifia: il divieto di espulsioni collettive «alla prova» delle situazioni di emergenza umanitaria, in Rivista di diritto internazionale, fasc. 2, 2017, p. 552.
[6] Su tali questioni si rinvia a BONETTI P., Khlaifia contro Italia: l’illegittimità di norme e prassi italiane sui respingimenti e trattenimenti degli stranieri, in Quaderni costituzionali, fasc. 1, 2017, pp. 176 e ss.; MATONTI A. I., Garanzie procedurali derivanti dall’art. 4 del Protocollo 4 CEDU: il caso Khlaifia”, in Diritti umani e diritto internazionale, fasc. 2, 2017, pp. 523 ss..
[7] Per un commento, cfr. BARTOLE S., DE SENA P., ZAGREBELSKY V., Commentario breve alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, CEDAM, 2012.
[8] Cfr. caso Khlaifia e altri c. Italia, cit., §§ 11-13.
[9] Cfr. Ivi, §§ 14-16.
[10] Tali accordi venivano conclusi dal Governo italiano e quello tunisino il 5 aprile 2011 allo scopo di controllare l’immigrazione irregolare proveniente dalla Tunisia. Gli stessi non erano stati resi pubblici, tuttavia, secondo le indicazioni del Governo, la Tunisia si impegnava a controllare le sue frontiere ed accettare il ritorno immediato dei suoi cittadini che potevano essere rimpatriati attraverso procedure semplificate, ossia in seguito alla sola identificazione degli stessi da parte del Consolato tunisino in Italia, cfr. Ivi, § 36.
[11] Cfr. Ivi, § 31.
[12] Sul punto, cfr. DI MARTINO A., La disciplina dei C.I.E. è incostituzionale, in Diritto penale contemporaneo, 11 maggio 2012.
[13] Cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 105/2001.
[14] Cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, Grande Camera, A. e altri c. Regno Unito, sentenza del 19 febbraio 2009, ric. n. 3455, §§ 162-163.
[15] Cfr. caso Khlaifia e altri c. Italia, cit., §§ 61-62.
[16] In virtù di tale norma si disciplina l’unica forma di detenzione legale dello straniero in situazione irregolare in attesa di rinvio è il CIE. La privazione della libertà, in tal caso, è assistita da un controllo giurisdizionale (discutibile) ossia dalla convalida del provvedimento amministrativo di trattenimento da parte del giudice di pace.
[17] La norma in questione stabilisce che «1. La polizia di frontiera respinge gli stranieri che si presentano ai valichi di frontiera senza avere i requisiti richiesti dal presente testo unico per l’ingresso nel territorio dello Stato. 2. Il respingimento con accompagnamento alla frontiera è altresì disposto dal questore nei confronti degli stranieri: a) che entrando nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli di frontiera, sono fermati all’ingresso o subito dopo; b) che, nelle circostanze di cui al comma 1, sono stati temporaneamente ammessi nel territorio per necessità di pubblico soccorso. (…) 4. Le disposizioni dei commi 1 [e] 2 (…) non si applicano nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l’asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato, ovvero l’adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari».
[18] Cfr. caso Khlaifia e altri c. Italia, cit., §§ 97-101.
[19] Cfr. Ivi, § 106.
[20] L’art. 5 CEDU, par. 2, stabilisce che «ogni persona arrestata deve essere informata, al più presto e in una lingua a lei comprensibile, dei motivi dell’arresto e di ogni accusa formulata a suo carico».
[21] Cfr. caso Khlaifia e altri c. Italia, cit., § 115.
[22] Cfr. Ivi, §§ 109-122.
[23] La norma stabilisce che «ogni persona privata della libertà mediante arresto o detenzione ha il diritto di presentare un ricorso ad un tribunale, affinché decida entro breve termine sulla legittimità della sua detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegittima»}.
[24]{Cfr. caso Khlaifia e altri c. Italia, cit., § 128}.
[25] Tale tabella di marcia è stata elaborata in virtù dell’art. 8 della Proposta di decisione del Consiglio che istituisce misure provvisorie in materia di protezione internazionale a beneficio di Italia e Grecia presentata dalla Commissione e sulla quale il Consiglio GAI ha raggiunto un orientamento generale il 20.07.2015. Il testo è consultabile su www.meltingpoi.org . per approfondimenti si rinvia a LEONE C., La disciplina degli hotspot nel nuovo art. 10 ter del D.Lgs. 286/98: un’occasione mancata, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, fasc. 2, 2017, p. 18}.
[26]{D. L. n. 541/1995, convertito in L. n. 563/1995}.
[27]{In virtù del c.d. metodo della cooperazione amministrativa, nei punti interessati dall’approdo dei migranti, i Paesi vengono così coadiuvati da una serie di organi composti da funzionari degli Stati Membri nonché dal personale dell’Ufficio europeo di sostegno per l’Asilo (EASO), di Frontex e di Europol, cfr. SAVINO M., La crisi dei confini, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, fasc. 3, 2016, pp. 739 ss .
[28]{Art. 17, D.L. n. 13/2007, convertito in L. n. 46/2017}.
[29]{LEONE C., La disciplina degli hotspot nel nuovo art. 10 ter del D.Lgs. 286/98: un’occasione mancata, cit., p. 1}.