La funzione primaria della responsabilità civile, all’interno del nostro ordinamento, è stata storicamente ravvisata nel ristoro, a carico del danneggiante, della situazione giuridica lesa del danneggiato. Ciò lo si rinviene sia dal tenore letterale dell’art. 1223 c.c., in merito alla responsabilità contrattuale, sia dell’art. 2043 c.c., per quanto concerne invece la responsabilità extracontrattuale o aquiliana.


A cura di Dario Giovanni Zammuto

Differente risulta essere, invece, lo scopo perseguito dall’ordinamento giuridico dei sistemi di common law e, in particolare, quello del sistema statunitense, dove è affidato alla responsabilità civile non solo il compito di riparare al danno causato (in ossequio al principio, riconosciuto in Italia, del neminem ledere) ma anche quello di punire l’autore della condotta lesiva.

Introduzione

Partendo da tali presupposti, la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, si è trovata a dover affrontare un tema alquanto spinoso, ossia, se concedere o meno la delibazione delle sentenze straniere riguardanti il pagamento dei c.d. danni punitivi (punitive demages). Tale delibazione, di fatto, consentirebbe alle sentenze pronunciate da Autorità Giudiziarie estere di produrre effetti sul nostro territorio condannando al pagamento di una somma di denaro quantitativamente superiore rispetto a quella che potrebbe essere prevista per il semplice risarcimento del danno. Trovata risposta a questo interrogativo, occorrerà successivamente stabilire (se e) a quali limiti possa essere concessa l’esecuzione della cosa giudicata.

La recente prassi giurisprudenziale indirizza le Corti, adite alla delibazione di sentenze straniere, all’accertamento della natura della responsabilità civile oggetto della sentenza allo scopo di individuarne eventuali componenti punitive a carico della parte soccombente. Laddove tale verifica avesse esito positivo, questa non potrebbe trovare applicazione nel nostro ordinamento a causa del suo contrasto con l’ordine pubblico.

Su tali argomenti, si è espressa da ultimo la Corte di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza 7 febbraio 2017, n. 16601, a seguito di ordinanza di remissione in data 16 maggio 2016, n. 9978, emessa dalla Sezione I della Corte di legittimità.

 

Il fatto

 In seguito a un incidente durante una gara di motocross, un motociclista statunitense promuove causa nei confronti della società distributrice, avente sede legale in Florida, eccependo vizi di produzione del casco indossato, prodotto da altra società, quest’ultima avente sede legale in Italia.

Nelle more del giudizio statunitense, la società distributrice addiviene ad un accordo transattivo con il danneggiato obbligandosi a corrispondere a quest’ultimo un’ingente somma di danaro, sia a titolo di risarcimento che a titolo punitivo, in considerazione di una alquanto probabile soccombenza. Di tale transazione, viene informata anche la produttrice, che tuttavia nulla manifesta in senso di opposizione.

Successivamente, la società distributrice agisce in giudizio, contro la produttrice, dinnanzi alla Corte americana chiedendo la refusione dei costi. Risultando vittoriosa, chiede la delibazione della sentenza americana alla Corte di Appello di Venezia, ove trova l’accoglimento della sua domanda. Avverso la sentenza di delibazione, la società italiana promuove ricorso per Cassazione adducendo, nella sentenza di condanna al pagamento emessa dall’autorità statunitense, la presenza di una forte componente punitiva.

Più nel dettaglio, il ricorso è basato su tre motivi:

  1. violazione dell’art. 64 della L. 218/95 in quanto la sentenza delibata risulta contraria all’ordine pubblico. Precisamente, il ricorrente adduce che la transazione intercorsa tra la distributrice ed il danneggiato si basi sull’istituto del potential liability test, in forza del quale, a seguito di un esame prognostico sull’esito della causa, il distributore può addivenire ad un accordo col danneggiato. In tale ipotesi, il produttore si ritrova dinnanzi a un bivio: accettare la transazione posta in essere tra il distributore ed il danneggiato (con ciò che ne consegue) o prendere le difese in giudizio del distributore. Tuttavia, l’accordo intercorso non è stato oggetto di un giudizio di fondatezza da parte di alcuna autorità, sicché resta dubbia l’alta probabilità di soccombenza, nonché il necessario spiegamento di effetti anche nei confronti del produttore. Tutto ciò premesso, si assisterebbe ad una violazione dei principi dell’equo processo, del diritto alla difesa e al contraddittorio nonché a quelli di relatività dei contratti ex 1304 c.c. e del giudicato, principi fondanti dell’ordine pubblico;
  2. erronea interpretazione dei fatti inerenti all’aver profittato dell’accordo stipulato tra la distributrice ed il danneggiato, nonché all’effettiva analisi circa la sussistenza di responsabilità anche del produttore. Come si evince, la prima parte del secondo motivo di ricorso è strettamente collegato alla prima motivazione in quanto avente come fonte normativa lo stesso art. 1304 c.c.;
  3. violazione dell’art. 64 della L. 218/95 in quanto la sentenza delibata prevede un indennizzo al danneggiato anche a titolo di danni punitivi e quindi, come tali, contrari all’ordine pubblico.

La Prima Sezione della Cassazione, interrogandosi sull’attualità del divieto di delibazione delle sentenza di condanna al pagamento dei danni punitivi, rimette la causa alle Sezioni Unite con ordinanza n. 9978/2016.

 

Punitive demages e rapporto con il nostro ordinamento

 

Per meglio comprendere la portata della sentenza qui in analisi, giova prima prendere in analisi la disciplina dei danni punitivi nell’ordinamento statunitense e come questa si rapporta con il nostro ordinamento giuridico.

La sanzione civile prevista in tutti i sistemi di common law risulta essere suddivisa, nella gran parte dei casi, in due categorie: quella dei compensatory demages, avente funzione risarcitoria/riparatoria, e quella dei punitive demages, avente funzione afflittiva e punitiva.

L’intervento dell’una o dell’altra sanzione è subordinata alla gravità dell’offesa arrecata al danneggiato, nonché all’elemento soggettivo della condotta operata dal danneggiante talché solo in caso di condotta dolosa – o gravemente colposa – (si parla al riguardo di malice o gross negligence) si potrà fare ricorso alla categoria dei danni punitivi. La loro natura punitiva, quindi, in quanto volta sia alla repressione di condotte gravemente lesive degli interessi giuridici-economici dei consociati sia a «scoraggiare la ripetizione di comportamenti riprovevoli»[1], giustifica la condanna del danneggiante, che abbia agito dolosamente o con grave colpa, al pagamento di una somma, a favore del danneggiato, il cui valore sia superiore a quello del danno subito, «superando la deterrence propria del diritto privato secondo una logica retributivo-sanzionatoria importata dal diritto penale»[2].

Parte della dottrina si è adoperata a ricercare le ragioni che hanno portato alla nascita dell’istituto dei danni punitivi nel sistema nordamericano; il risultato di tale studio ha portato sostanzialmente alla formulazione di quattro ragioni:

  1. la dipendenza forte e condizionante dell’illecito civile da quello penale;
  2. la giuria e l’ansia ridistributiva della responsabilità civile;
  3. l’american rule, cioè l’assenza di un principio di soccombenza che obbligasse la parte condannata al pagamento delle spese di lite, comprese invece nelle somme liquidate a titolo di danno punitivo;
  4. l’analisi economica del diritto[3].

Alla luce di quanto detto, sembra essere pacifico affermare che «la funzione del risarcimento punitivo non è quella di ripianare una perdita subita bensì quella meramente ritorsiva nei confronti di un soggetto al quale si imputa una condotta non solo lesiva ma anche offensiva del danneggiato»[4], diversamente da quanto affidato alla responsabilità civile dal nostro ordinamento.

Se da un lato, infatti, l’art. 2043 c.c. fissa quale criterio del quantum la consistenza del danno, l’istituto dei punitive demages svincola l’ammontare del risarcimento dal valore del danno effettivo per ancorarlo alla esigenza di sanzionare il danneggiante per la condotta adoperata, scoraggiando la sua ripetizione.

Una simile differenza trova la sua ragion d’essere nella mancanza, nel nostro ordinamento, dei presupposti anzidetti che hanno favorito la nascita e lo sviluppo dei punitive demages negli USA.

Infatti, a differenza dell’ordinamento nordamericano, il nostro sistema giuridico si basa sulla netta divisione tra responsabilità civile e responsabilità penale, divisione rispecchiata anche dalla diversità delle sanzioni civili da quelle penali. La previsione del c.d. principio di soccombenza, poi, assicura l’accesso alla giustizia alla parte che si intende essere lesa da condotte altrui, sicché la successiva condanna al risarcimento del danno non includerà anche il pagamento delle c.d. spese di lite, tenute distinte e liquidate separatamente dal giudice in dispositivo.

Come preannunciato, quindi, l’ordinamento italiano ha sempre rigettato in toto l’istituto americano dei danni punitivi in quanto completamente estraneo ai principi fondanti della responsabilità civile, come anche detto più volte dalla giurisprudenza di legittimità, la quale nel tempo si è preoccupata di ribadire come «nel vigente ordinamento, l’idea della punizione e della sanzione è estranea al risarcimento del danno, così come è indifferente la condotta del danneggiante. Alla responsabilità civile è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione»[5].

 

La pronuncia delle Sezioni Unite

 

Le Sezioni Unite della Suprema Corte si sono occupate, innanzi tutto, di delimitare i confini della nozione di ordine pubblico, facendo richiamo a sue precedenti pronunce.

Sulla base dei principi enunciati dalle fonti comunitarie ed internazionali, nonché dalle pronunce della Corte di Giustizia UE, contenenti principi di diritto vincolanti per il giudice nazionale, la Corte di legittimità ha precisato come siano cambiati i confini della nozione di ordine pubblico. Questo, infatti, è passato dall’essere inteso come «complesso dei princìpi fondamentali che caratterizzano la struttura etico-sociale della comunità nazionale in determinato periodo storico»[6]. Un mutamento notevole, dunque, della nozione di ordine pubblico, definito anche come “veicolo di promozione” della ricerca di principi comuni tra i diritti fondamentali, che costituiscono il substrato su cui poggia l’ordinamento giuridico degli Stati appartenenti all’Unione europea.

Dalla presa di coscienza di tale evoluzione, si è sviluppata una ulteriore argomentazione concernente le regole poste dalla Cassazione sulla delibazione di sentenze estere.

Come già detto sopra, il principio cardine dell’ammissibilità delle sentenze pronunciate da Autorità Giudiziarie estere è la non contrarietà a principi fondanti dell’ordine pubblico, nonché la natura civile della sanzione ivi contenuta. Nello specifico, la non contrarietà all’ordine pubblico «mira ad evitare che, mediante l’esecuzione di una sentenza straniera, si sovverta l’ordine dello Stato in cui ha luogo il giudizio di delibazione»[7] mentre con il secondo esame si vuole evitare l’intervento di altra autorità nel diritto penale nazionale, vista come prerogativa dello Stato.

Per quanto concerne la natura giuridica dei danni punitivi, altri ordinamenti giuridici, quale quello tedesco, hanno attribuito loro carattere prettamente penale, precludendo, con ciò, la delibazione di sentenze che li prevedessero. Altri ordinamenti, quale quello inglese, invece, hanno riscontrato un carattere civile degli stessi sulla base del fatto che a trovare vantaggio dal pagamento sia il privato cittadino danneggiato. Anche la Cassazione, nonostante il fermo divieto di applicazione dell’istituto statunitense nel nostro ordinamento, ne ha concesso in passato lo spiegamento di effetti anche a quelli aventi natura sanzionatoria civile[8].

L’ammissione di simili misure sanzionatorie ha posto al centro del dibattito anche la questione inerente alla natura della responsabilità civile. Ci si è chiesti, cioè, se nel nostro ordinamento ci fosse spazio per una responsabilità civile che avesse come scopo, oltre al ristoro della situazione giuridica lesa, anche quella volta a sanzionare l’autore dell’illecito civile.

Nella sentenza in oggetto, la stessa Corte sottolinea, come già nel 2015, cessa l’incompatibilità della funzione sanzionatoria del risarcimento del danno «con i principi generali del nostro ordinamento (…), giacché negli ultimi decenni sono state qua e là introdotte disposizioni volte a dare un connotato lato sensu sanzionatorio al risarcimento»[9]. Tuttavia, si è voluto precisare come tale connotato debba essere sorretto da «qualche norma di legge (…), ostandovi il principio desumibile dall’art. 25 Cost., comma 2, nonché dall’art. 7 della Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali»[10].

Da ciò, sembrerebbe derivare un ampliamento delle funzioni della responsabilità civile la quale, oltre a quella classica, volta alla riparazione del danno subìto, assume carattere anche deterrente (o dissuasivo) e punitivo; e proprio sulla dilatazione di tale responsabilità la Prima Sezione si è posta un interrogativo e, come già detto, con ordinanza 9978/2016 ha rimesso la questione alle Sezioni Unite facendo espresso richiamo ad una moltitudine di fattispecie civili in cui è riscontrabile una natura punitiva del risarcimento. Tra tutte, giova ricordare:

  • l’art. 187 undecies, comma 2, d.lgs 58/1998 che ha previsto l’abrogazione di alcuni reati contro il patrimonio, l’onore e la fede pubblica e disposto una sanzione pecuniaria civile qualora tali illeciti fossero commessi con dolo, instaurando così una sanzione civile afflittiva;
  • l’art. 28 d.lgs 150/2011 che dà facoltà al giudice di condannare il soggetto che ha posto in essere condotte discriminatrici al risarcimento del danno.

Possiamo, quindi, giungere alla conclusione che anche nel nostro ordinamento siano presenti rimedi sanzionatori civili non diretti esclusivamente alla riparazione del danno ma, piuttosto, al pagamento di una sanzione per la condotta compiuta.

Per completezza, giova precisare che, già da tempo, il panorama dottrinario italiano era spettatore di un profondo dibattito tra la dottrina che negava pienamente la compatibilità dell’istituto sanzionatorio nordamericano e quella che, invece, ne vedeva il possibile innesto e teorizzava la presenza nel nostro ordinamento di sanzioni civili assimilabili alla categoria dei punitive demages: si pensi, ad esempio, alla sanzione prevista dall’art. 96 c.p.c., in forza del quale il giudice può condannare una parte al pagamento di una sanzione pecuniaria per comportamenti processuali lontani dalla probità e lealtà, auspicate dall’art. 88 c.p.c. oppure alla sanzione prevista in tema di risarcimento del danno all’ambiente[11].

Tutto ciò sembra dare il via libera alla delibazione delle sentenze contenenti condanne al pagamento dei danni punitivi. La Corte suole ancora sottolineare, però, come «ciò non significa che l’istituto aquiliano abbia mutato la sua essenza e che questa curvatura deterrente/sanzionatoria consenta ai giudici italiani che pronunciano in materia di danno extracontrattuale, ma anche contrattuale, di imprimere soggettive accentuazioni ai risarcimento che vengono liquidati. Ogni imposizione di prestazione personale esige una “intermediazione legislativa”, in forza del principio di cui all’art. 23 Cost. (correlato agli artt. 24 e 25)».

Una tale rivalutazione funzionale della responsabilità civile potrebbe portare a pensare ad una delibazione tout court delle sentenze di condanna al pagamento dei danni punitivi. Tuttavia, concludono le Sezioni Unite che «nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subìto la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile.

Non è quindi ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi. Il riconoscimento di una sentenza straniera che contenga una pronuncia di tal genere deve però corrispondere alla condizione che essa sia stata resa nell’ordinamento straniero su basi normative che garantiscano la tipicità delle ipotesi di condanna, la prevedibilità della stessa ed i limiti quantitativi, dovendosi avere riguardo, in sede di delibazione, unicamente agli effetti dell’atto straniero e alla loro compatibilità con l’ordine pubblico»[12].


[1] G. Spoto, I punitive demages al vaglio della giurisprudenza italiana, in Eur. e dir. priv., 2007, p. 1131.

[2] Ibidem.

[3] G. Ponzanelli, I danni punitivi,  in N. giur. civ. comm., 2008, II, p. 26.

[4] C. Castronovo, Il risarcimento punitivo che risarcimento non è, in Scritti di comparazione e storia giuridica, a cura di P. Cerami e M. Serio, Giappichelli, 2011, p. 102.

[5] Cass., 19 gennaio 2007, n. 1183.

[6] Cass. sent. 1680/1984} a «sistema di tutele approntate a livello sovraordinato rispetto a quello della legislazione primaria, sicché occorre far riferimento alla Costituzione e, dopo il trattato di Lisbona, alle garanzie approntate ai diritti fondamentali della Carta di Nizza, elevata a livello dei trattati fondativi dell’Unione europea dall’art. 6 TUE» {Cass. sent. 1302/2013.

[7] S. Landini, in Dir. pen. e proc., II/2017, p. 263.

[8] Tra le altre, Cass. sent. 7613/2015.

[9] Cass. Sez. Un. sent. 9100/2015.

[10] Ibidem.

[11] Sulla questione, cfr. L. Bigliazzi Geri, Quale futuro dell’art. 18 legge 8 luglio 1986, n.349?, in Riv. crit. dir. priv., 1987, p. 685 ss.; M. Libertini, La nuova disciplina del danno ambientale e i problemi generali del diritto all’ambiente, in Il danno ambientale con riferimento alla responsabilità civile, a cura di P. Perlingeri, E.S.I., 2001, p. 21 ss.; G. Spoto, I punitive demages al vaglio della giurisprudenza italiana, cit., p. 1139 ss.

[12] Cass. Sez. Un. sent. 16601/2017.

Immagine in copertina: Sandro Botticelli, Punizione dei ribelli (1480-1482).