Il presente contributo mira ad analizzare la prassi del cosiddetto “intervento umanitario”, soventemente discusso in dottrina quale forma di eccezione al divieto dell’uso della forza armata sancito dall’art. 2, para. 4 della Carta ONU. Negli ultimi anni, a sostegno dell’”intervento d’umanità” è stata altresì invocata la teoria della responsabilità collettiva di proteggere (R2P o RtoP).
Brevi considerazioni introduttive
Al giorno d’oggi, risulta innegabile che il diritto internazionale e, in particolar modo, la branca del diritto internazionale umanitario, svolga un ruolo primario ed essenziale nel regolamentare le procedure d’azione e di intervento nell’ambito di conflitti armati internazionali e interni o delle cosiddette “emergenze umanitarie”.
Invero, il mantenimento della pace e della sicurezza collettiva dei singoli consociati costituisce un valore fondamentale per la salvaguardia mondiale, a cui l’intera Comunità internazionale è tenuta a dare il proprio contributo, astenendosi da qualsiasi atto che possa minare in maniera irreparabile l’ordine essenziale costituito fra i vari enti che partecipano alla vita di relazione internazionale.
A tal riguardo, l’articolo 2, paragrafo 4 della Carta ONU[1] stabilisce il divieto dell’uso e della minaccia della forza, il quale, come sancito dalla Corte Internazionale di Giustizia (d’ora in avanti, CIG) nella sentenza del 1986 sulle “Attività militari in Nicaragua“[2], è pacifico che corrisponda oggi al diritto internazionale consuetudinario.
Pertanto, gli Stati non potranno ricorrere unilateralmente alla forza armata a meno che non sussista una comprovata giustificazione o eccezione a tale divieto, così come previsto dal diritto internazionale generale; un’eccezione al divieto dell’uso della forza assolutamente incontestata è contenuta espressamente all’interno dell’art. 51 della Carta[3], che regola la facoltà per gli Stati di avvalersi della legittima difesa, intesa come reazione armata da parte di uno Stato dinanzi ad un attacco sferrato da un altro Stato, anche se si discute sulla possibilità di ammettere la liceità della legittima difesa altresì in caso di un’offensiva compiuta ad opera di soggetti non statali, come, ad esempio, i gruppi terroristici[4].
Oltre alla legittima difesa, risulta rilevante l’acceso dibattito dottrinale circa l’ammissione di ulteriori eccezioni al divieto di utilizzo della forza armata, in particolare con riferimento al noto “intervento umanitario” o “intervento d’umanità”. Si noti bene che il discorso in esame verterà sulla liceità dell’uso unilaterale della forza militare da parte di Stati, i quali operano eventualmente di concerto con altre entità statali; altro, invece, concerne l’esame giuridico relativo agli interventi militari armati condotti nel quadro ONU, ai sensi del Capitolo VII della Carta[5](“Action with Respect to Threats to the Peace, Breaches of the Peace, and Acts of Aggression”).
Luci ed ombre esistenti nel dibattito sulla liceità dell’intervento umanitario
Con il termine “intervento umanitario” o “intervento d’umanità” si intende generalmente l’intervento armato da parte di uno Stato allo scopo di proteggere i cittadini di un altro Stato, vittime di gravi violazioni dei diritti umani fondamentali e/o di trattamenti inumani e degradanti commessi dallo stesso governo del territorio in cui essi risiedono[6].
In passato, specialmente prima dell’entrata in vigore della Carta ONU, ma anche durante gli anni della Guerra Fredda, siffatta tipologia di intervento armato era ritenuta illecita, come sancito ulteriormente dalla CIG nella citata decisione del 1986[7].
Tuttavia, la prassi, seppur timidamente, si è evoluta in senso positivo circa l’ammissione e la legittimità dell’intervento umanitario: ad esempio, l’intervento d’umanità è stato invocato quale pretesto per giustificare l’operazione militare compiuta in Kosovo nel 1999 da parte della NATO, pur in assenza di un’apposita ed esplicita autorizzazione ad opera del Consiglio di Sicurezza[8].
Nondimeno, il Regno Unito, sin dagli anni ’90, ha qualificato l’intervento umanitario essenzialmente come extrema ratio, ossia in veste di misura eccezionale a cui ricorrere nell’ipotesi in cui essa sia diretta ad evitare catastrofi e disastri di natura umanitaria; la posizione inglese è stata ribadita recentemente nel 2018, in occasione dell’intervento in Siria, volto a distruggere un deposito di armi chimiche utilizzate dal governo di Assad per contrastare i ribelli[9]. Risulta inoltre opportuno sottolineare che, sebbene tale operazione fosse stata sostenuta anche da Francia e Stati Uniti, solo il Regno Unito ha espressamente giustificato la propria condotta quale “humanitarian intervention” [10].
A ben vedere, non esiste in realtà una norma di diritto internazionale che ammetta un dovere, o comunque un potere, degli Stati di intervenire per ragioni umanitarie, al di là delle, seppur interessanti, questioni etiche e morali che prescindono dalla valutazione squisitamente giuridica delle circostanze. Ad avviso di chi scrive, e sapientemente osservato dall’autorevole dottrina[11], l’intervento umanitario, seppur volto a salvare vite umane molto spesso causa altrettante perdite di vite umane, sofferenze e numerose violazioni di diritti umani fondamentali, in quanto tale intervento consiste essenzialmente nell’utilizzo della forza militare.
É singolare sottolineare che, proprio in occasione dell’intervento in Kosovo, il Consiglio di Sicurezza non aveva potuto autorizzare l’operazione a causa del veto esercitato dalla Cina e dalla Federazione Russa; tuttavia, appare ulteriormente significativa la scelta del governo russo che, nell’ambito del conflitto in Georgia nel 2008 e in relazione alle vicende che hanno coinvolto la Crimea nel 2014, ha giustificato il proprio intervento armato in siffatti territori invocando ragioni di carattere umanitario e incontrando la ferma opposizione degli stessi Stati interventisti in Kosovo[12].
Inoltre, a causa delle profonde divergenze fra i Paesi più volte manifestatesi, l’Institut de Droit International non è stato finora in grado di redigere una risoluzione sulla materia in esame (sessione di Tallin del 2015)[13].
La responsabilità collettiva di proteggere e l’idea della «sovranità come responsabilità»
L’intervento umanitario è stato sostenuto in dottrina attraverso l’elaborazione di diverse teorie, che hanno avuto, però, scarso successo in concreto e nella prassi.
Un certo riscontro pratico è stato, invece, registrato nell’ambito della dottrina della responsabilità collettiva di proteggere (responsibility to protect, R2P o RtoP), enunciata inizialmente da una Commissione istituita dal Canada nel 2001 (ICISS, International Commission on Intervention and State Sovreignty[14]) e successivamente accolta in termini abbastanza generici dall’Assemblea Generale in occasione del World Summit Outcome del 2005 (Risoluzione A/RES 60/1).
Secondo la dottrina della responsibility to protect, spetterebbe alla comunità internazionale il compito di prevenire (responsibility to prevent), reagire (responsibility to react) e ricostruire (responsibility to rebuild), nel caso in cui si verifichino gravi violazioni di diritti umani nel territorio di uno Stato: a tal riguardo, sulla base dell’opinione del Focarelli, nell’ambito della responsibility to react, sarebbe consentito il ricorso all’uso della forza militare a determinate condizioni, quali la circostanza che lo Stato locale non sia in grado o non intenda (unable or unwilling) proteggere la sua popolazione. In queste ipotesi, sarebbe comunque necessario, in principio, l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza o, in caso di inerzia, dell’Assemblea Generale[15]. Ad esempio, il Consiglio di Sicurezza ha seguito l’impostazione della dottrina della responsibility to protect, adottando nel 2011 misure nei confronti della Libia[16].
Tale teoria sembra, peraltro, legarsi al concetto di «sovranità come responsabilità», che richiama le autorità degli Stati al dovere di protezione delle loro popolazioni. Tuttavia, sempre nella visione del Focarelli, dalla dottrina della responsibility to protect non discenderebbero obblighi e diritti nuovi e differenti da quelli già esistenti per i soggetti della comunità internazionale; si parla, del resto, di una norma emergente disciplinante la responsabilità collettiva di proteggere, che non corrisponde al diritto internazionale vigente[17].
D’altro canto, parte della dottrina (Ronzitti) sostiene che la R2P dovrebbe essere intesa come un concetto più ampio rispetto all’intervento umanitario; di fatto, l’uso della forza invocata al fine di giustificare la responsibility to react, alle condizioni previamente analizzate, dovrebbe configurarsi come extrema ratio, prediligendo il ricorso ad altri mezzi pacifici di esercizio della «sovranità come responsabilità».
Gli Stati, ad esempio, dovrebbero ratificare Convenzioni in materia di protezione dei diritti fondamentali dell’uomo e/o di diritto umanitario, primo fra tutti lo Statuto di Roma, il quale affida alla Corte Penale Internazionale il compito di processare gli individui responsabili dei più gravi crimini internazionali[18].
In conclusione, mentre la nozione di intervento umanitario dovrebbe essere inserita nell’ambito dell’utilizzo della forza armata, il concetto di RtoP riguarderebbe invece un pino più ampio ed esteso, che l’intera comunità internazionale dovrebbe pedissequamente seguire, allo scopo di contribuire a pieno al mantenimento della pace e della sicurezza globale[19].
Note
[1] “All Members shall refrain in their international relations from the threat or use of force against the territorial integrity or political independence of any state, or in any other manner inconsistent with the Purposes of the United Nations“. Sulle nozioni di “uso” e “minaccia” della forza ai sensi dell’articolo 2, para.4, della Carta ONU, si è pronunciata la CIG, stabilendo che i concetti di “minaccia” e di “uso” della forza devono essere considerati congiuntamente, in quanto deve essere bandita ogni minaccia della forza il cui uso in sè in un determinato caso è illecito. Così, Legality of the Threat or Use of Nuclear Weapons, Advisory Opinion, I.C.J. Reports 1996, p. 226, 8 luglio 1996, para. 47-48
[2] Si veda, Military and Paramilitary Activities in and against Nicaragua (Nicaragua v. United States of America), ICJ Judgment, 27 giugno 1986
[3] “Nothing in the present Charter shall impair the inherent right of individual or collective self-defence if an armed attack occurs against a Member of the United Nations, until the Security Council has taken measures necessary to maintain international peace and security. Measures taken by Members in the exercise of this right of self-defence shall be immediately reported to the Security Council and shall not in any way affect the authority and responsibility of the Security Council under the present Charter to take at any time such action as it deems necessary in order to maintain or restore international peace and security.”
[4] Sul punto, si veda l’analisi di RONZITTI N., Diritto internazionale dei conflitti armati, Sesta Edizione, G.Giappichelli Editore, 2017, pp. 39-40
[5] Cfr. FOCARELLI C., Diritto internazionale, Terza Edizione, CEDAM, 2015, p. 446
[6] RONZITTI N., Diritto internazionale dei conflitti armati, p. 51
[7]“With regard to the steps actually taken, the protection of human rights, a strictly humanitarian objective, cannot be compatible with the mining of ports, the destruction of oil installations, or again with the training, arming and equipping of the contras“. Cit. para. 268 della sentenza della CIG del 1986
[8] Si veda anche, HEINKIN L., Kosovo and the Humanitarian Intervention, in The American Journal of International Law, Vol. 93, No. 4, Ottobre 1999, pp. 824-828
[9] Per approfondire la vicenda, si veda anche Sicurezza Internazionale, Stati Uniti, Regno Unito e Francia colpiscono in Siria, disponibile su: https://sicurezzainternazionale.luiss.it/2018/04/14/stati-uniti-regno-unito-francia-colpiscono-siria/
[10] Cfr. VILLANI U., Uso della forza e diritti umani: dal c.d. intervento umanitario alla responsabilità di proteggere, in PETRILLI S. (a cura di), Diritti umani e diritti altrui: per una semioetica della comunicazione globale, Mimesis Edizioni, Milano – Udine, 2020, p. 41
[11] Vedi FOCARELLI C., RONZITTI N., VILLANI U.
[12] Cfr. FOCARELLI C., Diritto internazionale, p. 447
[13] RONZITTI N., Diritto internazionale dei conflitti armati, p. 54
[14] ICISS, The Responsibility to Protect: Report of the International Commission on Intervention and State Sovereignty, dicembre 2001
[15] Cfr. FOCARELLI C., Diritto internazionale, p. 449
[16] Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1973 del 2011, S/RES/1973 (2011), 17 marzo 2011
[17] Cfr. FOCARELLI C., Diritto internazionale, p. 450
[18] Cfr. RONZITTI N. Diritto internazionale, Sesta edizione, G. Giappichelli Editore, Torino, 2019, p. 462
[19] Ibid.
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