Narendra Modi, primo ministro indiano dal 2014, non è certamente famoso per la sua arrendevolezza e per la sua accondiscendenza. Nonostante ciò, negli ultimi giorni di novembre il premier è stato costretto a compiere un’importante passo indietro riguardo la riforma agraria approvata dal parlamento nel 2020.


 

Antefatti: che vuol dire essere indiano nel 2000 d.C.

Il ritratto dell’India di oggi si costruisce intorno ad un profilo peculiare, per usare un eufemismo. E’ il volto di una persona stanca, con il viso bruciato dal sole e le mani callose di chi lavora la terra; di chi vive in un continente travestito da paese, in cui si parlano almeno 22 lingue diverse, e che conta più abitanti delle due Americhe messe assieme.
In termini di numeri, l’India è abitata da 1,3 miliardi di persone di cui il 66% vive in zone rurali e trae profitto da attività legate all’agricoltura; si prevede inoltre che entro il 2025, ai ritmi di crescita attuali, la popolazione indiana supererà quella cinese.
Questi elementi, in concomitanza con la centralizzazione del potere di cui si parlerà in seguito, favoriscono il gap economico, sociale e rappresentativo esistente fra le zone più decentrate ed i grandi centri abitati occupati, invece, “soltanto” dal 34% degli indiani.
Ciò si deve soprattutto al Bjp (Bharatiya Janata party), il “partito del popolo indiano”, conservatore e nazionalista, i cui membri approvano e in certi casi promuovono l’Hindutva, la dottrina che sostiene la supremazia induista. Fa eccezione il primo ministro indiano, il quale pur avendo dei trascorsi in Gujarat che testimonierebbero il suo strizzare l’occhio ai suprematisti, dall’inizio della sua carica non si è mai schierato apertamente su questo fronte, il che probabilmente gli è valso il sostegno di un elettorato non esclusivamente induista. E’ possibile coniugare vastità del territorio, eterogeneità linguistica e diversità culturali e religiose centralizzando il potere?

La grande vastità del territorio, contrariamente da ciò che il premier Narendra Modi evidentemente si aspettasse, sembrerebbe non riuscire ad impedire agli indiani delle zone più remote di far sentire la loro voce: è questo il caso non solo della riforma agraria ma anche di diversi provvedimenti adottati o presi in considerazione dal partito di maggioranza al governo in questi ultimi anni. Si faccia riferimento, per esempio, alla revoca dello Stato a statuto speciale del Jammu e Kashmir (agosto 2019) o, ancora, all’approvazione del Citizenship Amendment Act (CAA)  a cui fecero seguito proteste particolarmente “rumorose” in diverse zone dell’Unione.
Il provvedimento riguardava nello specifico la possibilità per gli immigrati illegali dei paesi vicini di accedere alla cittadinanza indiana, esclusi però quelli di religione musulmana.
Seppure l’intenzione, secondo quanto dichiarato, fosse quella di dare asilo a chi è in fuga da paesi a maggioranza musulmana, secondo i critici questa disposizione risulterebbe fortemente discriminatoria e peggiorerebbe le preesistenti conflittualità settarie, religiose e fra caste che interessano il paese già dai tempi dell’indipendenza dal trono britannico.  

Le richieste degli agricoltori e le difficoltà di New Delhi

La riforma agraria promossa ed approvata dal parlamento nel 2020 consisterebbe fondamentalmente in tre leggi che mirino alla liberalizzazione della produzione agricola, allentando le restrizioni sulla vendita, sui prezzi e sullo stoccaggio dei prodotti agricoli. In India, infatti, esistono dei comitati statali che vincolano le vendite ed i prezzi, per esempio al di fuori del proprio stato, proteggendo così in qualche modo i produttori dal libero mercato. Con questa riforma il governo voleva creare un mercato unico nazionale, dando la possibilità ai contadini di vendere a prezzo di mercato direttamente ai soggetti privati invece che ai mercati all’ingrosso sotto il controllo dello stato (cosiddetti “mandis”) a prezzi minimi garantiti.
Le proteste che hanno visto gli agricoltori indiani accamparsi per ben un anno alle porte di New Delhi per chiedere l’abrogazione delle tre leggi, sono state guidate in primis dalla paura dei contadini di non riuscire a reggere la concorrenza con le grandi aziende e di perdere, andando verso il libero mercato, la protezione dello stato di fronte ai privati. Ciò che probabilmente stona o comunque non coincide con la peculiarità già solo di carattere geografico dell’India è che la diversificazione del territorio è così vasta da rendere l’imposizione di una riforma agraria di grossa portata come questa moralmente nonché tatticamente inaccettabile.
Si considerino per esempio le condizioni del settore agricolo del Punjab o dell’Haryana, in stagnazione già dai tempi della rivoluzione verde: quasi sicuramente non riuscirebbero a tenere il passo e a confrontarsi con questo tipo di modello economico.
La legittimità politica del Bjp si trova in un momento delicato, la crisi interna che le proteste degli agricoltori indiani hanno portato sono forse la dimostrazione che il governo Modi, con il suo grande potere carismatico e le sue manovre populiste, può poco di fronte alle necessità pratiche e di guadagno di un paese che ha fatto, storicamente, della sua disomogeneità un elemento caratteristico.


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Foto copertina: Le proteste degli agricoltori indiani © Bloomberg