La questione della tutela della minoranza dei Rohingya assume rilevanza globale grazie al processo istituito dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia dal Gambia, una piccola nazione dell’Africa Occidentale.
Negli anni è stato più volte dimostrato che, il diritto internazionale e soprattutto gli strumenti giurisdizionali che ne fanno parte possono essere molto importanti per garantire la tutela dei diritti umani laddove, poco o quasi nulla si riesca a fare a livello nazionale.
Nel caso specifico difatti, grazie al processo iniziato dallo stato del Gambia dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG, organo giudiziario delle Nazioni Unite) contro lo stato del Myanmar, si è riuscito a dare maggiore rilevanza alla necessità di tutela dei Rohingya.
I Rohingya sono una minoranza etnica di religione musulmana sciita, stanziata nello stato di Rakhine, confinante con il Bangladesh. Tale minoranza non rientra tra le etnie riconosciute dalla Costituzione della nazione ed è continuamente soggetta a segregazioni e trattamenti degradanti[1].
Il Gambia ha così agito, chiedendo alla Corte internazionale la condanna della controparte per violazione della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (più semplicemente nota come Convenzione sul Genocidio[2]) e ha inoltre chiesto l’adozione di misure cautelari, tese a garantire, seppure in via provvisoria la tutela effettiva dei diritti umani e dunque, la messa in atto di azioni tali da prevenire o far cessare la perpetuazione dei crimini nei confronti dei Rohingya[3].

Il processo, tuttora in corso, ha avuto inizio nel novembre 2019. È indubbio che l’esame del merito richiederà del tempo, considerando che i termini per la presentazione delle Memorie e Contro-memorie da parte degli Stati sono state prorogate, causa emergenza sanitaria covid-19, con ordinanza del 18 maggio 2020, rispettivamente al 23 ottobre 2020 per il Gambia e al 23 luglio 2021 per il Myanmar[4].
Tuttavia, la CIG ha avuto occasione di pronunciarsi già con ordinanza del 23 gennaio 2020[5], nella quale ha accertato il sussistere della sua giurisdizione e, ritenendo che ci fossero i presupposti richiesti ai fini dell’accoglimento di misure provvisorie, ai sensi dell’articolo 41 del proprio statuto[6] (rischio di pregiudizio irreparabile per i diritti fatti valere da una o entrambi le Parti e situazione di urgenza), ne ha disposto all’unanimità, l’applicazione.
Occorre precisare che la disposizione di misure cautelari non influenza in alcun modo l’esito finale del giudizio, in quanto la prima non richiede un esame nel merito della vicenda che dovrà invece essere effettuato per poter emettere un giudizio definitivo sulla questione. Tuttavia, risulta innegabile la rilevanza internazionale del procedimento istituito e ciò non soltanto, a seguito della disposizione da parte della CIG di applicare le misure cautelari idonee a tutelare i Rohingya ma soprattutto e tanto basti, perché la questione è stata portata dinanzi a giudici di una corte internazionale, garantendo maggiore visibilità a una gravosa questione umanitaria concernente la tutela di una minoranza etnica e apolide, che non sembra trovare via di soluzione e senza che si sia mai riusciti di fatto, a impedire che delle persone, a causa della loro appartenenza etnica e principalmente del loro credo religioso venissero sottoposte a barbarie e alle più varie violazioni dei diritti umani[7].
E neppure passa inosservato che, sia stata una piccola nazione dell’Africa occidentale ad aver agito per la tutela di una minoranza, ad essa accomunata soltanto dal credo religioso. L’azione del Gambia, peraltro solo recentemente liberatosi da un regime ditattoriale di durata pluriventennale, è stata guidata dell’allora Ministro della Giustizia e noto avvocato attivista dei diritti umani, Abubacarr Tambadou.
Ma dove trova legittimazione l’azione perpetrata da questa piccola nazione?
Per rispondere al quesito, bisogna partire dalla precisazione che la Corte internazionale di giustizia è un organo giudiziario delle Nazioni Unite, il quale può essere adito esclusivamente dagli Stati ed è regolata da un proprio statuto.
In merito alla regolamentazione della sua giurisdizione, l’art. 36 par. 1 sancisce la possibilità che essa gli venga conferita, per le questioni concernenti l’applicazione e l’interpretazione di convenzioni, mediante un’apposita norma presente all’interno della convenzione o del trattato in questione[8] (cd. clausola compromissoria). Tale sistema si proietta perfettamente nella situazione in esame.
Difatti, il Gambia ha agito nella convinzione che la controparte avesse violato le norme della Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948. A tale convenzione hanno aderito entrambi gli Stati. La stessa prevede che debba essere la CIG a giudicare su qualsiasi controversia concernente la sua interpretazione e applicazione, inclusa la responsabilità per atti di genocidio o altri crimini previsti al suo interno. Invero, l’articolo IX espressamente dispone: “Disputes between the Contracting Parties relating to the interpretation, application or fulfilment of the present Convention, including those relating to the responsibility of a State for genocide or for any of the other acts enumerated in article III, shall be submitted to the International Court of Justice at the request of any of the parties to the dispute[9].”
Ebbene, nell’ordinanza del 23 gennaio 2020, la CIG, dopo aver accertato l’esistenza di una disputa tra le parti già antecedentemente e rilevato che, i disaccordi riguardassero inter alia violazioni di norme previste dalla Convenzione sul Genocidio da parte del Myanmar, ha esaminato la questione se uno Stato non direttamente leso potesse agire contro un altro Stato dinanzi la CIG.
L’esame ha portato a una risposta affermativa. Il ragionamento seguito è stato il seguente: le norme della Convenzione sul genocidio, riguardando il divieto di genocidio e la commissioni di altri gravi crimini connessi, sono basate su high ideals[10] e devono quindi considerarsi quali obbligazioni erga omnes partes[11]. Ciò significa che, qualsiasi Stato parte del trattato ha interesse a che gli altri Stati parti rispettino le norme e non restino impuniti, qualora commettano gravi violazioni. Non è quindi necessario che uno stato abbia direttamente subito le violazioni. Ne deriva che, il Gambia, facendo parte della Convenzione sul Genocidio e avendo, peraltro già in precedenza, più volte contestato le azioni del Myanmar nei confronti dei Rohingya e avendo il Myanmar negato di aver commesso violazioni della suddetta convenzione, ha interesse al pari di ogni altro Stato parte ad agire, affinché vengano accertati i crimini che si ritiene siano stati commessi. In attesa del giudizio definitivo della CIG si auspica dunque che, ci sarà maggiore mobilitazione a livello internazionale affinché si faccia pressione nel porre fine ai trattamenti disumani a cui i Rohingya sono sottoposti.
Si ritiene infine di dover concludere con una citazione di uno dei giudici della Corte internazionale di giustizia, Cançado Trindade che, nella sua opinione separata sottolinea “the great need of a people-centred approach, keeping in mind the fundamental right to life, with the raison d’humanitè prevailing over the raison d’Etat[12].”, perché nulla dovrebbe giustificare la violazione di quei diritti fondamentali che, hanno trovato un riconoscimento a livello globale attraverso la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani[13] nel 1948, ossia a soli pochi anni dalla fine dell’atroce e sanguinario secondo conflitto mondiale.
Note
[1] L’incubo dei Rohingya di Teresa De Vivo, www.opiniojuris.it, 5 dicembre 2018.
[2] Assemblea generale, Convenzione per la prevenzione e repressione del crimine di genocidio, adottata il 9 dicembre 1948, UN/Doc. A/RES/3/260 del 9 dicembre 1948.
[3] Corte Internazionale di giustizia, Application Instituting Proceeding and Request for Provisional Measures (Republic of Gambia v. Republic of the Union of Myanmar), 11 novembre 2019, ICJ Reports 2019.
[4] Corte internazionale di giustizia, Application of the Convention on the prevention and punishment of the crime of genocide (THE GAMBIA v. MYANMAR), Order del 18 maggio 2020, ICJ Reports 2020.
[5] Corte internazionale di giustizia, Application of the Convention on the prevention and punishment of the crime of genocide (THE GAMBIA v. MYANMAR), Order del 23 gennaio 2020, ICJ Reports 2020.
[6] Lo Statuto della Corte internazionale di giustizia è allegato alla Carta delle Nazioni Unite, adottato a San Francisco il 26 giugno 1945; https://www.icj-cij.org/en/statute
[7] Amnesty international, Myanmar: Two years since Rohingya exodus, impunity reigns supreme for military, 21 agosto 2019 https://www.amnesty.org/en/latest/news/2019/08/myanmar-two-years-since-rohingya-crisis/
[8] V. supra nota 6
[9] V. supra nota 2
[10] V. supra nota 5
[11] Idem
[12] Corte internazionale di giustizia, Application of the Convention on the prevention and punishment of the crime of genocide (THE GAMBIA v. MYANMAR), Order del 23 gennaio 2020, Separate Opinion of Judge Cançado Trindade para 74, ICJ Reports 2020
[13] Assemblea generale delle Nazioni Unite, Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, 10 dicembre 1948 https://www.un.org/en/universal-declaration-human-rights/
Foto copertina: Il ministro della Giustizia del Gambia Abubacarr Tambadou e il leader del Myanmar Aung San Suu Kyi partecipano a un’audizione in un caso presentato dal Gambia contro il Myanmar per presunto genocidio contro la minoranza musulmana della popolazione Rohingya, presso la Corte internazionale di giustizia (ICJ) all’Aia, Paesi Bassi, 10 dicembre 2019 . © 2019 Reuters / YVES HERMAN