Un’analisi dell’evoluzione degli scontri nella regione del Tigray. Secondo l’UNHCR, più di 40 mila persone hanno abbandonato l’area riversandosi nel vicino Sudan, e il numero continua a crescere rapidamente.


 

Lo scorso 4 novembre, mentre il mondo era focalizzato sull’evolversi delle elezioni statunitensi, dall’altra parte del globo, l’Etiopia si ritrovava sull’orlo di una vera e propria guerra civile. Infatti, giungevano al culmine le tensioni, inaspritesi negli ultimi mesi, tra il governo centrale etiope e il partito a capo dello stato regionale del Tigray (il TPLF). Nella notte del 4, il Primo Ministro Abiy annunciava un’offensiva militare nella regione del nord del Paese, in risposta all’attacco sferrato dalle milizie armate del Tigray a un’importante base militare nazionale nella città di Makellè. Nello stesso giorno, Abiy decretava lo stato di emergenza nel Tigray e interrompeva ogni linea di comunicazione con la regione, praticamente isolandola dal resto del Paese. L’annuncio dell’intervento militare ha da subito attirato l’attenzione internazionale e ha suscitato il timore che il conflitto potesse sfociare in una devastante guerra civile ed estendersi anche ai Paesi confinanti, destabilizzando il fragile equilibrio dell’intero Corno d’Africa.
In un tweet[1], il Primo Ministro ha descritto l’intervento militare come misura finalizzata a ristabilire lo stato di diritto e l’ordine nella regione del Tigray in seguito alle numerose “provocazioni” da parte del TPLF all’amministrazione centrale. Inoltre, il ricorso alle armi è stato giustificato dal fatto che il TPLF ha respinto ogni proposta di mediazione pacifica avanzata dal governo, costringendo Abiy a utilizzare misure forti. Stando alle parole del presidente, l’obiettivo dell’intervento era quello di porre fine a tali provocazioni e alla loro impunità attraverso un’operazione che avrebbe dovuto essere breve e concisa. Tuttavia, gli scontri tra truppe federali e milizie del TPLF vanno avanti ormai da settimane, rendendo sempre più plausibile l’ipotesi di una degenerazione degli scontri in un conflitto duraturo e logorante. Amnesty International ha affermato che, dal 4 novembre ad oggi, a causa degli scontri, centinaia di persone sono rimaste ferite nella regione del Tigray e nella vicina Ahmara[2].
Inoltre, secondo l’UNHCR[3], più di 40 mila persone hanno abbandonato l’area riversandosi nel vicino Sudan, e il numero continua a crescere rapidamente.

Le origini del conflitto

Il conflitto che sta attanagliando l’Etiopia affonda le sue radici in questioni etniche e politiche tutt’oggi irrisolte. Negli ultimi due anni, ovvero da quando Abiy Ahmed è divenuto Primo Ministro e ha smantellato la vecchia coalizione di governo, si è creato un rapporto di ostilità tra il governo centrale e il partito rappresentativo dell’etnia Tigray, il TPLF. Nei mesi scorsi, alcune decisioni adottate da Abiy sono state mal digerite dal TPLF e hanno fatto sì che le tensioni tra le due parti si esacerbassero fino a sfociare in uno scontro armato.    
Il partito politico che rappresenta i Tigray ha avuto per decenni un’influenza smisurata sulla politica nazionale, in quanto rivestiva un ruolo predominante all’interno della coalizione di governo. Quest’ultima, denominata Fronte Popolare Rivoluzionario Etiope (EPRF), è nata alla fine degli anni Ottanta, per volontà dello stesso TPLF, con lo scopo di porre fine al regime dittatoriale socialista che, dal 1974 al 1991, ha disseminato il terrore e ha provocato la morte di migliaia di etiopi. L’EPRF è riuscita a destituire il regime socialista nel 1991[4]. Successivamente, ha portato al centro della politica il tema dell’etnicità e ha instaurato una forma di governo di tipo federale, che consisteva nella suddivisione del Paese in nove regioni definite su base etnica e dotate di ampia autonomia.
L’obiettivo della nuova struttura governativa era quello di garantire il riconoscimento e il rispetto reciproco tra le varie comunità etniche e di favorire il power sharing fra di esse. In un primo momento, questa sorta di federalismo etnico è riuscito nel suo intento, favorendo la convivenza pacifica tra etnie e la crescita economica.

Tuttavia, dal 2005, l’aria nel Paese è cambiata e la coalizione EPRF ha intrapreso una rotta repressiva e autoritaria,[5] si sono susseguiti innumerevoli atti di violenza verso gli oppositori politici, abusi di potere e ripetute violazioni delle libertà civili. Dunque, quel sistema federale che avrebbe dovuto garantire il power sharing e il rispetto tra tutte le comunità etniche, ben presto, si è dimostrato fallimentare, rivelandosi un sistema fortemente centralizzato e discriminatorio.
Difatti, per anni il potere è stato concentrato nelle mani del TPLF, il quale si è servito della sua predominanza all’interno della coalizione di governo per monopolizzare la scena politica, senza lasciare spazio alle opposizioni[6]. In questo modo, numerose etnie, seppur molto popolose, come gli Oromo e gli Ahmara, sono risultate a lungo politicamente sottorappresentate. L’insieme di tutti questi fattori hanno portato la popolazione ad insorgere in maniera violenta contro il governo centrale per richiedere maggiore equità nella rappresentanza politica e il rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo.

I cambiamenti promossi da Abiy Ahmed

Si è giunti ad una svolta soltanto nel 2018 quando l’allora Primo Ministro Hailemariem Desalegn si è dimesso dalla sua carica e, al suo posto, si è insediato Abiy Ahmed.      
Abiy si presentava al popolo etiope come la figura chiave del cambiamento e prometteva ai cittadini di guidare pacificamente l’Etiopia verso la democrazia. Per marcare la rottura con il passato, Abiy ha smantellato la coalizione dell’EPRF e ha fondato il Partito della Prosperità, che si distingueva dagli altri partiti presenti nel Paese per il fatto di non rappresentare alcuna etnia specifica. Così facendo, il Primo Ministro ha risvegliato le speranze della popolazione e, in particolare, delle etnie storicamente marginalizzate, che hanno visto in lui una possibilità di riscatto. Nel primo anno di governo, Abiy ha mostrato un atteggiamento pacificatore che gli è valso il Premio Nobel per la Pace nel 2019[7]: ha liberato vecchi prigionieri politici, ha invitato al rientro in patria gli ex-oppositori in esilio[8] e ha favorito la riconciliazione con la vicina Eritrea, contro cui l’Etiopia, tra il 1998 e il 2000, ha combattuto una guerra che lasciò i due Paesi in rapporti ostili per quasi venti anni[9]. Ma soprattutto, ciò che ha effettivamente segnato l’inizio di una nuova fase politica è stato il drastico ridimensionamento del ruolo del TPLF nella politica nazionale. Infatti, tra le prime azioni compiute in qualità di Primo Ministro, Abiy ha revocato l’incarico ai ministri appartenenti al TPLF e ha ripulito completamente l’amministrazione dall’influenza dei Tigray, i quali sono stati tagliati fuori anche dal nuovo Partito della Prosperità[10]. Con la marginalizzazione del TPLF, Abiy ha posto bruscamente fine al ventennio di predominanza del partito sulla politica nazionale. In questo modo, ha lacerato in maniera irreparabile i rapporti con i Tigray, inaugurando un periodo di grandi trasformazioni caratterizzato da forti turbolenze interne.

L’escalation delle tensioni tra Abiy e il TPLF

Il TPLF ha mal digerito le azioni del Primo Ministro che hanno portato alla drastica riduzione dell’influenza dei Tigray sul piano nazionale. Il partito ha accusato Abiy di aver ingiustamente marginalizzato e discriminato l’etnia Tigray e ha iniziato a nutrire un forte desiderio di rivendicazione.
Negli ultimi mesi, l’ostilità tra le due parti ha raggiunto il punto di ebollizione quando Abiy ha annunciato il rinvio al 2021 delle elezioni generali, che si sarebbero dovute tenere ad agosto 2020[11]. Questa mossa ha suscitato l’indignazione delle opposizioni, che credono che Abiy abbia sfruttato la situazione di emergenza sanitaria per estendere la durata del suo mandato. Lo scorso settembre, si è registrato un ulteriore inasprimento delle tensioni tra Abiy e il TPLF, quando quest’ultimo ha deciso di procedere ugualmente con le elezioni regionali nel Tigray, nonostante la posticipazione nazionale[12]. Il governo centrale ha dichiarato illegittime le elezioni tenutesi nella regione e non ha riconosciuto le nuove figure in carica. Inoltre, come atto punitivo, il Primo Ministro ha deviato i finanziamenti destinati da bilancio alla regione, provocando l’ira dell’amministrazione locale[13]. Da lì, il passo verso la militarizzazione delle tensioni è stato breve. Viste le passate esperienze militari dei Tigray, dapprima alla guida della lotta contro il regime socialista e poi in prima linea nei combattimenti contro l’Eritrea, essi vantano una propria forza paramilitare e possono contare su un insieme di milizie armate molto numerose, formate da circa 250mila truppe[14], che permetterebbero al TPLF di fronteggiare a lungo le truppe federali. Nonostante Abiy abbia annunciato “un’offensiva finale” contro la città di Makellè lo scorso 26 novembre, i combattimenti non si arrestano e i Tigray sembrano non volersi arrendere al governo centrale.

Il timore che il conflitto si estenda oltrefrontiera     

Secondo l’International Crisis Group[15], l’Etiopia riveste un ruolo cardine per la stabilità del turbolento Corno d’Africa e il suo collasso avrebbe un impatto enorme sui Paesi circostanti. Secondo numerosi analisti, ci sono sufficienti elementi che giustificherebbero un’escalation del conflitto ai Paesi confinanti. In primis, la rivalità pregressa tra i Tigray e l’Eritrea[16], nonché il supporto dell’attuale Presidente eritreo al governo di Abiy, fanno temere uno spillover del conflitto oltre frontiera. Le milizie del Tigray hanno già avanzato una prima mossa che potrebbe attirare l’Eritrea nel conflitto, scagliando missili contro l’aeroporto di Asmara, la capitale del Paese, lo scorso 14 novembre. Secondo le parole di Debretsion Gebremichael, Presidente della regione del Tigray, le sue milizie stanno già combattendo contro l’Eritrea su vari fronti[17], tuttavia ancora non ci sono stati comunicati ufficiali a riguardo.  
Inoltre, per far fronte agli scontri, il governo etiope ha già richiamato in patria alcune delle truppe impegnate in Somalia nella lotta contro Al-Shabaab. Se Abiy dovesse continuare a ritirare le truppe dalla Somalia, potrebbe indebolire il suo supporto alla missione dell’African Union contro il gruppo terrorista, favorendone la ricrescita[18]. Anche il Sudan si vede coinvolto nella faccenda, innanzitutto perché, condividendo parte del suo confine orientale con la regione del Tigray, ha visto arrivare, in poco tempo, un numero esorbitante di profughi dall’Etiopia, con il rischio di non avere la capacità materiale di sopperire ai bisogni di tutti i rifugiati. Stando ai dati trasmessi dall’UNHCR[19], le strutture adibite all’accoglienza di profughi presenti sul territorio sudanese sono già sovraccariche, con un numero di persone provenienti dall’Etiopia che ha ormai superato i 40 mila e non accenna a fermarsi. In secondo luogo, si sospetta che il Sudan possa strumentalizzare il conflitto interno all’Etiopia per esercitare pressioni su Addis Abeba, al fine di ottenere delle concessioni relativamente alla contestata regione fertile di Fashqa e alla Grand Ethiopian Renaissance Dam[20], la cui costruzione ha suscitato le preoccupazioni sia del Sudan che dell’Egitto, che vedrebbero l’andamento del flusso del Nilo Azzurro dipendere totalmente dalle decisioni dell’Etiopia[21].
Se il Sudan decidesse di supportare il TPLF per estorcere concessioni al governo etiope, verrebbe trascinato all’interno di un logorante conflitto regionale, che vedrebbe schierati da una parte il TPLF e il Sudan e dall’altra l’Eritrea e le forze federali etiopi.

La transizione alla democrazia è ancora lunga

La grave crisi che l’Etiopia sta vivendo lascia ormai intendere chiaramente che la strada verso una democrazia multi-partitica nel Paese è ancora lunga e difficile. Senza dubbio, il Primo Ministro Abiy non si è rivelato all’altezza delle promesse avanzate al momento del suo insediamento. Ricorrendo all’uso della forza per tenere unito il Paese, Abiy ha dimostrato di affrontare la questione etnica che infiamma l’Etiopia in maniera analoga ai suoi predecessori. Citando le parole dello scritto eritreo-etiope Sulaiman Addonia[22], “Abiy si sta rendendo protagonista di una storia troppo familiare in Africa, scritta nel sangue da politici che ricercano il potere ad ogni costo”.
Se Abiy non abbandona al più presto le armi in favore di una gestione pacifica della crisi con i Tigray, il Primo Ministro rischia di portare la nazione al collasso. Il 2020 è stato un anno difficile per un Paese ancora troppo fragile come l’Etiopia, dapprima colpita dalla siccità e dall’invasione di locuste che hanno rovinato raccolti e ridotto alla fame numerose famiglie[23], poi attanagliata dall’emergenza sanitaria legata al Covid-19, ed infine minacciata da una crisi politica che ha risvegliato contrasti etnici e che rischia di spargere il sangue di civili innocenti. Soltanto fermando i combattimenti e intavolando una negoziazione tra le parti, il governo di Abiy potrà ripristinare la pace nel Paese, sanando una volta per tutte le ferite ancora aperte dell’Etiopia.


Note

[1] Tweet di Abiy Ahmed, 6 novembre, Twitter

[2] Etiopia: spaventoso massacro di civili nel Tigré, Amnesty International, 11 novembre 2020

[3] Ethiopian refugee numbers in Sudan cross the 40,000 mark, UNHCR News and Stories, 24 novembre 2020.

[4] Sul passaggio dal regime dittatoriale socialista al federalismo etnico si veda: Muhammad Abid, The Ethiopian Federal System, Friedrich-Ebert-Stiftung, Addis Ababa, 2011

[5] B. Bruton, Calls for negotiation are driving Ethiopia deeper into war, Atlantic Council, 13 novembre 2020

[6] Per approfondimenti sull’ascesa dell’EPRF e la costruzione del federalismo etnico si rimanda al Podcast di International Crisis Group, “Ethiopia’s Fragile Transition”, al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=Gxg-cakv56I&t=1543s.

[7] M. Stevis-Gridneff, Nobel Peace Prize Awarded to Abiy Ahmed, Ethiopian Prime Minister, New York Times, 11 ottobre 2019

[8] S. Sengupta, Can Ethiopia’s New Leader, a Political Insider, Change It From the Inside Out?, New York Times, 17 settembre 2018

[9] After making peace, Ethiopia and Eritrea now focus on development, UN Africa Renewal Magazine, dicembre 2018

[10] M. Kiruga, Abiy Ahmed paddles Ethiopia’s Prosperity Party towards elections, The Africa Report, 5 marzo 2020

[11] Managing the Politics of Ethiopia’s COVID-19 Crisis, International Crisis Group, 15 aprile 2020

[12] G. Paravicini, Ethiopia’s Tigray holds regional election in defiance of federal government, Reuters, 8 settembre 2020

[13] D. Walsh, S. Marks, Ethiopia Escalates Fight Against Its Powerful Tigray Region, New York Times, 5 novembre 2020

[14] Clashes over Ethiopia’s Tigray Region: Getting to a Ceasefire and National Dialogue, International Crisis Group, 5 novembre 2020

[15] Ethiopia: Not too Late to Stop Tigray Conflict from Unravelling Country, International Crisi Group, 10 novembre 2020

[16] Inoltre, Abiy Ahmed ha escluso il TPLF dal processo di riconciliazione con l’Eritrea che ha portato alla firma dell’accordo di pace nel 2018.

[17] Ethiopia: Tigray leader confirms bombing Eritrean capital, Al Jazeera, 15 novembre 2020

[18] Ethiopia: Not too Late to Stop Tigray Conflict from Unravelling Country, International Crisi Group, 10 novembre 2020

[19] Aid urgently needed for Ethiopians streaming into Sudan, UNHCR News and Stories, 17 novembre 2020

[20] N. Manek, M. K. Omer, Sudan Will Decide the Outcome of the Ethiopian Civil War, Foreign Policy, 14 novembre 2020.

[21] B. Mutahi, Egypt-Ethiopia row: The trouble over a giant Nile dam, BBC News, 13 gennaio 2020

[22] S. Addonia, I Was a Child Refugee. Another War in Ethiopia Is Forcing More Children Into the Camps, New York Times, 26 novembre 2020

[23] 2020 Global Report on Food Crisis, World Food Programme, 2020


Foto copertina: I manifestanti mostrano un gesto a braccia incrociate durante una protesta dopo la morte del musicista e attivista Hachalu Hundessa sulla corsia in direzione ovest dell’Interstate 94 il 1 ° luglio 2020 a St Paul, Minnesota. Hundessa è stata uccisa a colpi di arma da fuoco ad Addis Abeba, in Etiopia, il 29 giugno, il che ha suscitato proteste in corso in tutto il mondo. Stephen Maturen – Getty Images Time